2. Rivoluzione mancata? Le riforme e lo Spirito

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La Chiesa immobile

Andrea Grillo risponde all’interpretazione immobilistica del papato di Francesco proposta da Marco Marzano nel suo libro La Chiesa immobile. Francesco e la rivoluzione mancata. Vedi anche gli interventi  di  Fabrizio Carletti e Brunetto Salvarani su SettimanaNews.

Dopo aver recensito il suo libro, e aver letto le sue repliche su SettimanaNews, vorrei brevemente confutare una serie di affermazione dell’amico Marzano, che è sociologo, e, da sociologo, ha tutto il diritto di dire la sua sulla Chiesa e su Francesco, ma deve tener conto che ogni semplificazione perde in precisione e finisce per essere generica quando non ingiusta. Il giudizio sulla Chiesa e su Francesco, in altri termini, deve tener conto di molte maggiori variabili di quelle che Marzano ha considerato.

Faccio un esempio: è del tutto legittimo analizzare le sinfonie di Beethoven sia come “anticipazioni” di ciò che sarà Wagner, sia come decadenza di ciò che fu Mozart… ma, per capire Beethoven, tutte queste “riduzioni” rischiano di fraintenderlo.

Così la prima cosa che trovo curiosa è che Marzano voglia parlare di Chiesa e di Francesco astraendo totalmente dal senso teologico della prima come del secondo, anzi, facendo passare questo significato teologico come un’“ideologia” dalla quale egli sarebbe libero. La pretesa di dire la verità su Francesco prescindendo dalla teologia assomiglia molto alla pretesa di dire qualcosa delle sinfonie di Beethoven rinunciando ad ogni orecchio musicale…

A difesa di Marzano va detto che la teologia cattolica, fino agli inizi del XX secolo, poteva essere costruita totalmente senza alcun rapporto con le “strutture sociali”: presupponeva semplicemente se stessa come la societas perfecta. Questa lunga rendita di posizione si è chiusa con il concilio Vaticano II: da allora in poi dobbiamo ascoltare anche il sociologo, l’antropologo, lo psicologo per comprendere i presupposti della vita ecclesiale. Ma ciò non toglie che l’esperienza in gioco non si riduca mai a semplice lotta per il potere, anche se tale lotta tra diritti e doveri costituisce un orizzonte inaggirabile per annunciare il primato del dono e dare ad esso forma visibile.

Sacro e sociale

Ma veniamo ai punti qualificanti del discorso “difensivo” di Marzano:

a) Marzano pretende di dire “il tutto” della Chiesa escludendone la dimensione sacra, misterica, trascendente. Ora qui le cose sono molto delicate. La Chiesa non si esaurisce nella sua visibilità: ogni cristiano sa questa verità e ne fa, sia pure nelle diverse confessioni, una questione decisiva. Marzano pretende invece di semplificare il discorso classico e millenario sulla Chiesa con una “riduzione del sacro al sociale” che è soltanto una grande invenzione di E. Durkheim.

Io non credo nella Chiesa di Durkheim, ma in quella di Gesù Cristo, anche se ritengo di imparare molte cose importanti dai testi dei sociologi. Purché essi facciano i sociologi e non pretendano di dare giudizi sul piano sistematico, ecclesiologico e cristologico, su cui non hanno competenza.

E chiederei, anche, che potessero concepire un mondo e una Chiesa un poco più complessi delle loro semplificazioni strutturali. Parlare di grazia, di Spirito Santo, di risurrezione non è “essere ideologici”, ma dare voce alla struttura complessa dell’esistenza degli uomini di fronte a Dio.

b) Marzano contesta la mia accusa di “contraddittorietà”: da un lato, egli farebbe una critica “da sinistra”, ma poi finirebbe con il condividere la convinzioni “di destra”.

