Il Sacro Cuore, Arca della nuova Legge

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Se rettamente intesa, la devozione al Cuore di Cristo aiuta a vivere le dimensioni della nuova Legge: grazia, perdono, misericordia.

Cor, Arca legem continens,

non servitutis veteris,

sed gratiae, sed veniae,

sed et misericordiae.

Cuore, Arca di una Legge,

non dell’antica schiavitù,

ma di grazia e perdono,

ma di misericordia.

Negli anni della mia infanzia e adolescenza una delle più diffuse devozioni nella pietà della Chiesa era quella del Sacro Cuore, celebrata a livello di preghiera nel mese di giugno, che rivaleggiava per pratiche e solennità con il mese di maggio dedicato a Maria.

Storia di una devozione

Ricca di numerosi precedenti, di cui occorre ricordare almeno Gertrude di Helfta e Giuliana di Norwich, tale devozione diventò molto importante nel Seicento in seguito alle rivelazioni di Margherita Maria Alacoque e grazie all’intensa propaganda fattane dai gesuiti.

Margherita Maria LacoqueSi usa dire, ed è vero, che il suo affermarsi costituì un salutare rimedio a due rischi che minacciavano la Chiesa del tempo: una teologia che dava troppo spazio alla ragione, e una spiritualità – quella giansenista – che tendeva a presentare la vita morale con un rigore inaudito e scoraggiante.

Mettendo l’accento sull’aspetto emozionale della fede, e sulla misericordia come cuore stesso del Vangelo, l’immagine-icona del Cuore di Gesù ebbe due importantissime ricadute, se non nella teologia, certamente nella vita e nella pietà della Chiesa, quella vissuta alla base, nelle parrocchie e nelle istituzioni religiose: la spiritualità della riparazione dei peccati che avevano ferito Gesù, e quella della compassione per i peccatori e per chiunque fosse afflitto da qualche male.

Non è che in due righe pretenda di sintetizzare tre secoli di pietà cristiana. Sto semplicemente ricordando quanto mi fu trasmesso, tra i sei e i dieci anni, nella scuola del mio paese gestita dalle suore di santa Francesca Cabrini, che la fondatrice aveva chiamato “Missionarie del Sacro Cuore”.

In seguito, la conoscenza della storia della Chiesa e la frequentazione di tanti scritti spirituali, contribuirono a farmi approfondire le fonti, il significato, la ricchezza biblica, l’altissimo valore educativo della devozione al Sacro Cuore, che aveva suscitato nel popolo cristiano ondate immense di generosità apostolica, come ne sono tuttora prova le innumerevoli congregazioni religiose sorte soprattutto nell’Ottocento.

Inevitabilmente, come in tutte le devozioni, ci furono eccessi e visioni riduttive nelle forme di pietà nate dal culto del Sacro Cuore, soprattutto dovute alla perdita delle sue radici biblico-liturgiche per ragioni che tutti conoscono.

Ho fatto questa premessa per spiegare il disagio che provai quando, a seguito del provvidenziale e benedetto rinnovamento conciliare, quella al Sacro Cuore finì sotto l’accusa di “devozionalismo”, al pari della pietà popolare e di altre forme di spiritualità. Fu il classico caso che vide gettare via il bambino insieme all’acqua sporca.

La mia formazione mi preservò da questo rischio, e sono solo felice di trovare in un inno della festa tutto quanto basta per dare un fondamento solido a tale devozione, e per ricuperare (la cosa sta avvenendo, pare, anche nei quartieri alti della Chiesa) la sua ricchezza spirituale e la sua fecondità. Basta partire dal chiaro riferimento biblico di cui la strofa costituisce una mirabile sintesi.

La Legge e la grazia

In base alle opere della Legge nessun vivente sarà giustificato davanti a Dio, perché per mezzo della Legge si ha conoscenza del peccato. Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono gratuitamente giustificati per la sua grazia, mediante la redenzione che è in Cristo Gesù. È lui che Dio ha stabilito come strumento di espiazione, per mezzo della fede, nel suo sangue, a manifestazione della sua giustizia per la remissione dei peccati passati mediante la clemenza di Dio, al fine di manifestare la sua giustizia nel tempo presente, così da risultare lui giusto e rendere giusto chi si basa sulla fede in Gesù (Rm 3,20-26).

La strofa dell’inno è una cascata di sostantivi che meriterebbero ciascuno un commento: tre indicano oggetti, cuore, arca, legge, e tre delineano atteggiamenti interiori che, alla fine, sono tre modi di dire la stessa cosa: grazia, perdono, misericordia. Si noterà, inoltre, che la strofa è chiusa tra due parole che formano una splendida inclusione: cor e misericordia.

