Il governo e il naufragio del Meridione

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Sui giornali è stata abbondantemente celebrata, con una fioritura di titoli ad effetto, la «Giornata della Memoria», sottolineando, giustamente, la necessità di educare le nuove generazioni a non dimenticare gli orrori dell’Olocausto. Ha indubbiamente costituito un incentivo il monito dolente di Liliana Segre riguardo al pericolo che, col trascorrere del tempo, vada attenuandosi, fino a spegnersi del tutto, l’indignazione per quanto è accaduto.

Il rischio

Il grande rischio di queste corali rievocazioni, tuttavia, è che esse finiscano per trasformarsi in rituali che, concentrando l’attenzione sui drammi del passato, distolgono lo sguardo da quelli del presente. Perché la memoria di ciò che di terribile hanno fatto i nostri padri – a perseguitare gli ebrei non sono stati solo i tedeschi, ma anche gli italiani! – ha un senso solo se ci spinge a chiederci se non siamo anche noi passivi spettatori, e per ciò stesso complici, di nefandezze magari meno atroci, ma comunque tali da offendere l’umana dignità di tante persone.

Sarebbe facile osservare che, mentre continuiamo a ripetere, con sincera commozione, il nostro «Mai più!» a proposito delle persecuzioni razziali contro gli ebrei, il governo italiano – col vento in poppa nei sondaggi – favorisce l’accoglienza dei profughi ucraini, ma perseguita sistematicamente i migranti che vengono dall’Africa, cercando di ostacolare come può l’opera di soccorso delle navi delle ONG e costringendo i poveracci tratti in salvo a lunghissimi tragitti in mare, in condizioni estremamente disagiate, prima di poter sbarcare.

E forse i nostri figli dovranno istituire una «Giornata della Memoria» in cui ricordare le migliaia di vittime annegate in questi anni nel Mediterraneo fra l’indifferenza generale.

Meridione: i giovani se ne vanno

Ma c’è un’altra mostruosità ancora più vicina a noi – e forse proprio per questo invisibile ai nostri occhi – con cui continuiamo tranquillamente a convivere, ed è il divario crescente tra Nord e Sud d’Italia.

In un bell’articolo su Avvenire del 27 gennaio scorso Roberto Petrini riferisce i dati del più recente rapporto ISTAT su questo tema: «Il Sud si sta spopolando: nell’ultimo decennio la popolazione è calata di 642mila unità, contro una crescita di 335mila nel Centro-Nord». E ad andarsene, per mancanza di prospettive di lavoro, sono i giovani, soprattutto i più qualificati, che lasciano dietro di sé il deserto.

Per rendersi conto dell’abisso, basta guardare il PIL pro capite, che nelle regioni meridionali «è circa la metà, 55-58%, di quello del Centro Nord: 18mila euro contro 33mila euro». Oppure la scolarizzazione: «Nel 2020 il 32% dei meridionali in età adulta aveva concluso al più la terza media, al Centro-Nord la percentuale scende al 24,5%». E poi i servizi: «L’obsolescenza delle reti idriche segna tre quarti delle Province del Mezzogiorno (nel Centro-Nord solo un quarto)». Per non parlare della sanità…

Quasi una secessione

Non si può dire che il governo attuale non stia facendo nulla, di fronte a questa situazione: sta preparando, su impulso della Lega, un’autonomia regionale che consentirà alle regioni del Nord di utilizzare in proprio le loro risorse economiche, lasciando al loro destino quelle meridionali. Recentemente il ministro per gli affari Regionali, Roberto Calderoli, ha presentato alla conferenza Stato-Regioni una proposta per l’attuazione del «regionalismo differenziato», del resto chiaramente previsto dal programma della coalizione che gli italiani hanno premiato col loro voto.

In base al progetto del ministro leghista – di cui recentemente Salvini ha detto che «sarà realtà nel 2023» – alcune regioni, che già scalpitano per essere sciolte dai vincoli di solidarietà nazionale che ne limitano i poteri: Lombardia, Veneto e Friuli-Venezia Giulia (ma in pole position ci sono pure Emilia-Romagna e Toscana), potrebbero organizzare e gestire autonomamente il sistema scolastico, quello sanitario, quello energetico, quello dei trasporti (porti, aeroporti). Per citare solo alcune delle ventitré materie che sarebbero devolute dallo Stato ai governi regionali. Quasi una secessione.

È in questo contesto che Giuseppe Valditara, ministro (anche lui leghista) dell’Istruzione e del Merito, ha proposto, suscitando varie e opposte reazioni, una differenziazione degli stipendi degli insegnanti in base al costo della vita nel luogo in cui vivono, dicendosi anche disposto ad aprire al finanziamento privato delle scuole pubbliche.

In sé, l’idea non è affatto assurda, perché è vero che un professore, che a Noto o a Reggio Calabria col suo stipendio può vivere decentemente, a Milano è un poveraccio. Ma un testo va letto alla luce del contesto. E le parole di Valditara non possono non far venire alla mente il progetto di Calderoli – suo compagno di partito – sui sistemi scolastici autonomi. Tanto più che il riferimento ai finanziamenti privati – subito rimangiato dal ministro, ma evidentemente presente nel suo pensiero – si presta perfettamente a una riorganizzazione della scuola in funzione di esigenze territoriali.

La linea del governo

Perché, invece, non alzare gli stipendi a tutti gli insegnanti italiani, portandoli ai livelli degli altri paesi europei? Di questo Valditara non ha parlato. Perché lo Stato non ha i soldi. Ma non li ha anche perché la Destra (con la complicità della «Sinistra») si è sempre aspramente opposta ad ogni riforma fiscale che colpisca i ricchi – emblematica la bassissima tassa di successione, assurdamente inferiore, nel nostro paese, a quella di tutto il resto d’Europa! – e, ora che è al governo, ha anzi nel suo programma di favorirli con la flat tax, che abolisce la progressione delle imposte a vantaggio dei redditi più cospicui.

Quel che è certo è che per il Sud non si prospetta un futuro migliore, anzi… Si dirà che questa è la democrazia: evidentemente gli elettori italiani – e non certo solo da ora – non sembrano avere particolarmente a cuore la soluzione di questo problema e anzi, con le loro ultime scelte, hanno avallato una linea che esaspererà il divario tra regioni povere e regioni ricche.

Con i costi umani che saranno pagati dai più deboli economicamente e socialmente. In Italia, secondo le statistiche ufficiali, ci sono cinque milioni e mezzo di persone in condizione di povertà assoluta, la maggior parte nel Meridione, destinate a essere sempre più emarginate e costrette a vivere in condizioni di crescente indigenza.

Certo, non è un sacrificio umano neppure lontanamente paragonabile all’Olocausto. Ma è una ferita profonda a uomini e donne che vorrebbero anche loro vivere in pienezza. Perciò vorremmo tanto che, mentre ci indigniamo per quello che è accaduto nel passato e ci sforziamo di non perderne la memoria, provassimo a essere meno indifferenti verso quello che accade nel presente e sta per accadere nel futuro a questi uomini e a queste donne. Per evitare che i nostri figli debbano istituire una «Giornata della Memoria» per quello che è stato fatto al Sud.

  • Dal sito della Pastorale della cultura della diocesi di Palermo (www.tuttavia.eu), 27 gennaio 2023.
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3 Commenti

  1. Adelmo Li Cauzi 31 gennaio 2023
  2. Giuseppina Tavernese 30 gennaio 2023
  3. Maria Luisa Fappiano 30 gennaio 2023

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