Solo gregoriano

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musica11

Luigi Garbini è presbitero della diocesi ambrosiana. Autore di volumi di storia della musica liturgica e sacra, ha recentemente partecipato alla trasmissione radiofonica “Momus” di RAI Radio 3 condotta dal musicologo Sandro Cappelletto (qui). Risponde ora a domande poste da Giordano Cavallari.

  • Don Luigi, nella circostanza radiofonica, lei ha evidenziato – o sostenuto – l’unicità del gregoriano nella storia della musica liturgica cattolica. Perché?

Non si tratta di essere o no sostenitori del canto gregoriano. Si tratta di guardare in faccia alla realtà, soprattutto quando essa è unica. Il canto gregoriano, come noi lo conosciamo oggi, è l’espressione vocale del cristianesimo europeo, così come è venuto ad emergere quale civiltà a sé stante, tra l’VIII e il IX secolo.

Quindi, parlare di gregoriano significa già coinvolgere l’Occidente in un particolare momento della sua ascesa. Oggi viviamo invece un periodo che sta segnando piuttosto la sua scomparsa: quindi, a mio modo di vedere, non perdere l’unicità del canto gregoriano significa anche non perdere quello che di buono c’è nella storia dell’Occidente.

Messiaen e il gregoriano
  • Nella stessa circostanza, ha ricordato ciò che il compositore Olivier Messiaen pensava del gregoriano. Può ripeterlo?

I caratteri attribuiti da Olivier Messiaen al canto gregoriano servono a identificarlo soprattutto quale strumento liturgico. La purezza è, ad esempio, una caratteristica attribuita ai metalli, i quali possono contenere, in fase di estrazione, elementi estranei: il canto gregoriano è puro, non ha scorie o quanto meno ne ha poche, è il grado zero del canto liturgico in cui troviamo soltanto gli elementi insopprimibili della musica, ove al centro c’è la verità della Parola, unica preoccupazione.

La leggerezza è poi evidente nella natura propria di questo canto che non esige accompagnamento di nessun tipo. E la leggerezza, a mio modo di vedere, è una delle virtù più importanti da coltivare nel nostro tempo: un tempo pesante per definizione; un tempo pieno, pure, di liturgie pesanti: pesanti per le parole, fiumi di parole che spiegano e che confondono, che polverizzano i gesti simbolici.

Il canto gregoriano è, infine, un correttivo dei sentimenti collettivi in gioco nella gestualità liturgica, in particolare per quanto riguarda la gioia che il canto gregoriano non traduce in termini quantitativi, per addizione, bensì con strumenti qualitativi. Sarebbe utile, a tal proposito, andare a rileggere quanto ha scritto Romano Guardini a proposito della dialettica tra soggetto e comunità, tra l’“io” e il “noi” dentro l’azione liturgica.

  • Secondo lei, dunque, la musica liturgica cattolica dovrebbe tornare al gregoriano?

“Tornare” non mi piace: non si torna mai indietro. Al massimo, si torna da capo. Ho detto che il canto gregoriano è una testimonianza precisa, datata dell’Occidente. Il rischio è quello di storicizzarlo, metterlo in una teca di vetro da aprire ogni tanto per qualche esposizione, rendendolo in tal modo inefficace.

In fondo, in un sistema omogeneo come quello occidentale, ove il latino rappresentava una società oltre che una cultura, la proliferazione polifonica, nelle sue varie stagioni, poteva ancora contare sulla referenzialità del precedente canto gregoriano. Ma oggi, in un mondo in continua migrazione – e soprattutto in un Occidente dove il cristianesimo perde poco per volta la propria consistenza rappresentativa – si tratta di trovare il modo di renderlo di nuovo vivo, praticandolo e affiancandolo alle altre tradizioni religiose.

Resta significativo, a questo proposito, il tentativo di fusione delle due tradizioni – gregoriana e africana – prodotto in Senegal, a Keur Moussa, agli inizi degli anni Sessanta, da parte dei monaci di Solesmes: esperimento che ha visto l’introduzione della kora, un’arpa-liuto, nel culto. Nella Chiesa italiana, invece, sembra che si cerchi di eliminare proprio la sua specifica tradizione. Molte sono le tradizioni, d’accordo. Fondamentali. Ma perché perdere propria la nostra?

Canto in latino
  • È ipotizzabile una riformulazione del gregoriano in lingua nazionale?

Questo no. Negli anni dell’immediato post-concilio si sono cercate strade che andassero in questa direzione. Joseph Gélineau fu primo fra tutti, parallelamente alla traduzione della Bibbia nelle lingue nazionali. Ma per il gregoriano non si trattava solo di riproporre la modalità diatonica.

Non è solo una questione di musica. È la fusione tra la prosodia latina e la conduzione melodica gregoriana che non è replicabile. Ma è l’operazione in sé stessa che sarebbe sbagliata. Noi dobbiamo fare i conti con una tradizione che, proditoriamente, è stata spazzata via da una precomprensione liturgica. E con essa anche le varie tradizioni di canto liturgico popolare, alcune della quali ancora, miracolosamente, sopravvivono in area mediterranea.

