Il mito di Vasco

di:

«Le canzoni son come i fiori
nascono da sole, sono come sogni
che a noi non resta che scriverle in fretta
perché poi svaniscono»
(Una canzone per te, da Bollicine, 1983)

Vasco Rossi

Ma come si fa, nel breve volgere di poche righe, a parlare (ancora) di Vasco, anzi, del Blasco nazionale, dopo il concerto di ModenaPark che ha battuto ogni record mondiale, per presenze e attesa spasmodica di un’intera città? Vale a dire, accettando il rischio della retorica, di una leggenda vivente, adorato come nessun altro nel panorama musicale italiano?¹

Potrei cavarmela andando a saccheggiare le auree chiose dell’intellettuale (modenese di provincia) Edmondo Berselli nel suo Canzoni, quando ha buon gioco a metterne in luce la profonda italianità, il suo essere divenuto nel tempo un simbolo transregionale e multigenerazionale; il suo proporsi così, nudo e crudo, senza decaloghi, ammonimenti, messaggi epocali da trasmettere. Una lettura, a ben vedere, del tutto sintonica con quella offerta dallo scrittore correggese Pier Vittorio Tondelli (scomparso appena trentaseienne nel 1991), che ancora negli anni Ottanta ne tracciò, su L’Espresso, un ritratto prossimo alla perfezione.

Tondelli scriveva di un artista incapace di esporsi forte di un sublime messaggio musicale, ma piuttosto di «un atteggiamento, una storia vissuta, una mitologia»; il quale, in anni in cui tutto stava andando verso la normalizzazione, il carrierismo e il perbenismo, «con la sua faccia da contadino, la sua andatura da montanaro, la sua voce sguaiata da fumatore, il suo sguardo sempre un po’ perso», si è fatto, più o meno consapevolmente, l’idolo di una diversità, di un farsi i fatti propri.

L’usignolo d’oro

Eppure, proprio questa assenza di visioni del mondo e di filosofie è, direi, il succo di un successo senza precedenti che – all’epoca di Punto Radio in quel della Zocca, piccolo comune frignanese, sull’Appennino, famoso sinora per le crescentine e il Museo del borlengo – era onestamente impossibile, più che difficile, prevedere. Ma è stato così, e i non pochi suoi detrattori hanno dovuto farsene una ragione: Vasco non comunica nulla se non se stesso, e scusate se è poco.

Ed è così sin da quel lontano 26 dicembre 1965 quando, appena tredicenne, conseguiva la sua prima affermazione pubblica trionfando in un concorso canoro, L’usignolo d’oro, svoltosi nel Teatro comunale di Modena. Un concorso fatidico, anche perché si tenne solo quell’anno, a dispetto della sua intenzione di fungere da contraltare modenese al bolognese Zecchino d’oro: lui, spinto dalle naturali attenzioni della madre Novella (descritta dalle biografie come «una casalinga appassionata di musica»), ottenne la vittoria eseguendo un brano intitolato Come nelle fiabe, composta per l’occasione da Lorenzo Marengo e musicata dal suo maestro di canto, Antonio Bononcini.

Due giorni dopo, sul Resto del Carlino, Gian Carlo Silingardi ne scrive in questi termini: «Vasco Rossi, dodicenne di Zocca, arriva primo al concorso Usignolo d’oro con un punteggio di 100. Nessuno gli ha insegnato a cantare, ha imparato da solo ascoltando i dischi di Elvis Presley. Pensate, era la prima volta che veniva a Modena, si guardava intorno e si meravigliava di tutto, della Ghirlandina: “Mai, mai me la sarei immaginata così alta e così bella”. Del teatro comunale che: “È grande come il paradiso!”. Si aggirava dietro le quinte con i suoi calzoni troppo lunghi, la giacca troppo larga, i tre paperi di stoffa e la bottiglia di liquore che gli avevano dato, stretti al petto. Non sapeva se ridere o piangere». Mentre ci fu chi commentò, impietosamente, che «ha vinto un ragazzino autodidatta di Zocca che ha imparato a cantare portando al pascolo le pecore»…

Nel frattempo, il Vasco adolescente ha modo di cantare anche nel coro della parrocchia, esibendosi persino in qualche festino di famiglia; tanto che alla fine si trova naturalmente a fondare, con una manciata di sodali coetanei, il classico complesso. Nei Killer, trasformatisi in breve nei Little Boys, suona la chitarra, oltre, ovvio, a cantare. In breve, i Little Boys riescono a diventare il gruppo musicale di riferimento del principale albergo della Zocca (probabilmente l’unico, all’epoca), l’Hotel Panoramic, il cui gestore li prenota regolarmente ogni volta ci sia da accompagnare matrimoni, cresime, ricorrenze varie.

Seguono anni di spostamenti ripetuti, a Modena e poi a Bologna, dove Vasco diventa il ragionier Rossi, e si avvia a una carriera universitaria che avrà scarso successo, iscrivendosi, dopo un tentativo fallito a causa dell’opposizione paterna di tuffarsi nelle prime spire del DAMS, prima a economia e commercio e passando successivamente a pedagogia (abbandonerà definitivamente gli studi a otto esami dalla laurea).

