Francesco, la politica, la Cina / 2

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Nella prima parte del saggio su “Il significato della politica internazionale di Francesco” padre Narvaja aveva approfondito il principio “il tutto è superiore alla parte” (EG 234-237). Ora illustra l’altro principio cardine dell’azione politica di papa Francesco: “il tempo è superiore allo spazio” (EG 222-225).

tempo necessario alla Chiesa e alla Cina

Dopo aver approfondito il principio “il tutto è superiore alla parte” (EG 234-237), padre Narvaja, nel suo saggio su “Il significato della politica internazionale di Francesco” (cf. La Civiltà Cattolica n. 4009 (1/15 luglio 2017), introduce un altro importante elemento del pensiero politico di Bergoglio, il tempo.

Scrive Narvaja: «C’è bisogno, dunque, di tempo: tempo affinché la verità risplenda e si imponga da se stessa, senza che venga fatta violenza; tempo che permetta l’azione di Dio nella vita dell’uomo e della città. È per questo che “il tempo è superiore allo spazio”. Il rispetto del dinamismo temporale significa un’apertura alla crescita, al dialogo, alla riflessione, alla conversione e all’azione dello Spirito».

Il tempo, in questo caso, è il tempo necessario alla Chiesa e alla Cina di maturare insieme e di comprendere la nuova situazione. È un orizzonte politico-culturale molto diverso dal semplice scambio diplomatico del do ut des, in cui due paesi barattano convenienze e ricatti per stabilire rapporti che possono essere alla fine solo commerciali.

Sembra di capire che il papa sia estremamente attento a portare con sé tutta la Chiesa in questo cammino verso la Cina, che è anche un cammino verso una nuova posizione della Chiesa nel mondo. Non può e non deve succedere quello che accadde ai gesuiti nel 17° e 18° secolo, quando i “favorevoli al dialogo” furono lasciati soli, come un’avanguardia staccata dal resto del corpo della Chiesa.

Le due iniziative di papa Wojtyla

In realtà, il dialogo della Chiesa con la Cina è figlio di circa trent’anni di strenuo lavorio. Papa Wojtyla, che veniva da un paese comunista e non mostrava nessun timore nei confronti del comunismo, aveva spinto con forza per un miglioramento dei rapporti con la Cina. Due iniziative particolarmente significative di quel papa, negli anni ’80, furono la concessione dello “stato di necessità” alla Chiesa cinese (poi revocato con la lettera ai cinesi di papa Ratzinger nel 2007) e il perdono concesso ai vescovi “ufficiali”.

Grazie allo “stato di necessità”, la Chiesa cinese ordinava i suoi vescovi senza chiedere l’autorizzazione del papa. Inoltre, il papa perdonava e approvava alcuni vescovi che la Chiesa ufficiale aveva illegittimamente ordinato.

Sia lo “stato di necessità” sia il perdono dei vescovi “ufficiali” furono eventi non indolori per la Chiesa cinese. Lo “stato di necessità” ha portato ad alcune nomine della Chiesa clandestina e della Chiesa ufficiale spesso non in linea con le speranze di Roma.

Inoltre, il perdono concesso ai vescovi “ufficiali” ha creato un risentimento da parte dei “clandestini”, alcuni dei quali ancora oggi si sentono traditi da quel perdono pensando: noi abbiamo sofferto e combattuto per decenni contro i “traditori” della Chiesa ufficiale e poi il papa li perdona. Questo atteggiamento è ben rappresentato nella parabola del figliol prodigo, dove il figlio fedele mostra risentimento verso il padre che abbraccia il figlio tornato pentito. Ma questo sentimento poggia anche su una realtà storica ancora oggi non bene delineata.

Ci spieghiamo. Fino a tempi recenti – dieci, quindici anni fa – gran parte dei rapporti era affidato all’Associazione Patriottica (AP), l’organizzazione semigovernativa sostenuta da Pechino per controllare i cattolici in Cina. Spesso l’AP giocava su più tavoli. A Roma diceva di essere un organo del governo cinese e quindi di rispondere a Pechino; a Pechino diceva di essere cattolica e di dover rispondere a Roma.

Le due affermazioni, in fondo anche veritiere, con il tempo hanno creato una posizione di rendita che faceva sì che le comunicazioni non fossero lineari. Certe azioni dell’AP non venivano comunicate a Pechino e certe altre non venivano spiegate bene a Roma. Questo certamente con la migliore intenzione di favorire il dialogo, ma forse anche con la tendenza, tanto del PC cinese quanto della controparte cattolica, di evitare lo scontro e quindi di glissare sugli argomenti più spinosi. Col passare degli anni questo ha creato enormi malintesi dall’una e dall’altra parte, malintesi che non sono ancora scomparsi.