Com’è noto, dal dettato della Sacrosanctum concilium il canto gregoriano non è stato abbandonato, al contrario: solo, quel repertorio, non corrispondeva più alle istanze di rinnovamento che di fatto presero il sopravvento.

  • Dovrebbe restare, dunque, ciò che era “allora”?

Sì, il canto gregoriano va semplicemente praticato così com’è, perché ha una sua intrinseca riconoscibilità e corrisponde naturalmente ad una concezione della liturgia che privilegia la differenza tra gli ambiti sacro e profano. Gran parte della produzione degli anni successivi è andata a comporre un non-repertorio.

Nel caso in cui si sono imposti certi canti, in alcune aree geografiche o all’interno di specifici movimenti: nella maggior parte dei casi questi non avevano alcuna attinenza col repertorio gregoriano; canti senza storia o, meglio, frutto della “storia” musicale dei loro autori.

Esecuzione
  • Come si affronterebbero le difficoltà esecutive del gregoriano?

Il tema della difficoltà va declinato con chiarezza. Primo: il canto liturgico non avviene in una sala di incisione e non ha la preoccupazione di essere impeccabile. Tutti amiamo le cose fatte bene, ma non è lo scopo primario del culto. Secondo: l’organizzazione del canto liturgico non prevede che tutti facciano tutto.

La forma del canto gregoriano si presenta spesso secondo il modulo responsoriale. Una sana e oculata alternanza tra la schola cantorum e l’assemblea permette di distribuire le difficoltà esecutive. Altra cosa è l’intelligibilità dei testi su cui già si era espresso il Concilio di Trento. Ma anche questo aspetto non va inteso in senso massimalista.

  • Serve comunque preparazione. Chi formerebbe?

Esiste un Pontificio Istituto di Musica Sacra ed esistono tante scuole diocesane. Questo è il loro compito. Esistono poi anche i vescovi che devono fare la loro parte nella valorizzazione della figura professionale di chi educa una comunità al canto.

E poi esistono i parroci che dovrebbero, innanzitutto, trovarsi d’accordo col discorso fatto qui e investire in questa figura. Qui il punto è lo stesso, da anni: queste figure professionali vanno retribuite.

Il Vaticano II
  • La Sacrosanctum concilium voleva la “partecipazione piena e consapevole” delle assemblee. Lei mi sembra altrimenti rivalutare, almeno in parte, l’ascolto. È così? Resteremmo comunque dentro gli intenti conciliari?

La actuosa partecipatio non è un’invenzione del Concilio, c’era già nel Motu Proprio (1903) di Pio X. È una prerogativa del rito, ma gode di caratteristiche proprie.

Il problema è che, dagli anni Settanta, partecipare significa “massificare”, col rischio di partire da premesse che intendono salvaguardare l’individuo – il soggetto che prega e che aderisce ad una preghiera corale – e finire per ottenere il suo appiattimento. È quello che accade nelle nostre liturgie, quando la musica e il canto – ma anche le parole dell’omelia – non permettono l’adesione, l’identificazione e la preghiera, perché sono sfasate, povere, pesanti.

  • Nella puntata radiofonica sono stati citati alcuni autori contemporanei di musica sacra. La loro produzione su testi liturgici, secondo lei, è destinata alle sale da concerto – o alle chiese trasformate in sale da concerto – ovvero c’è qualcosa di “utilizzabile” per la grande liturgia?

Impiegare nella liturgia moduli diversi va proprio nella direzione di un’actuosa partecipatio/communicatio. In questo modo, si offre uno spettro più ampio di identificazione che permetta a soggetti con sensibilità e formazione culturale diverse di prendere parte al rito. Spesso consideriamo i fedeli sempre come soggetti da educare e da istruire, ma la società nel frattempo fa proprie molte nuove acquisizioni culturali. I sacerdoti devono smettere di considerare i fedeli come sotto-acculturati.

  • Cosa pensa delle tante altre forme sperimentate in questi anni. Il pensiero va ai gruppi con le chitarre…

Non butterei via niente. Gli etnomusicologi del futuro potrebbero accusarci di aver contribuito alla perdita di particolari reperti dell’antropocene. Lo penso realmente: la musica liturgica degli anni Sessanta e Settanta è preziosa e, nel contempo, esaurita. Oggi quelle esperienze, più o meno giovanilistiche, non sono, semplicemente, più “attuali”, per l’evoluzione della musica e delle sue espressioni.

Ma proprio per questo possono risultare ancora utili. Da un certo punto di vista, quelle espressioni erano più autentiche di tanta musica che è stata prodotta dagli anni Ottanta. Questa sì che la butterei, senza alcuna remora. Mi riferisco alla mole spaventosa di noiosa musica che riempie ancora le liturgie italiane e che non andrà a comporre alcun repertorio, perché non ha storia: non è di nessuno.

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Un commento

  1. Adelmo Li Cauzi 4 aprile 2023

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