Violenza islamica e crisi dell’Occidente

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crisi occidente

Foto di Arpad Kurucz

Ieri un amico mi ha chiesto: “come conciliare l’ultima enciclica del papa, Fratelli tutti, con quello che si legge nella cronaca nera a proposito dell’estremismo islamico?”. Quasi tutti hanno condannato quei gesti efferati. Quasi nessuno si è domandato quale possa essere la fonte di tanta violenza.

La fonte siamo noi, non nel senso che è sempre colpa della società ma nel senso che, mostrando il vuoto delle antiche civiltà, abbiamo aperto degli spazi liberi occupati poi da fondamentalismi di ogni genere, al di là delle singole civiltà. Non è questione di Islam o di Occidente, ma è questione di un mondo che è cambiato, è plurale e, inesorabilmente e per la prima volta, globale, interconnesso, anche se in maniera assai caotica.

Il sonno della ragione genera mostri; la paralisi dell’azione umana, emozionale, relazionale, corporea, amichevole, di cura, genera mostri ancor più grandi.

Mi sembra questo il nodo della crisi che stiamo vivendo, non si tratta semplicemente di una crisi dell’Islam, come hanno detto malamente Macron e altri intellettuali dal sapore decisamente ottocentesco. Non è neppure una crisi semplicemente ecologica. È una crisi umanitaria, globale, planetaria, epocale.

L’Islam reagisce molto male ma l’Occidente fa anche peggio. Se un marziano facesse visita al pianeta Terra oggi, non vedrebbe tanto la povertà materiale segnata da contraddizioni economiche grandiose, vedrebbe ancor di più una povertà umana, di solitudine, spirituale, relazionale, psicologica, affettiva, emozionale, corporea. Cosa è successo?

Schiacciando violentemente le civiltà antiche, tutte, sotto il peso dei beni materiali, economici, tecnologici, abbiamo perso il cielo, una meta, un orientamento, un centro. Gli esseri umani hanno quel cielo dentro di sé e senza quell’orizzonte infinito vanno in frantumi, diventano come una radio mal sintonizzata che raschia. Inascoltabile. Questo sta accadendo oggi. Siamo immersi in una cacofonia da cui dobbiamo liberarci in ogni modo, ognuno cerchi la sua via alla bellezza più adatta e personalizzata. Stiamo morendo non per l’inquinamento ma per mancanza di luce.

La luce è passata da alcuni popoli al mondo intero.

Oggi la luce passa dal mondo alle nostre persone perché più che mai i continenti siamo noi e i confini sono dentro di noi, tra credenti e non credenti, tra giusti e ingiusti, tra bianchi e neri, tra uomo e donna (Gal 3,28). La secolarizzazione è già finita, deve solo portare a termine alcuni effetti di sbriciolamento dei vecchi sistemi.

E poi? E poi ci siamo noi, con la nostra vita che rischia di perdersi se non trova un centro, un’identità, per quanto di identità si possa parlare tra gli enigmi dell’uomo, comunque una corda profonda che sia voce, chiamata, parola. Con la festa, con il vino, con lo sposo, già e non ancora col Messia.

Non senza il fallimento, il dolore, la croce, ma attraverso quello, dentro e oltre. In questa visione la morte non è l’ultima parola ma solo e sempre la penultima.

Spazio e tempo tecnici e culturali si sono contratti, come hanno scritto molti ultimamente, e questo è successo perché spazio  e tempo siamo noi ed è giunto il momento di passare dalla cultura alla natura, dalle civiltà antiche alle persone vere, cioè a noi. Di fare spazio alle persone, ai vissuti, alle relazioni e i poveri, i piccoli, gli umili, gli ultimi ci aiutano a comunicare. Comunicare, voce del verbo amare. Il “povero” non è migliore degli altri ma, per posizione naturale, è più pronto al cambiamento, all’ascolto, al mettersi in cammino senza zavorre, a raccontare la realtà senza schematismi costituiti.

Ma ritorniamo a noi: se Carlo Magno decideva che l’Europa sarebbe stata cattolica e di rito romano, tutta l’Europa si poteva/doveva allineare. Se il principe Vladimir decideva di scegliere la religione cristiana ortodossa per tutta la Russia, tutta la Russia diventava cristiana ortodossa. Così per l’Islam e molto spesso per le altre religioni. Ma così accadeva anche in politica, in economia, nei rapporti con l’autorità.

Oggi questo passaggio non è possibile e non si tratta semplicemente di una liquefazione nell’individualismo di cui molto si è parlato  e nella mancanza di una direzione del corpo sociale solida, compatta. Si tratta anche di un cambiamento d’epoca perché la chiamata è personale, il confine, come abbiamo accennato, non è fuori ma dentro di noi. Il confine è rimasto fuori di noi fin quando abbiamo accettato che le nostre responsabilità fossero prese dalla religione o dal partito o da una qualche autorità costituita.

Ma adesso Dio è morto e morti son tutti gli dei, dire Dio dopo Aushwitz non è più la stessa cosa, abbiamo capito che dire Dio non può più essere così scontato e non lo deve essere mai, deve passare attraverso un vaglio profondo, dentro noi stessi e non soltanto fuori. Nella nostra epoca forse c’è una seconda Aushwitz per i poveri dell’umanità e forse è più grande della prima.

In questo paesaggio umano la tentazione più forte è quella dell’integralismo. Meglio coprire tutto con una ideologia conservatrice, islamica o secolare, di destra o di sinistra, piuttosto che mettersi in gioco personalmente, spostando il proprio confine interiore dalla parte della luce, con un vero cambiamento profondo, interiore, personale.

In un mondo inesorabilmente plurale non possiamo affermare i particolarismi con gli integralismi. Non possiamo che ascoltarci facendo un po’ di silenzio, di ascolto, di dialogo profondo, di amicizia, di fiducia, di comunità, di condivisione. Questo atteggiamento presuppone il dono come scelta di vita contro l’egoismo. Così tutto è più facile, più semplice, ma ci vuole il dono. Questo atteggiamento porta al consenso, all’intesa, alla costruzione di corpi intermedi di comunità in cui riconoscersi.

La gente cerca dei luoghi di comunità ma non si riconosce più nei partiti, nei sindacati e neanche nelle istituzioni religiose tradizionali.

In un mondo plurale e senza confini esterni non possiamo semplicemente gridare alla liquefazione. C’è bisogno di farci carico dei nostri mondi interiori per fare comunità. C’è bisogno di concretizzare delle piccole esperienze/progetti dal basso, con le persone reali, con dei fatti significativi.

Come possiamo chiamare questa nuova società che sta nascendo? Non direi tanto società liquida, mi sembra riduttivo. La chiamerei società della parola incarnata, con tutto quello che la parola significa, come silenzio, ascolto, relazione, comunicazione- comunione, chiamata, linguaggio, valor e performativo ecc.

Quella che si va configurando mi sembra una situazione nuova, non un’epoca di cambiamento ma un cambiamento d’epoca (papa Francesco), e non tutto è da rigettare ma, come sempre, c’è da discernere, nella luce di Dio per chi crede, nella luce della ragione per chi crede di non credere.

Il tempo è compiuto, si è fatto breve, è finito. È questione di vita o di morte, come sempre, nelle scelte più importanti della nostra vita. Muoviamoci. Usciamo subito di casa con questi propositi. La vita ci attende, è breve, ce n’è una sola.

Buon cammino a tutti.

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Un commento

  1. Carlo Ferraris 10 novembre 2020

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