Penitenza: terza forma e diritto liturgico

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Con l’emergenza della pandemia è tornata in uso, sia pure in modo eccezionale, la terza forma di celebrazione del sacramento della penitenza. Poiché le circostanze che l’hanno promossa e le discussioni classiche intorno questa possibilità rituale manifestano alcune novità non di poco conto, è il caso di fare il punto della situazione, con una serie di interventi. Il primo – di Umberto R. Del Giudice, che ringrazio di cuore – puntualizza con cura la situazione normativa intorno a questa ipotesi. Seguiranno altri interventi, che studieranno l’istituto dal punto di vista pastorale e teologico (Andrea Grillo).

È noto che molti vescovi, a causa del protrarsi delle restrizioni necessarie al contenimento del contagio da SARS-Cov-2, hanno considerato la possibilità di celebrare il sacramento della penitenza e della riconciliazione nella cosiddetta “terza forma”, ovvero con rito penitenziale comunitario e assoluzione generale (cfr. Ordo pænitentiæ, nn. 31-35.60-63; di seguito OP).

Le celebrazioni che ne sono scaturite hanno trovato accoglienza favorevole tra i partecipanti: un’esperienza da non sottovalutare, né dimenticare. La questione, dunque, è molto interessante dal punto di vista pastorale, liturgico, canonico, sacramentale, e merita maggior approfondimento. Per un iniziale dibattito e per una possibile maggiore consapevolezza delle pratiche ecclesiali, appare utile proporre una rilettura della disciplina canonica, tra fatti, normativa e storia recente.

Vescovi diocesani e Penitenzieria: i fatti

I vescovi avrebbero consultato la Penitenzieria Apostolica con la quale avrebbero concordato che l’attuale pandemia può configurare tra i casi di grave necessità previsti dal Codice di diritto canonico (ex can. 961 CIC). Il condizionale è d’obbligo poiché attualmente è possibile accedere solo alla Nota della Penitenzieria apostolica e non è chiara quale sia stata la forma con cui i vescovi diocesani avrebbero chiesto il parere al Dicastero.

Di contro, la Nota della Penitenzieria è “spontanea”, sebbene alcuni comunicati di Conferenze episcopali regionali annoterebbero una non precisata «consultazione» col Dicastero competente. In altre parole, i vescovi dichiarano di aver consultato il Dicastero, mentre la Penitenzieria ritiene che sia la «gravità delle attuali circostanze» che «impone una riflessione sull’urgenza». Dai comunicati poi si evince che sono i vescovi diocesani che «concordato come linea comune che tale situazione di pandemia possa configurare quei casi di grave necessità». Se ci siano state comunicazioni non pubblicate, questo, almeno per ora, non è dato appurarlo.

In ogni caso, potrebbe esserci stata una richiesta di chiarimento (non formale) all’origine della Nota della Penitenzieria che tuttavia salvaguarda la competenza dei vescovi diocesani, i quali, sebbene in un secondo momento, hanno condiviso l’onere della decisione.

La Nota, infatti, è del 19 marzo 2020. Da notare che, nel gioco delle parti, le Conferenze episcopali nazionali sembrano non voler entrare in gioco. Le Conferenze di Italia, Francia, Germania, Svizzera, Spagna, Brasile, Stati Uniti, ad esempio, non hanno prodotto documenti/note in merito: la competenza, infatti, rimane del vescovo diocesano, sentito il parere dei restanti ordinari del territorio delle zone interessate (Conferenze episcopali regionali o semplicemente vescovi limitrofi).

Criteri concordati

Per la terza forma sono richiesti due elementi essenziali: il caso di necessità e i criteri da concordare tra vescovi. Nei casi in cui è stata applicata la terza forma, le direttive diocesane hanno convenuto su alcuni punti per l’attuazione della forma liturgica.

Secondo le disposizioni dei vescovi che hanno condiviso i criteri, il rito penitenziale nella terza forma:

  • può essere celebrato in un lasso di tempo stabilito dal vescovo diocesano,
  • può essere celebrato in un’azione penitenziale comunitaria apposita e debitamente preparata anche con una catechesi che metta in rilievo la “straordinarietà” della forma,
  • può essere celebrato ricordando «il senso del peccato e l’esigenza di una reale e continua conversione con l’invito a vivere – non appena sarà possibile – il sacramento stesso nelle modalità e forme tradizionali e ordinarie»,
  • deve essere un’azione liturgica separata dalla celebrazione dell’eucaristia.

Questi, dunque, i punti essenziali che, secondo le norme particolari di ciascun ordinario del luogo, hanno permesso di vivere la penitenza nella terza forma in alcune comunità, tra queste alcune delle diocesi del Piemonte, della Valle dAosta, del Triveneto, di Bologna, di Modena, e poche altre ancora.

