L’eredità dei padri

di:
Sloterdijk, Il Dio visibile

Peter Sloterdijk – Thomas Macho, Il Dio visibile

Non ho mai guardato con entusiasmo ai libri-intervista di filosofi e intellettuali. Credo che il pensiero sia esercizio lento e faticoso, e che per essere buon pensiero abbia bisogno dei tempi lunghi della ri­flessione, della meditazione, della revisio­ne di chi lo pensa e ripensa, scrive e riscri­ve. Leggendo, però, questo libro-dialogo a tre voci tra Peter Sloterdijk, Thomas Ma­cho, e Manfred Osten, l’intervistatore – le cui domande sono tra le parti migliori del libro, e contengono autentiche perle, tra cui la frase su Hegel in finale –, ho dovuto rettificare quella mia convinzione radica­le, o almeno prendere atto che ogni tanto ci possono essere delle eccezioni.

Sloterdijk e Macho sono due pensatori originali e significativi nel panorama con­temporaneo, anche per i temi di cui si oc­cupano, che sí collocano al confine tra fi­losofia, economia, antropologia, religioni, teologia, molti dei quali si incontrano in questo libro, che può anche essere consi­derato una buona e agile guida per intro­dursi al pensiero degli autori. Il libro na­sce in ambito germanico, e l’impronta di quella cultura si sente insieme alla sua pro­fondità e al suo peso. E come accade spes­so con gli autori tedeschi, il libro traspira molta cultura classica e moltissima storia europea, e italiana. Certi ragionamenti costruiti attorno al suono e all’etimologia delle parole (come debito-colpa), perdono qualcosa quando vengono tradotti dal te­desco, e viene voglia di studiare quella bel­la lingua e le sue parole composte e dun­que (quasi) intraducibili. Ma nell’insieme i dialoghi sono scorrevoli, mai banali, e pongono domande nuove.

Il nesso economia-fortuna-felicità attra­versa molte parti del libro. Un giusto spa­zio viene dedicato all’analisi della novella Fortunatus, un racconto popolare del primo Cinquecento apparso ad Augusta. Narra di un uomo (Fortunatus), di origine cipriota, che in Francia, in un bosco, ha un incontro personale con la fortuna. Madonna Fortuna gli offre sei doni: saggezza, salute, ricchez­za, potere, bellezza e lunga vita. Fortunatus sceglie la ricchezza, e così dalla fortuna riceve come dono una borsa che ha il po­tere di riempirsi sempre di denaro, nella valuta del Paese nel quale si trova in quel momento. Fortunatus realizza subito il suo primo desiderio (comprare un cavallo), ma è lì che si rende conto che quel denaro non gli consente di acquistare la nobiltà. E così decide di usare meglio il denaro della bor­sa. Torna a Famagosta, sposa la figlia del re (Cassandra), e diventa un ricco mercante. Dalla loro unione nascono due figli (Ampedo e Andolosia), che dopo la morte di Fortunatus fanno usi pessimi della borsa magica: l’uno vive nella pigrizia, l’altro si fa rubare la borsa e viene infine assassinato. Questa fiaba ha ispirato molta letteratura, teatro, musica; tradotta a Napoli nel 1676 (Avvenimenti di Fortunato e dei suoi figli), la ritroviamo con variante anche nei fratelli Grimm (Lo zaino, il cappellino, la cornetta), in Lewis Carroll (Sylvie and Bruno), o nella fa­vola siciliana Ciccu. E non stupisce, perché in Fortunato ritroviamo alcuni dei grandi temi morali medievali: la ricchezza dei nou­veaux riches non può comprare lo status, che non è una merce, anche se nella sorte triste del mercante Fortunatus si intravvedono quella tensione e conflitto tra l’ordine dei ranghi del mondo feudale, fondato sullo status, sugli immobili e sulla terra, e il nuo­vo ordine delle città commerciali, fondato sui contratti e sulla ricchezza mobile. Come vi si vede anche la tensione virtù/fortuna, gli inganni e le illusioni della fortuna, con­trapposti alla saggezza della via della virtù. «Virtù batte fortuna» è stato, infatti, il gran­de progetto dell’umanesimo occidentale, già presente in alcune correnti della cultura greca, romana, e nella tradizione biblica (si pensi a Giobbe). Con il cristianesimo la lot­ta alla vanitas della fortuna si accentua: da Girolamo («né fato, né fortuna») a Petrarca la battaglia è forte e continua. La forza della lotta dei moralisti antichi e cristiani contro la dea fortuna ci dice però quanto tenace essa fosse nella vita della gente, e quanto forti fossero il suo fascino e le sue seduzio­ni. Soprattutto tra i poveri e il popolo, che sono stati e sono le prime vittime delle sue illusioni. Ieri e oggi di più, quando la «feli­cità da fortuna» continua a divorare milioni di poveri, schiacciati da un vero e proprio impero che continua a fare immensi profit­ti mangiando i poveri, vittime di illusioni costruite a scopo di lucro. La grande novi­tà del nostro capitalismo non sta nel culto della dea fortuna, in quanto esso non è mai morto: basti pensare alla nostra cultura po­polare e anche a una pietas popolare in cui il destino e il fato erano e sono «abitanti» del mondo non meno reali ed efficaci dei santi, dei demoni e forse anche di Dio. La grande novità sta invece nell’aver inserito questo antico culto della fortuna dentro un sistema perfetto orientato scientificamente ai profitti. C’è un’anima, importante e sem­pre più dominante, che vive e si alimenta di tutti quei simboli e codici antropologici arcaici, primitivi e pagani, radicalmente in contrasto con il progetto razionale moder­no. Consuma le paure ataviche delle persone – che stanno alla base di tutte le idolatrie e religioni naturali – e le trasforma in pro­fitti miliardari per pochi, complici governi «democratici» e cittadini silenti.

