Lambiasi: con speranza verso il sinodo

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«Peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla». Cita papa Bergoglio il vescovo di Rimini Francesco Lambiasi nella sua recente lettera pastorale “Non lasciamoci rubare la speranza. Per avviare il nostro cammino sinodale”, nella quale riflette su quanto può aver inciso la situazione di pandemia sulla speranza cristiana.

Proprio perché «la pandemia ha aperto crepacci di urgenze, ha dischiuso squarci di rischiose emergenze, ha dilatato feritoie di domande, ha fatto avvertire il morso di devastanti smarrimenti», occorre reagire attivando «una speranza fondata e spendibile, affidabile e condivisibile».

È quello che si propone di fare mons. Lambiasi con questa lettera agile ed efficace, sviluppata per punti che ne facilitano la lettura e la memorizzazione.

Prima di tutto occorre sgombrare il terreno da tre tentazioni contro la speranza:

  • il pessimismo sterile, quello che si esprime dicendo “Ci troviamo in pochi, sempre di meno, ancora più stanchi, ancora più spenti. E con le chiese ancora più vuote”. Il vescovo chiama questo atteggiamento «sindome degli “ex combattenti”», di coloro cioè che, abituati ad una Chiesa militante, si ritrovano invece in una Chiesa «“ospedale da campo” bombardato e malridotto». A costoro mons. Lambiasi risponde citando un passaggio del libro Il filo infinito di Giorgio Rumiz: «Spesso accade che la speranza dia il meglio di sé proprio germogliando dal suo contrario: la disperazione».
  • la nostalgia del passato, cioè la convinzione che “Un tempo tutto andava meglio e la Chiesa funzionava al meglio”. Ma è proprio vero – si chiede il presule – che era tutto oro quello che luccicava? Certo che la grande Tradizione va custodita e valorizzata, «ma non con l’atteggiamento ostinato di chi la scambia con le tradizioni e si impunta a voler conservare la cenere del passato». E lancia un messaggio provocatorio rifacendosi al Vangelo: «Se il “Nemico” ha seminato la gramigna, da dove viene allora il grano buono»?
  • la paura del futuro, cioè la tentazione del tutto e subito, dell’affanno e dell’impazienza. È facile, davanti al vento del cambiamento, lasciarsi vincere dall’affanno, agire cioè come se tutto dipendesse da noi. Il vescovo ammonisce che spesso tale atteggiamento si risolve in un «“lock-down” totale», mentre dobbiamo avere «la serena certezza che Dio mantiene le sue promesse». Così come è facile lasciarsi prendere dall’impazienza di chi non sa aspettare, di chi vorrebbe «segni strabilianti, sbalorditivi, che suscitano audience e oceanici battimani» a differenza di Maria di Nazaret che riconosce l’azione di Dio nella sua vita di umile serva.
Le buone notizie

A queste tentazioni il vescovo contrappone quattro buone notizie:

  1. Dio ha già vinto la morte e noi possiamo sperare per una ragione sola: «perché il Crocifisso è risorto». La nostra speranza «poggia su un fatto roccioso, niente affatto friabile: Gesù di Nazaret». Se Lui è risorto, «il dolore non è l’ultima parola della mia vita, ma solo la penultima». Ed è risorto per essere sempre con noi. «Non si è reso latitante dai giorni incerti, inquieti e sofferti nei quali ci tocca vivere quaggiù».
  2. Lo Spirito Santo non si è volatilizzato, perché la Pentecoste è permanente e attuale. E «il santo Consolatore interviene in modo del tutto speciale quando, sul nostro cammino, incorriamo nel temibile ostacolo della tribolazione». Anzi, è proprio «la tribolazione che, grazie all’opera dello Spirito, genera la speranza».
  3. Pandemia: una dura lezione da non sprecare. Se abbiamo perso il gusto della fraternità, il Covid ci ha ricordato che «la comunità mondiale naviga sulla stessa barca». Da qui l’auspicio del vescovo: «Voglia il Cielo che alla fine non ci siano più “gli altri”, ma solo un “noi”. Non è più il tempo del “si salvi chi può”», perché «il “si salvi chi può” si tradurrà rapidamente nel “tutti contro tutti”».

Certo, non sono mancati segni di speranza: «La recente pandemia ci ha permesso di recuperare e apprezzare tanti compagni e compagne di viaggio che, nella paura, hanno reagito donando la propria vita».

4. Evangelizzare si deve e si può. «La Chiesa del futuro e il futuro della Chiesa è l’evangelizzazione». Con questi dieci tratti caratteristici:

1. Il messaggio da annunciare non è una mini-enciclopedia di verità religiose o un librone di precetti morali. È la notizia bella, buona e beatificante dell’incontro con un avvenimento, con la persona di Gesù Cristo morto e risorto.