Alcuni vescovi chiariscono che il “caso di necessità” si ravvisa anche «quando, per timore di contagio o altri motivi, è impossibile avvicinare l’ammalato, o mantenere la necessaria riservatezza. In ogni caso, l’assoluzione deve essere data dal sacerdote presente di persona e deve essere udibile, anche a distanza, da chi riceve il sacramento» (così le Disposizioni nell’arcidiocesi di Bologna).

In questo caso, si tratta di «assoluzione simultanea a più penitenti», ovvero malati e operatori sanitari e familiari che li assistono, e che non possono essere convenientemente avvicinati o non avvicinati da soli.

Questo è uno degli esempi di quanto un vescovo diocesano possa articolare la normativa per la propria comunità. D’altra parte, il già ricordato comunicato dei vescovi piemontesi indica una forma di celebrazione più estesa, ovvero parrocchiale e comunitaria.

A questo punto sembra opportuno però un breve richiamo delle norme giuridiche circa la terza forma, in capo a chi è radicata la competenza di impiegarla o meno o chi dovrebbe/può “concordare” i criteri essenziali.

Competenza e criteri per la terza forma: la normativa

La riconciliazione con confessione e assoluzione generale è normata dai nn. 31-35.60-63 dell’OP e dai cann. 961; 962; 963 del CIC. Le condizioni per attuare la terza forma (ex can. 961 §1) sono l’emergenza assoluta (il pericolo di morte e la mancanza di tempo, n. 1) e la grave necessità (alto numero di penitenti, confessori insufficienti e mancanza di «tempo congruo», n. 2).

La competenza nel giudicare se ricorrano o meno le condizioni di grave necessità (ovvero quelle relative al dettato del can. 961 §1 n. 2) è in capo al vescovo diocesano (ex can. 961 §2) il quale, per la sua decisione, deve tener conto dei criteri concordati con gli altri (ceteris) membri della Conferenza episcopale («attentis criteriis cum ceteris… concordatis»).

Il CIC differisce qui leggermente ma sostanzialmente dall’OP 32 e dal Codice dei canoni delle Chiese orientali (CCEO, 720 §3). Sia nelle rubriche del Rito che nel CCEO, infatti, ritroviamo l’originale «collatis consiliis» che è sostanzialmente difforme dall’espressione «attentis criteriis» del CIC. «Collatis consiliis» si tratterebbe di «dicitura originale» in quanto è quella contenuta non solo nelle rubriche dell’OP ma anche negli schemi del 1982 per la revisione del Codice.

La differenza sostanziale (e quindi il cambio normativo) sta nel fatto che «collatis consiliis» è un’espressione che richiede la semplice consultazione, mentre «attentis criteriis» sta per «attendere ai criteri» concordati: in questo caso il vescovo diocesano non può normare per la sua diocesi con indicazioni disciplinari non conformi ai criteri concordati con gli altri (ceteris) membri della Conferenza episcopale.

Tuttavia, è evidente che, sebbene un vescovo commetta un illecito nel caso in cui decida secondo propri criteri, cambiando le condizioni richieste, sostituendole con altre, o determinando il caso di «grave necessità» secondo parametri del tutto personali, il suo atto non sarebbe nullo.

Fin qui, dunque, queste le evidenze:

  1. la competenza per determinare i casi di grave necessità è del vescovo diocesano;
  2. egli deve giudicare tenendo conto dei criteri concordati con gli altri membri della Conferenza episcopale;
  3. la Penitenzieria Apostolica non ha emanato norme ma espresso un parere, sua sponte, circa l’interpretazione delle condizioni per determinare la «grave necessità».
Aspetti storici (non secondari)

A questo punto due sono gli aspetti interessanti su cui riflettere:

  1. se la competenza è sempre stata dei vescovi diocesani e in quale misura rispetto ai criteri, e
  2. a quale titolo concorrono le Conferenze episcopali e se queste sono da intendersi nazionali o regionali.

Le questioni relative alla terza forma sono state a lungo dibattute tra gli anni ’70 e ’80, ovvero a ridosso della pubblicazione dell’OP e della revisione del Codice: nell’impossibilità di riportare qui tutti i contesti e le opinioni, si riassumeranno le notizie utili ed essenziali.

Va tuttavia ribadito che in quegli anni il fermento intorno alla assoluzione generale come anche le decisioni prese da molte Conferenze episcopali (ad esempio quelle francese e canadese, per citarne alcune) furono davvero sorprendenti fino a deliberare ciò che in seguito, con il CIC, non fu più permesso.

La competenza sulla terza forma: prima e dopo il CIC

Prima del Codice del 1983 l’assoluzione generale era disciplinata da alcune Norme pastorali e dall’OP del 1974. Allora queste apparivano come nuove possibilità e ampliamento delle indicazioni non chiarite dal can. 856 del Codice del 1917.

In realtà, prima che il Codice del 1983 definisse la competenza in capo ai vescovi diocesani, fu lecito in molte zone demandare il giudizio sul «caso di necessità» al singolo presbitero: tale eventualità fu riproposta nelle rubriche dell’OP (n. 32) ma abolite di fatto dal Codice.