Pur affascinato dal mondo dei teatri alternativi, l’ambiente bolognese, non sembra essergli particolarmente congeniale, se lo ritroviamo spesso e volentieri di ritorno sul suo Appennino, dove, proprio a Zocca, si metterà a insegnare applicazioni tecniche alle medie.

Da Punto Radio a Sanremo

Risale al ‘75 il suo impegno, che finirà per risultare decisivo in termini di scelte professionali, come cofondatore di una delle primissime radio libere, insieme all’amico Marco Gherardi: Punto Radio, sul modello delle centinaia che nascevano in quegli anni in Italia, destinata in prima battuta a servire il pubblico dell’Appenino tosco-emiliano.

In breve diventa un apprezzato disk-jockey, affinando i propri gusti musicali, e ideando un programma di un certo successo, Il Muretto, in cui sperimenta l’interazione con gli ascoltatori con i quali discute delle tematiche più varie.

È in questo contesto che Vasco, aiutato dall’amico Gaetano Curreri leader degli Stadio e futuro suo abituale collaboratore, trova modo di far uscire prima il suo 45 giri d’esordio, nel ‘77 (contenente Jenny e Silvia), e poi il primo long-playing, l’anno dopo, per l’etichetta Lotus, Ma cosa vuoi che sia una canzone.

Qualcosa si smuove, ma non succede nulla di clamoroso, in realtà, in termini commerciali, nonostante la spinta offertagli dalla notorietà di Punto Radio; ed esiti non dissimili toccheranno al secondo album, Non siamo mica gli americani (‘79), a dispetto di un pezzo destinato a diventare un autentico evergreen, Albachiara (e giù con gli accendini, senza reprimere la lacrimuccia di rito: «Respiri piano per non far rumore…»).

Qualcosa succede, però, l’anno dopo, quando – nel contesto di un programma nazionalpopolare come Domenica In – Vasco interpreta, tratto da Colpa d’Alfredo (1980), un brano come Sensazioni forti.

Tocca a un intellettuale rispettato come lo scrittore Nantas Salvalaggio, in un commento comparso sul settimanale Oggi, dargli una buona mano, descrivendolo impietosamente come «un ebete drogato, bruttino e malfermo sulle gambe». Ormai ci sono tutte le premesse per un’affermazione definitiva, che generalmente si fa risalire al Sanremo ‘83, quello della Vita spericolata strillata, più che cantata, dal nostro reggendosi in piedi con qualche fatica, in cui tanti coetanei si riconoscono, «ognuno a rincorrere i suoi guai/ ognuno col suo viaggio/ ognuno diverso/ ognuno in fondo perso dentro i fatti suoi» (e spesso riletto, nei corali casalinghi a squarciagola, con un sinonimo di fatti nell’ultimo verso…).

Siamo solo noi…

Ce n’è abbastanza, ritengo, anche senza continuare a seguire la carriera del Blasco ancora in scoppiettante attività, per accordargli qualcosa di più dell’onore delle armi, al di là dei gusti personali.

È lui, a conti fatti, l’artista generazionale per antonomasia del nostro tempo balzano, sin dal lontano 1981, con Siamo solo noi, dall’album omonimo: «Siamo solo noi/ che andiamo a letto la mattina presto/ e ci svegliamo con il mal di testa/ Siamo solo noi/ che non abbiamo vita regolare/ che non ci sappiamo limitare». Con una precisazione, cruciale: che il noi del vate della Zocca non è neppure lontano parente di quello diffusosi negli anni Sessanta (caro ai Nomadi e al Guccini dell’epoca, per intenderci): il suo scenario non è l’ambito sociale, e in particolare la contrapposizione sorda fra teen agers e semifreddi, bensì una moltitudine anonima di individui, che non possiede messaggi da lanciare né alcuna voglia di ascoltarli (se per caso ci fossero).

La cultura non sembra interessarlo per nulla, e lui non ha nulla a che spartire con il manipolo di cantautori alla Vecchioni, De Gregori o De André che, grosso modo suoi coetanei o di poco più anziani, dominavano l’immaginario nazionale engagé negli anni del suo boom (Faber, peraltro, provava grande stima nei suoi confronti, fino a dichiarare: «L’unico che da noi ha seriamente provato a fare il rock e ci è riuscito è Vasco Rossi. Se Vasco cantasse i suoi rock in modenese ci sarebbe da rotolarsi dal ridere, la si considererebbe forse più una burla che non una dissacrazione»).

Autore di slogan più che poeta, costantemente perso fra bollicine e bolle di sapone, resta il fatto che nessuno come lui si è mostrato in grado di raffigurare plasticamente il disagio giovanile che ha attraversato gli anni Ottanta e Novanta, e di una provincia che stava imbruttendosi e inaridendosi, abbandonata al grigio senso di vuoto delle discoteche.

Così, alla fine non è un caso né senza significato che Pierluigi Bersani, altro emiliano purosangue, ogni volta che viene intervistato sui suoi gusti musicali, risponde con competenza inattesa parlando del Blasco. E che, ora, siamo costretti, tutti, nessuno escluso, ad arrenderci di fronte a ModenaPark.

Questo è un brano rielaborato dall’autore, che comparirà in autunno nel libro di Brunetto Salvarani e Odo Semellini, Quei gran pezzi dell’Emilia-Romagna, Il Margine, Trento 2017, dedicato alla musica e ai musicisti emiliano-romagnoli.

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