Un’altra  direttrice del libro, collegata al tema della fortuna, è il rapporto tra capi­talismo e religione. Marx e Weber sono citati e discussi in modo originale e capa­ce di suggestioni. All’Europa, e all’intero Occidente, oggi manca un grande proget­to, perché manca uno spirito. Se, come ci ha mostrato Weber, il capitalismo è nato da uno spirito (quello della Riforma), che cosa diventa il capitalismo quando viene svuotato del suo spirito e al suo posto c’è solo materia e consumo? Quando dopo la seconda guerra mondiale nacque la prima comunità europea, le tragedie e l’enorme dolore di tutti e di ciascuno crearono le pre-condizioni ideali e spirituali per im­maginare e poi provare a realizzare una comune terra di pace e di prosperità. Quel grande progetto europeo si sta allontanan­do sempre più dal nostro orizzonte. E per capirne il perché dobbiamo compiere l’esercizio, ora molto arduo, di liberarci dalle cronache quotidiane e dalla logica del bre­ve termine, e tornare all’origine, e risco­prire qui e ora la nostra natura, vocazione, e destino.

L’Europa l’hanno fatta soprattutto mercan­ti e monaci, economia e spirito, e l’hanno fatta assieme. I mercanti, le grandi fiere, gli scambi, i trattati commerciali non avreb­bero creato durante il Medioevo nessuna idea di Europa senza l’azione congiunta, complementare e co-essenziale del monachesimo, e poi di Francesco e di Dome­nico. Il cristianesimo e i suoi carismi, che hanno anche ereditato rielaborandola par­te della cultura classica ed ebraica, hanno offerto quel soffio vitale e quel respiro che ha generato e nutrito l’Europa, inclusa la sua economia di mercato, il suo sistema di welfare – che è stato inventato dai carismi religiosi, non certamente dallo Stato –, le sue banche. Nella modernità a questo spiri­to originario si sono aggiunte, anche come sua parziale gemmazione, altre tradizioni ideali, che hanno continuato a nutrire e sviluppare l’Europa e la sua civiltà. Quan­do nel dopoguerra siamo arrivati all’attuale progetto europeo, le sue radici erano molto profonde: quella cattolica, quella socialista e quella liberale, tradizioni che ritroviamo, in proporzioni diverse, anche nella visione economico-sociale che sostiene la nostra Costituzione repubblicana, nata insieme al progetto europeo.