Ancora oggi, infatti, si possono leggere al n. 32 dell’OP queste indicazioni che – è bene ricordarlo – non hanno più valore giuridico: «Qualora, oltre i casi determinati dal vescovo diocesano, si presentasse qualche altra grave necessità di impartire l’assoluzione sacramentale a più fedeli insieme, perché l’assoluzione stessa sia lecita, il sacerdote è tenuto a preavvertire, entro i limiti del possibile, l’Ordinario del luogo; se il preavviso non fosse possibile, abbia cura di informare quanto prima l’Ordinario stesso sul dato di necessità che gli si è presentato e sull’assoluzione così impartita».

In altre parole, il singolo sacerdote poteva impartire l’assoluzione generale nel caso ritenesse ci fossero le condizioni di «grave necessità» e poi riferire (quam primum) al vescovo. Possibilità del tutto ignorata nel Codice e di fatto resa illecita sulla scia della decisione della Commissione di revisione riunita in Sessione II (cf. Communicationes, X [1978], 53).

Il fatto non meravigli: anzi è da ricordare che, nella stessa seduta, non mancò chi suggerì di abrogare del tutto l’assoluzione generale dal CIC. Dunque, tranne in caso di morte, nessun presbitero può assumersi la responsabilità di determinare «casi di necessità».

Va evidenziato che si parla di liceità: il problema, dunque, è relativo alla responsabilità del ministro e non all’assoluzione e alla sua validità, che rimane integra in sé.

È chiaro che le rubriche liturgiche del 1974 abbiano subito una restrizione col Codice, sia in riferimento alla possibilità che il singolo sacerdote potesse ritenere da solo i «casi di gravità» sia per il fatto che i vescovi non devono solo ascoltare il parere degli altri (ceteris) vescovi, ma devono con essi concordare i criteri. Va ricordato che ceteris non sta per tutti: indica i vescovi più vicini e non implica la Conferenza nazionale.

In ogni caso, il passaggio dal Rito al CIC comporta una restrizione di competenza e un vincolo.

A queste limitazioni va aggiunta anche una reinterpretazione dei casi di «grave necessità».

Nell’aprile del 2002 fu pubblicato da san Giovanni Paolo II il motu proprio Misericordia Dei nel quale si richiamavano le leggi canoniche vigenti e si disciplinavano i criteri per determinare i «casi di necessità».

Essi devono essere davvero «eccezionali»; deve concorrere l’impossibilità di confessare «come si conviene» e dev’essere reale la possibilità che i penitenti sarebbero costretti a rimanere «a lungo» privi della grazia sacramentale. Si ricorda altresì che per la celebrazione del sacramento non è rilevante il «colloquio pastorale» e che quindi la sola impossibilità di averne uno non definisce «casi di necessità»; che il tempo inferiore a un mese non implica rimanere «a lungo» nella situazione di privazione della riconciliazione.

Queste precisazioni hanno dunque ulteriormente ristretto il campo di azione degli stessi vescovi.

C’è da annotare anche un fatto emblematico: al termine di questo motu proprio si dichiara solo che i criteri valgono anche per la prassi dei riti orientali: tuttavia la stessa lettera apostolica dimentica di modificare formalmente il testo del CCEO (can. 720, §§2.3). I criteri, dunque, sono gli stessi, tuttavia, da un punto di vista meramente giuridico-amministrativo, l’eparca non è obbligato ad accordarsi con gli altri vescovi poiché rimane la dicitura «collatis consiliis».

Per quanto riguarda «casa nostra», ciò che lascia davvero perplessi è che, all’indomani della pubblicazione dell’OP, i vescovi italiani dichiararono che la «terza forma» rimanesse vincolata al solo «pericolo di morte», ribadendo che le forme del rito lecitamente ammesse sarebbero state solo la prima e la seconda (CEI, Nota della Presidenza, 30 aprile 1975, n.1).

I fatti hanno smentito i principi.

Conclusioni

Dal punto di vista del diritto canonico e liturgico, la competenza nel determinare i casi di «grave necessità» rimane in capo ai vescovi diocesani che sono tenuti a concordare con gli altri vescovi della zona interessata alle circostanze emergenziali i criteri di applicazione della terza forma del rito della Penitenza.

Per i criteri generali con cui stabilire i casi di necessità tutti i vescovi sono tenuti a riferirsi al motu proprio Misericordia Dei.

Nessun sacerdote, eccetto in caso di pericolo di morte, può validamente determinare da solo i casi di necessità.

Questa impostazione è però un’interpretazione restrittiva rispetto alla mens del Rito frutto di una lunga revisione e riflessione liturgico-pastorale. Lo stesso Codice e, nella fattispecie, la dichiarazione del 1978 della Presidenza CEI non sembrano in linea con l’intuizione delle rubriche liturgiche le quali, si auspica, potrebbero essere semplicemente riprese.

  • In collaborazione con il blog Come se non del prof. Andrea Grillo.
Sulla terza forma del sacramento della penitenza – cf. SettimanaNews

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