Nel tempo della guerra fredda

Lo spazio internazionale del dialogo con la Cina da parte di Wojtyla era molto diverso. Allora con Wojtyla la Chiesa era parte della guerra fredda, e in Cina aveva ereditato le ambiguità americane della politica inaugurata da Nixon. Con questo risultato: da una parte, la Cina rimaneva un avversario in quanto paese comunista, ma, nello stesso tempo, era anche un alleato, in quanto schierato con l’ala antisovietica.

Questa posizione, difficile in termini geopolitici, diventava quasi impossibile se trasferita sul terreno religioso, specie dopo la fine della guerra fredda e nel momento in cui la Cina appariva agli occhi di certi media occidentali come un nemico internazionale dei diritti umani.

Comunque, questa posizione era garantita da un contesto internazionale chiaro in cui l’America era la superpotenza di riferimento, durante la guerra fredda, o la superpotenza totale fino alla crisi attuale rappresentata dal bisogno del presidente Trump di proclamare America First. America First significa, in realtà, che l’America sente di non essere più la prima, si sente minacciata, e comunica al mondo il suo stato di allarme e di crisi.

Oggi la situazione è molto diversa dai papati di Wojtyla e di Ratzinger. La crisi finanziaria del 2008, il fallimento delle guerre in Afghanistan e Iraq, la sconfitta reale delle jasmine revolutions in Medio Oriente, la follia della guerra in Siria, hanno distrutto il sogno della potenza totale dell’America. D’altro canto, il fatto che l’America sia rimasta, dopo oltre sedici anni di fallimenti, la prima potenza, dimostra l’enorme forza americana. Questo, però, crea un contesto internazionale molto più vago, più fluido, più impreciso, rispetto alle trincee definite dalla guerra fredda.

E ciò sia a livello politico generale, sia per i riflessi che ha su una grande religione organizzata e unitaria come la Chiesa di Roma.

La Chiesa non ha più un suo spazio delimitato dal contesto internazionale, come al tempo della guerra fredda, quando c’era il mondo della tolleranza religiosa contro quello dell’intolleranza; l’alleanza di tutte le religioni (cristiani o musulmani), ciascuno nel sacro rispetto dei limiti altrui, e tutti uniti contro gli atei. C’è, invece, un mondo che, da una parte, vuole nuove guerre di religione e, dall’altra, lavora per un dialogo interreligioso molto più intenso, superando i vecchi confini fra le religioni.

È mutato il contesto

In realtà, già con l’ultimo Wojtyla, e poi sempre più con Ratzinger e Bergoglio, la Santa Sede si era smarcata da politiche di guerra fredda. In ciò la lettera di Ratzinger del 2007 ha significato uno spostamento fondamentale di orizzonte che ha permesso le nuove iniziative di papa Bergoglio, coadiuvato con attenzione e solerzia dal Segretario di stato, il card. Pietro Parolin.

Nel frattempo si è costruito anche un nuovo rapporto diretto e chiaro con i vertici di Pechino che non passa più attraverso l’AP. La limitazione del ruolo dell’AP è un elemento molto importante della nuova situazione di dialogo. D’altro canto, Pechino, pensando al tutto e non solo ad una parte – come riferisce Narvaja del pensiero di Bergoglio –, forse non può e non vuole eliminare l’AP, ma vorrebbe, in futuro, in qualche modo integrarla.

Tale integrazione è stata auspicata dal congresso dell’AP, nel dicembre 2016. Ad esso sono stati invitati anche prelati non membri dell’AP, ma soprattutto il congresso è stato chiuso da Yu Zhengsheng, numero 4 della gerarchia cinese, segno dell’attenzione estrema che il partito dedica alla vicenda cattolica.

C’è quindi uno sforzo nella Santa Sede e in Cina per una comprensione più profonda l’uno dell’altro, un lavoro di maturazione in entrambi i contesti per un avvicinamento reciproco che richiede tempo, realismo e ricerca di una mediazione alta per il bene comune. Questi sono tutti principi del papa che la Cina comprende perfettamente.

Anche l’ultimo – l’ascolto dei segni dello Spirito Santo – è comprensibile e anzi va alla radice del sentire cinese, una volta che si traduca Spirito Santo con Tao. Il Tao inteso come “cammino”, via retta, naturale e meno faticosa per inerpicarsi sulla montagna, è l’insieme dei segni che i cinesi devono leggere e decifrare per seguire la via giusta senza forzature dolorose.

Questo forse non è molto lontano dall’idea dei segni dello Spirito che ha Bergoglio.

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