Rotte e numeri dei migranti, oltre i populismi

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Rotte migranti

Chiudono confini, nuove recinzioni, ma la crisi migratoria non accenna a diminuire.

La visita del papa a Lesbo – a detta dei vescovi europei un punto di riferimento per ogni azione di accoglienza in Europa nei mesi futuri – e gli incredibili avvenimenti che si stanno verificando al Brennero (che dopo 18 anni ritorna ad essere un “confine”) focalizzano l’attenzione sulle rotte dei migranti che bussano alle porte del nostro continente, un fenomeno al centro delle cronache di questi ultimi mesi. Non emergenza, hanno sottolineato in una dichiarazione del 12 aprile scorso i vescovi accreditati presso la UE, bensì un problema destinato ad occupare l’agenda europea per i prossimi anni.

Su questo tema, contro ogni facile populismo, ha parlato nei giorni scorsi la dott.ssa Anna Clementi, operatrice del Centro di accoglienza Darsena di Venezia ai giornalisti riuniti presso la Sala Rosa del Palazzo della Regione a Trento.

Una rotta ormai bloccata

La rotta balcanica non esiste più: un dato di fatto non ancora metabolizzato da quanti sfruttano la crisi dei migranti e rifugiati per interessi di consenso di parte.

I numeri parlano da sé: secondo i dati forniti dall’UNHCR nel mese di gennaio i cosiddetti SIA (Siriani, Iracheni, Afghani) arrivano a ondate di circa 2.500 persone al giorno (nei mesi di ottobre-novembre si è giunti anche a 5 mila), mentre alla data del 6 aprile, a rotta balcanica ormai bloccata, i numeri non raggiungevano i 70/giorno.

L’accordo del 18 marzo fra Unione Europea e Turchia parla di «rimpatrio dei migranti irregolari nel pieno rispetto del diritto UE, escludendo ogni forma di espulsione collettiva», ma la realtà dei fatti è purtroppo ben diversa. Il sistema greco è ormai al collasso per cui diventa estremamente difficile anche solo inoltrare domanda di asilo e il respingimento è automatico.

Ci si interroga se la Turchia rappresenti un “paese terzo” sicuro e se venga rispettato il principio di non respingimento: è provato infatti il respingimento di oltre 300 persone fra Turchia e Siria in poche settimane (d’altra parte la Turchia ha firmato la Convenzione di Ginevra nel 1951 con la clausola dei soli cittadini europei, quindi l’esclusione dei siriani è perfettamente legale per quel paese).

L’accordo di marzo poi differenzia tra «reinsediamento» (lo spostamento di persone da un paese terzo verso la UE) e «ricollocamento» (lo spostamento di persone da un paese all’altro), ma persiste una grande confusione fra Turchia ed Europa. È vero che l’Unione Europea ha nel frattempo messo a punto un programma di volontariato di ammissione umanitaria e che gli Stati europei si sono impegnati a collaborare con la Turchia per il miglioramento della situazione in Siria (esiste l’ipotesi della creazione di una safe-zone), tuttavia tra il dire e il fare del proverbio sembrano davvero essere di ostacolo le diverse normative vigenti tra i paesi occidentali e il governo di Ankara.

La verità dei dati

Ma, per fotografare la situazione di queste ultime settimane (nettamente cambiata rispetto ai mesi precedenti), forse sono ancora più significativi alcuni dati.

Nel 2014 era ancora la rotta mediterranea quella più trafficata (170.757 persone contro le 50.831 della rotta balcanica) per un totale di oltre 200 mila persone giunte in Europa.

Nel solo anno 2015 sono state oltre 1 milione le persone che hanno bussato alle porte dell’Europa (154 mila dall’Italia e circa 900 mila dalla Grecia): più di metà provenienti dalla Siria, seguivano afghani, irakeni, pakistani, iraniani.

In questi primi mesi del 2016 sono già 36 mila le persone approdate in Grecia.

Ma l’inizio dell’anno in corso ha segnato anche la costruzione di nuove recinzioni tese a bloccare gli ingressi: sono i muri innalzati in Bulgaria, Ungheria, l’annunciata costruzione di una barriera al Brennero o a Tarvisio, lo stesso fiume Evros in Grecia…).

E nel frattempo la crisi siriana non accenna minimamente a migliorare.

Intanto in Grecia dal mese di febbraio vengono bloccati anche gli afghani: quindi non più ingresso dei SIA, di fatto soltanto SI (siriani e irakeni), ma in marzo hanno incontrato enormi difficoltà quanti provenivano da Baghdad e Damasco (e dire che la Convenzione di Ginevra all’art. 33 garantisce il diritto di asilo come soggettivo, vale a dire un diritto senza alcuna limitazione di provenienza).

E il 24 marzo l’UNHCR e MSF (Medici senza frontiere) abbandonano i loro avamposti sulle isole greche lasciando di fatto le persone prive di assistenza.

Dal 4 aprile, inizio dell’effettiva applicazione dell’accordo UE-Turchia, sono già più di un centinaio i rimpatriati, mentre la situazione nel campo di Idomeni-Gevgelija sta diventando insostenibile: per oltre il 60 % si tratta di donne e bambini con il mito di raggiungere la Germania, ma si assiste a scene drammatiche come quelle madri costrette a bruciare plastica per scaldare i figli (con grave rischio di intossicazioni respiratorie per emissioni di diossina).

In Italia la situazione è totalmente diversa anche se a Trieste il caseggiato che ospita profughi vicino alla stazione è ormai zeppo (e a Udine lo stesso), mentre dal Brennero il transito è limitato a poche decine di persone al giorno.

L’incognita delle nuove rotte

Bloccata la rotta balcanica, l’ipotesi più credibile sembra essere quella di un’attraversata dalla Turchia verso il nostro Paese, o magari dal Libano attraverso l’isola di Cipro oppure un passaggio in Libia (assai rischioso per le milizie del Daesh) con l’apertura di una nuova rotta mediterranea via Lampedusa.

Ma, a quanti agitano lo spettro dell’invasione, rispondono ancora una volta i numeri.

Solo un esempio in riferimento alla popolazione siriana in fuga dal conflitto: a tutt’oggi in 13 mila hanno ottenuto asilo in Serbia, 72 mila in Ungheria, 245 mila in Germania, 106 mila in Svezia, 18 mila in Austria, 18 mila in Olanda e altri 18 mila in Danimarca.

E in Italia? Non più di 2.500 in tutto. Forse occorrerebbe gridarlo dai tetti, era la conclusione della Sala.

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