C’è un’altra frase, che è nominata solo per essere scartata, ma che in realtà costituisce la chiave di volta di un ribaltamento gigantesco: la Legge che è rimossa e sostituita è quella dell’«antica schiavitù». La nuova legge del cuore è dunque, di riflesso, una legge di libertà che “affranca”. Lo era anche la legge antica, che Dio presenta in quanto “liberatore” (Dt 5,6), e questo dà il vero senso del Decalogo. La “novità” consiste nel fatto che Gesù integra le norme con gesti: quelli riassunti nel suo cuore squarciato.

L’immagine che connette il cuore con la Legge è quella dell’arca. Qualunque lettore della Bibbia conosce l’importanza e la centralità di questo oggetto nel culto (cf. Es 25,10-22). È segno principe della presenza di Dio, e continuerà a esserlo anche quando l’arca verrà collocata in quell’altro segno della stessa presenza, il tempio. Questo perché l’arca conteneva le tavole della Legge e la manna, indicando con questo che la prossimità benefica di Dio si manifesta nelle norme che tracciano il cammino interiore del popolo, e nel nutrimento che lo sostiene lungo il percorso, spirito e corpo.

L’inno segnala che la Legge era diventata, rischiava, e rischia sempre di diventare, un giogo che schiavizza, un giogo “vecchio”, non solo perché Gesù porta una Legge «nuova» (Gv 13,34), ma anche perché, secondo un linguaggio ben noto della liturgia, “vecchiezza” è sinonimo di “peccato”.

San Paolo, che ha sperimentato in se stesso il cambiamento rivoluzionario, è il più feroce nel denunciare i pericoli di un’interpretazione scorretta della Legge, che sono sostanzialmente due:

  1. l’osservanza scrupolosa delle norme dà all’uomo un senso pericoloso di “autosufficienza” e di autogiustificazione che manda all’aria la gratuità della salvezza offerta da Dio;
  2. inoltre, la Legge in quanto tale, se pure segnala il peccato, non dà automaticamente la forza per superarlo, risultando sotto questo aspetto inefficace! Può fare da «pedagogo» (Gal 2,23-24), ma va superata.

Come? Entrando nell’ottica della fede sui tragitti che la strofa dell’inno segnala, marcando la contrapposizione con ben tre sed, «ma»!

Cuore

Grazia, perdono, misericordia

Questi tragitti sono indicati con parole che si rincorrono e richiamano in eco, come una musica di moto perpetuo: grazia, perdono, misericordia. Basta poco per mostrare come i tre termini disegnino un cammino di grande e vera libertà.

La grazia riassume l’atteggiamento di gratuità, che in Dio è totale: ci ama prima che lo amiamo (cf. Rm 5,8-10), ci ama anche quando non lo amiamo, con un amore che è il fondamento indistruttibile del nostro povero amore.

Il perdono allunga la traiettoria della grazia: non significa dimenticare l’offesa, e neppure implica l’automatica cancellazione di un naturale risentimento, che peraltro va guarito. Significa che, pur riconoscendo il male ricevuto, e pur conservando la memoria della sofferenza causata, si ridona a chi ci ha offeso una sorta di “innocenza”, la possibilità di “ricominciare” togliendo la persona da un paralizzante senso di colpa. Questo è quanto fa Dio con noi: «Io non ti condanno; va, e non peccare più» (Gv 8,11)!

La misericordia, infine, riprende e riassume il tutto. Insieme alla grazia, costituisce l’atteggiamento che è la fonte da cui scaturisce incessantemente il gesto del perdono. Forse nessuno meglio di Giuliana di Norwich ne ha descritto il senso in termini splendidamente essenziali: «La misericordia opera custodendo, sopportando, ravvivando e risanando, e tutto viene dalla tenerezza dell’amore» (Rivelazioni, c. 48, 211).

Un’altra immagine del Cuore di Gesù ne indica il senso: «La carità ti volle / da colpo visibile ferito / perché dell’amore invisibile / onorassimo le ferite» (Te vulneratum caritas / ictu patenti voluit / amoris invisibilis / ut veneremur vulnera).

Le ferite del Crocifisso, riassunte nel fianco squarciato, porta che apre la vista sul cuore, sono la visualizzazione dell’amore di Dio, che è molto più di un’idea!

È stato detto che «Il sacrificio è il linguaggio fisico dell’amore». Fisico vuol dire reale contrapposto a immaginario, e concreto contrapposto ad astratto.

Contemplare il Sacro Cuore significa continuare a vedere, per apprendere a percorrerli, i tre cammini di libertà che formano il nucleo della nuova Legge. La grazia/gratuità, il perdono e la misericordia, pur se comportano fatica e impegno (non per niente visualizzano delle «ferite»!), in realtà fanno di ciascuno di noi un’arca che contiene e mostra la presenza e la prossimità benefica di Dio.

Un salmo recita: «Non fu il loro braccio a salvarli, ma la tua destra e il tuo braccio, e la luce del tuo volto, perché tu li amavi» (Sal 44,4). Basta un sorriso radioso a salvare, perché rivela l’amore. E questo è il Cuore di Gesù!

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