Questo spirito, uno e molteplice, dell’eco­nomia e della società europea è stato capa­ce di alimentarla e di vivificarla, di farle raggiungere risultati straordinari. L’Euro­pa oggi è in crisi non solo per la mancanza di una comune politica fiscale e per i de­biti pubblici, ma soprattutto perché sono venute meno queste tradizioni ideali che hanno alimentato nei secoli il suo spirito. Tradizioni che nel sottosuolo sono anco­ra vive, sebbene con gradi diversi, ma le falde hanno perso contatto con i canali e gli acquedotti, e non dissetano più la terra né i suoi abitanti. Il suo spirito originale è sempre più fioco, né si vedono altri «spiri­ti» all’orizzonte capaci di svolgere la stessa funzione vitale e vivificante.

Quando una cultura perde il suo spirito – e noi lo stiamo perdendo completamente –, si interrompe il suo soffio, anche quello civile ed economico. La carestia di spirito è oggi la prima forma di miseria che sta bloccando l’Europa, spegnendo nei suoi cittadini il sogno e l’idea stessa d’Europa. All’Europa mancano soprattutto «nuovi monaci» e «nuovi monasteri»; manca l’orare per ricreare anche le precondizioni del laborare. Spirituale vuol dire ecceden­za, gratuità, libertà. E mancando monaci e spirito, il vuoto da loro lasciato nell’anima delle persone e dei popoli – che oggi non meno di ieri sono prima di tutto animali spirituali –, lo stanno riempiendo i maghi, gli oroscopi, il gioco, le scommesse, i grat­ta-e-vinci, il bingo; cioè il nulla, che non è il nada di Giovanni della Croce, ma il nulla mortifero del niente dei culti idolatrici.

Ne Il Capitalismo come religione Walter Benjamin, un autore che ritroviamo in questo libro, nel 1921 scriveva che «nel capitalismo bisogna scorgervi una religio­ne, perché nella sua essenza esso serve a soddisfare quelle medesime preoccupa­zioni, quei tormenti, quelle inquietudini, cui in passato davano risposta le cosiddette religioni. […] In Occidente, il capitali­smo si è sviluppato parassitariamente sul cristianesimo». E con capacità profetica aggiungeva: «In futuro ne avremo una visione complessiva». La natura religiosa del capitalismo è oggi molto più evidente che negli anni Venti, se pensiamo quanto sono diventanti esigui i territori della vita non in vendita. Una religione pagana e di solo culto, che cerca di prendere il posto del cristianesimo – non di qualsiasi reli­gione –, anche perché è dall’Umanesimo ebraico-cristiano che è stato generato. La modernità, allora, non sarebbe una de-sa­cralizzazione o disincanto del mondo, ma l’affermazione di una nuova religione, o la trasformazione dello spirito cristiano nel­lo «spirito» del capitalismo. Solo in epoca recente il capitalismo ha rivelato piena­mente la sua natura di religione. Non ce lo dicono soltanto i centri commerciali disegnati a forma di tempio, né solo la cul­tura di quelle società di multi-level-marke­ting che iniziano con il segno della croce le loro sedute in cerca di nuovi fedeli del loro prodotto-feticcio, e neanche soltanto la creazione di un sistema finanziario ba­sato sulla sola fede senza più alcun rapporto con l’economia reale.