  1. Il fine della missione non è la “colonizzazione”, l’indottrinamento della gente, ma la salvezza di tutti e di ciascuno degli esseri umani.
  2. Il soggetto dell’evangelizzazione non sono solo preti, frati e suore, ma tutto il popolo di Dio. Tutti i discepoli di Gesù, se veramente tali, sono tutti anche evangelizzatori.
  3. Lo stile dei missionari non è contrassegnato dalla pia devozione alla dea lamentela, né da una faccia da funerale o da un vischioso proselitismo, ma dalla gioia del vangelo e dall’amore per Gesù e per i poveri.
  4. Il metodo: il vangelo deve essere annunciato da persona a persona, con “fatti di vangelo”, ossia con la testimonianza di una vita credente e credibile.
  5. Le tentazioni degli evangelizzatori sono molteplici: l’individualismo, il pessimismo sterile, la mondanità pastorale, il neo-pelagianesimo, il neognosticismo, la guerra tra di noi.
  6. Le scelte irrinunciabili sono una serie di sì: alle relazioni nuove generate da Gesù Cristo, alla forza missionaria, alla speranza, all’essere comunità, all’amore fraterno.
  7. Le sfide ineludibili sono rappresentate soprattutto dai poveri, i laici, in particolare le donne e i giovani.
  8. Gli ambiti della missione sono tre: l’ambito della pastorale ordinaria, che comprende sia i fedeli che frequentano regolarmente, sia i fedeli che non partecipano regolarmente al culto. Il secondo ambito abbraccia le persone battezzate che però non vivono le esigenze del battesimo. Infine, il terzo ambito include coloro che non hanno ancora incontrato Gesù Cristo.
  9. I mezzi per un’evangelizzazione feconda ed efficace sono la grazia di Dio, la parola del Signore, l’appartenenza alla comunità cristiana, l’eucaristia, la preghiera, la pietà popolare e in particolare la pietà mariana.
Un piccolo decalogo

Mons. Lambiasi stila un altro piccolo decalogo per una conversione missionaria delle comunità cristiane.

– Qual è lo scopo per cui nel quartiere o nel borgo c’è una chiesa e una comunità cristiana? Perché chi arriva possa incontrare Gesù di Nazaret. Un luogo, quindi, in cui «non si gioca a fare i cristiani», ma dove ci si innamora di Gesù.

– Gesù non è un personaggio del passato, ma è vivo e lo si può incrociare, toccare, mangiare. Ha bisogno di amici “contagiosi”. Non gente “perfettina”, ma semplice e onesta, contenta di vivere e di essere cristiana.

– Occorre passare da una pastorale dei praticanti ad una pastorale dei credenti. Come? Non stringendosi attorno al campanile, ma frequentando le strade del mondo. Non tocca solo al prete, però. Assieme al parroco i laici adulti nella fede devono fare da ponte tra la parrocchia e “quelli-di-fuori”.

– Ogni comunità cristiana dovrebbe avere almeno quattro segni vitali, e cioè un segno di carità (ad es. una casa-famiglia), un oratorio per ragazzi e giovani, convivenze e campi scuola per giovani e famiglie e una “scuola” di preghiera.

– Come in famiglia, così in parrocchia il clima che si vive è il primo biglietto da visita. Si percepisce subito se c’è armonia o tensione, gioia o lotta continua, se c’è stima reciproca, se prima dell’organizzazione vengono le relazioni fraterne.

– E problema delle chiese che si svuotano? Si dice che la pandemia abbia dimezzato le presenze. Qui il vescovo cita Alberto Marvelli: «Quando gli uomini sapranno trovare Cristo per strada, ritroveranno anche la chiesa».

– «L’eucaristia domenicale o fa ardere il cuore o non è eucaristia». E il cuore arde se si celebra con fede e con vera partecipazione ponendo attenzione all’accoglienza, ai ministeri, al canto, alle letture, alle pause di silenzio…

– E l’omelia? Secondo papa Francesco è «la “pietra di paragone” per valutare la vicinanza e la capacità di incontro di un pastore con il suo popolo», tanto che chi non si prepara è «disonesto e irresponsabile».

– Il Vangelo si trasmette per contagio. Esso diventa efficace se nasce dall’ardore e dalla passione per Gesù.

– Per fare un corretto discernimento, bisogna «non rifiutare la profezia dei fratelli e delle sorelle, non squalificare chi pone domande, non far risaltare continuamente gli errori degli altri». E, dopo che si è fatto discernimento, bisogna prendere decisioni chiare e coraggiose, perché «non c’è niente di più imprudente dell’eccessiva prudenza».

In cammino verso il sinodo

L’ultima parte della lettera pastorale si sofferma sul progettato sinodo della Chiesa italiana. Non dev’essere un adempimento formale perché «in gioco è la forma stessa di Chiesa a cui lo Spirito ci chiama in particolare per questo tempo». Il sinodo ha il compito di rendere le Chiese che sono in Italia credibili e affidabili.

Per il buon esito del sinodo occorre mettere in campo il primato della persona sulle strutture, il dialogo tra le generazioni, la corresponsabilità di tutti i soggetti ecclesiali, l’armonizzazione delle risorse delle diverse comunità, il coraggio di superare il “si è sempre fatto così”, il servizio all’umanità nella sua integralità.

Dobbiamo curare un “noi” ecclesiale, inclusivo che viva in pienezza la dinamica di una Chiesa “popolo di Dio”, di una Chiesa che vada verso le periferie, di una Chiesa “riconciliata” al suo interno e capace di riconciliarsi con il mondo.

La rotta è tracciata. Buon cammino, Chiesa di Rimini!

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