In verità, a me pare che qui Marzano riveli una rappresentazione inadeguata in generale della Chiesa e, in particolare, di papa Francesco. La spia di questa difficoltà mi sembra il modo con cui egli mette in tensione “realtà” e “rappresentazione”: Francesco sarebbe conservatore nella realtà e rivoluzionario nella rappresentazione.

Vorrei dire a Marzano che il vescovo di Roma è papa non solo sul piano della realtà, ma anche su quello della rappresentazione. La sua funzione, nell’economia corretta della comunione ecclesiale cattolica, oscilla precisamente su questi due livelli.

La tradizione sa bene che ci sono rappresentazioni che strutturano la realtà. Tante volte ho insistito nel dire che Francesco, come primo papa «figlio del concilio Vaticano II», sa bene che “cambiare linguaggio” è la prima grande riforma di cui la Chiesa ha bisogno. E su questo piano Francesco è stato precisamente il profeta di una Chiesa che deve “tradurre la tradizione”. Se si riduce tutto questo a “quantité negligeable”, ciò significa non comprendere il lungo travaglio ecclesiale che è giunto fin qui, lungo ben due secoli.

Francesco è, in grande fedeltà al Vaticano II, un cambio di paradigma e una rivoluzione culturale all’altezza del concilio di Nicea. Niente di meno. Altro che “papa immobile”.

Immagine e paradigma

c) La singolare coincidenza tra Marzano e gli esegeti cattolici dell’immobilismo di Francesco (come Buttiglione o Borghesi) dovrebbe far riflettere. Se un sociologo che vuole essere assolutamente laico finisce per condividere la lettura di Francesco con autori del “centrismo cattolico più tuzioristico” – e si unisce al coro di coloro che, sia pure con intenzioni opposte, sono preoccupati di dire: “tranquilli, tutto come prima” –, ciò dimostra che in lui, come in loro, non è difficile riscontrare un difetto di analisi teologica della complessità in gioco.

La Chiesa non coincide con il suo modello ottocentesco e borghese. Questo dà fastidio sia a chi vorrebbe combattere con un nemico fermo e con la guardia abbassata, sia a chi vorrebbe tenersi una Chiesa tridentina, con una piccola riverniciata moderna. Francesco, rispetto a costoro, parla altrimenti, e parla d’altro. I loro problemi non sono i suoi problemi.

d) L’avvio di processi di riforma, che Francesco ha saputo determinare, può sempre scontentare. Si muove la famiglia, ma il ministero è ancora fermo; si muove la curia romana, ma il rapporto con la periferia è più verbalizzato che attuato; i laici acquisiscono maggior peso, ma le donne sono ancora marginali. Certo, tutto questo è vero, ma un processo è avviato e un linguaggio è inaugurato, al suo livello più autorevole. O, meglio, è riavviato.

Ed è forse qui, su questo ri-avviamento, che Marzano mi pare meno convincente. Egli sembra troppo preoccupato di appiattire Francesco sui predecessori, per poter riconoscere davvero che il “dispositivo-Ratzinger” – operante da 30 anni – è stato disinnescato da Francesco. Non del tutto, non senza alcune esitazioni. Ma qui qualcosa di nuovo è ritornato a funzionare solo con e grazie a Francesco: l’autorità ecclesiale si è rimessa in ascolto e così è tornata ad essere autorevole, capace di cambiare.

Questo non è un “cambiamento di immagine”, come riduttivamente mi pare lo consideri Marzano, ma è un “cambio di paradigma” teologico ed ecclesiale. So bene che Marzano, come il card. Müller, ritiene che nella Chiesa non possa esservi alcun cambio di paradigma. Ma questo è un problema della loro teologia vecchia e affetta da grave amnesia storica, non della teologia del concilio Vaticano II.

In fondo, nel libro di Marzano si esprime una teologia troppo vecchia, e tanto più influente sul testo proprio perché largamente non tematizzata e inconsapevole. Da questa teologia apologetica e decadente Francesco appare sorprendentemente libero.

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