Così da idolatria, malattia di ogni civiltà religiosa, con il capitalismo il culto del de­naro si è trasformato in una vera e propria religione, con propri sacerdoti, chiese, in­censi, liturgie e santi, con un culto feriale a orario continuato, un’adorazione perpe­tua che non si interrompe né di sabato né di venerdì né tantomeno di domenica. È quindi, ad esempio, soltanto una pia illusione pensare che la cultura capitalista possa rispettare il riposo domenicale: in quella religione non c’è domenica, perché ogni giorno è il giorno del culto. Non c’è coabitazione tra la cultura della domenica e la cultura del capitalismo.

Meno enfatizzato in questo libro è invece un punto, che personalmente considero decisivo per le sorti delle nostre economie e del pianeta. I capitalismi non sono tutti uguali, o almeno non lo erano fino ad epo­ca recente. L’Europa, in particolare, aveva generato una sua propria via al capitali­smo, che è stato l’approdo di un modo di intendere l’economia e la società, nato an­che dal cuore dei carismi monastici, fran­cescani, domenicani. La Riforma e la Con­troriforma cattolica hanno inferto una profonda ferita a quell’economia di merca­to che aveva fatto grandi e bellissime Fi­renze, Venezia, Lisbona, Anversa. La lunga storia europea, con la sua grande esperien­za di società diverse e meticce e quindi di bio-diversità, è stata capace di dar vita a un capitalismo sociale, o, come preferisco dire, a un’economia di mercato civile che ha consentito i miracoli economici, la fio­ritura del movimento cooperativo – la più grande esperienza di economia di mercato non capitalistico della storia –, il grande progetto di un’Europa unita, e la realizza­zione di uno Stato sociale e comunitario che il mondo civile ci invidiava. Il nostro capitalismo europeo e italiano è stato di­verso, non dimentichiamolo oggi nell’età della globalizzazione, perché era basato su un’idea di mercato solidale e comunitario.

Queste differenze tra capitalismi si stanno attenuando, in nome di un pensiero del ca­pitalismo unico – quello di stampo nord‑americano –, anche per mancanza di forza politica e per l’assenza di pensiero profon­do. Le Chiese, in particolare la Chiesa cat­tolica, nel XX secolo avevano individuato il nemico della fede nei grandi sistemi collettivisti, e sono state protagoniste nel crollo di quei muri. Non c’è però ancora la consapevolezza diffusa del pericolo non meno devastante e anti-cristiano del capi­talismo finanziario, che, anche per la no­stra distrazione, sta dominando e paganiz­zando il mondo. L’uomo del capitalismo non può essere evangelizzato, perché ha già il suo vangelo, che chiede molto meno del vangelo delle Chiese.

Interessante è in questo libro l’analisi del rapporto tra debito e colpa, cara anche a Giorgio Agamben. Le civiltà nascono per espiare qualche colpa originaria, e quindi i debiti si estinguono, non si creano. Una grande novità della nostra età senza spiri­to è aver inventato la creazione di debito come eredità: ai figli si lasciano debiti, i quali, così, non divengono più eredi. Non capiamo la gravità etica dei nostri enormi debiti pubblici senza un’analisi teologica e spirituale della nostra civiltà. I debiti sono cose serie, soprattutto quando diventano pubblici e quando vengono trasferiti ai fi­gli. Nell’antichità si diventava schiavi an­che per debiti, in Israele quasi soltanto per debiti, ed è per questa ragione che ogni giubileo è liberazione dai debiti, incluso il nostro Giubileo della misericordia, che se ridotto a una faccenda di remissione di peccati e colpe individuali, perde qua­si tutta la sua forza profetica. Come fe­licemente sottolinea Osten, «il termine più antico per indicare la libertà compare nel sumero, dove il termine amargi vuole significare la libertà dai debiti». Il cristia­nesimo, allora, può essere visto come una promessa di liberazione dalla colpa e dai debiti, una profezia in buona parte rimasta incompiuta, come lo è stata la profezia del giubileo ebraico.

I debiti sono sempre cose serie. Anche perché, come concludono gli autori, quan­do dall’orizzonte si eliminano gli dèi, resta solo il debito per i figli, dimentichi di ogni responsabilità: «Dopo di noi il diluvio universale», disse Madame de Pompadour, quando, nel 1757, durante una festa in un castello, apprese la notizia della sconfit­ta delle truppe francesi nella battaglia di Rossbach. «Dopo di noi il diluvio univer­sale»: è il motto dell’Ancien Régime in de­cadenza, che ancora oggi risuona ovunque nell’aria. Non c’è bisogno di essere un aristocratico per dirlo. Chiunque, anche piccolo, faccia debiti ha nel sangue que­sto senso del «Dopo di noi il diluvio uni­versale». Ai figli si lasciano patrimoni, il dono dei padri (patres munus), non i debiti. Chi distrugge i patrimoni e crea debiti è semplicemente irresponsabile. È uno dei messaggi di questo bel libro.

Il testo riprende la Prefazione al volume

Peter Sloterdijk – Thomas Macho, Il Dio visibile. Le radici religiose del nostro rapporto con il denaro. Conversazione con Manfred Osten. Traduzione e note di Fabrizio Iodice, Collana «Lapislazzuli», EDB, Bologna 2016, pp. 120, € 14,00. 9788810558744

Descrizione dell’opera

«Le banche, che nella loro architettura somigliano a templi o chiese, sono le custodi di una divinità visibile – il denaro – e celebrano l’insolita religiosità del capitalismo. Ciò rende evidenti le profonde radici teologiche e religiose del nostro rapporto con i soldi, i debiti e le tasse in un mondo in cui la monetizzazione ha ormai raggiunto ogni campo della vita».

Un romanzo popolare tedesco dei primi del Cinquecento narra la storia di un uomo dotato di una borsa magica che si riempie continuamente di denaro nella valuta del paese in cui si trova. In questa prefigurazione fantastica dell’Euro, egli non deve preoccuparsi della provenienza dei soldi; se lo facesse rientrerebbe nella schiera dei perdenti e dovrebbe lavorare. Eppure, troppa fortuna gli arrecherà solo infelicità e alla fine prenderà la decisione di ritirarsi in un convento.

Sempre nei primi decenni del Cinquecento, l’umanista spagnolo Juan Luis Vives compone a Bruges il primo trattato europeo sulla politica sociale, in cui espone l’idea che le istituzioni, e non solo le strutture assistenziali della Chiesa, debbano occuparsi dei poveri.

Alla moltiplicazione miracolosa del denaro da spendere (metafora del capitalismo) e alla ridefinizione dei compiti dello Stato con le argomentazioni dell’amore cristiano verso il prossimo (metafora dello Stato sociale) si aggiungerà un terzo elemento: la «generosità obbligatoria» dei cittadini disposta dallo Stato moderno attraverso l’ampliamento dell’obbligo fiscale generale.

Note sugli autori

Peter Sloterdijk, filosofo e saggista tedesco, è professore di Filosofia ed estetica alla Hochschule für Gestaltung di Karlsruhe, di cui è rettore dal 2001, e docente all’Accademia di belle arti di Vienna. Tra le sue opere tradotte in italiano: Critica della ragion cinica, Raffaello Cortina Editore 2013, e i tre volumi di Sfere, Raffaello Cortina Editore 2014, 2015.

Thomas Macho insegna Storia della Cultura alla Humboldt Universität di Berlino, dove dal 2006 al 2008 ha ricoperto il ruolo di decano della facoltà di Filosofia. Collabora con il quotidiano Neue Zürcher Zeitung e il settimanale Die Zeit. Tra le opere tradotte in italiano: Segni dall’oscurità, Galaad 2013 e La vita è ingiusta, Nottetempo 2013.

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Un commento

  1. Gianni Iavarone 1 febbraio 2022

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