Ognissanti, il Cielo di Dio

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“Ognissanti” è il giorno d’oro per pensare al nostro futuro ultimo, alla patria celeste, il “luogo” dove tutti i desideri del cuore umano e, più ancora, tutti i desideri del cuore di Dio sull’uomo si realizzano: è il “luogo” dove «saremo pienamente uomini» (s. Ignazio d’Antiochia). È il caso proprio che si pensi con interesse nuovo e forte a ciò che ci aspetta. Questo non è deviare dagli interessi storici, culturali e politici sui quali Settimananews insiste ogni giorno, perché questi interessi hanno senso solo come preparazione alla «vita del mondo che verrà», sperando, come affermiamo nel Credo. Quel “luogo” è il più bello da noi finora conosciuto e va al di là di ogni desiderio, merito e immaginazione.

bellezza

La bellezza del Cielo, il “Nord di Dio”

Della bellezza eterna si può e si deve parlare, poiché di Dio si può e si deve parlare: «Sventurati coloro che tacciono di te» (Vae tacentibus de te), afferma con ragione sant’Agostino[1] che, per il suo santo acume teologico, merita di essere scelto come “maestro di bellezza”, soprattutto quando si tratta del Cielo di Dio o del «Nord di Dio», come s’esprime von Balthasar: alla sua scuola, occorre subito premettere che si potrà solo balbettare qualcosa sulla bellezza ultima, prendendo necessario spunto dall’esperienza difettosa e parziale del bello che facciamo nell’incertezza del tempo e nella frammentarietà delle cose umane.

1. Una bellezza che possiamo “lallare”. L’idea che si possa parlare della bellezza futura è presentata con efficacia da sant’Agostino, la cui parola intonata e sapiente è un delicato tratteggio della bellezza celeste: «Non posso dir di più se non che si promette la visione dell’armonia, della cui partecipazione il mondo sensibile [cetera] è bello, al cui paragone è deforme».[2] Per poter parlare della forma che avrà la salvezza futura si può utilmente partire da una definizione agostiniana della bellezza corporea: «Completa bellezza del corpo è […] la proporzione delle parti [partium congruentia] congiunta a una certa delicatezza [suavitas] del colore».[3]

2. Una bellezza che un po’ già conosciamo. La bellezza non sarà altra cosa in Cielo; essa si darà in altro modo, con vastità imprevedibile e profondità insospettabile rispetto alla bellezza del “frattempo” che viviamo, poiché diverse sono le regioni celesti da quelle terrestri, e molto forti sono i limiti del “qui e ora”, rispetto al giorno eterno del Cielo. Questa differenza interessa anche la bellezza: «Per­ciò [nell’eternità] non vi sarà irregolarità [deformitas] prodotta dalla sproporzione delle parti in uno stato in cui i difetti saranno emendati, e ciò che è di meno di quel che conviene [decet] sarà completato e ciò che è di più di quel che conviene sarà detratto. Sarà molto grande la delicatezza dei colori perché “i giusti splenderanno come sole nel regno del loro Padre” (Mt 13,43)».[4]

 La bellezza, “qui e ora, “lì e allora”

Sostieni SettimanaNews.itIl Cielo è profetizzato come infinitamente bello, perché il Cielo ha la stessa bellezza di Dio; eppure, per parlarne, dobbiamo partire proprio dalla bellezza che sperimentiamo nella terra d’esilio e nel tempo dell’esodo, sebbene qui l’esperienza della bellezza sia disturbata dalle apparizioni spesso ripugnanti del brutto.

Nel tempo degli uomini, anche quando la bellezza c’è con evidenza, è comunque almeno striata dai sintomi di ciò che è disarmonico, sgraziato, deforme, orrido, immondo, abominevole… Ma forse, anche questo fa desiderare il Cielo, la patria eterna della bellezza. Il desiderio ci porta là dove la creazione sarà profondamente purificata e sviluppata, dove la Chiesa sarà sposa pienamente bella, dove la famiglia di Adamo sarà una comunità di uomini interamente uomini e del tutto redenti.

1. Una bellezza sfiorata nel tempo. La differenza è fra il nostro intravedere Dio nel tempo e negli spazi umani e la sorprendente esperienza di lui, riservata dopo l’ultimo giorno, alla foce del tempo. «Noi contempleremo la sostanza immutabile che occhi umani non possono vedere»,[5] «la sostanza che non viene mai meno».[6] Vedremo la Verità immutabile, la Sapienza, la Giustizia di Dio.[7]

Anche la differenza tra il vedere Dio nella fede e il vederlo nella gloria è da esprimere in termini di bellezza. «Egli ha promesso di mostrarsi a noi. E voi, o fratelli, pensate quale debba essere la sua bellezza. Le cose belle che voi vedete e amate, le ha tutte create lui. Se dunque queste cose sono belle, quale non sarà la bellezza di lui?».[8] La promessa di mostrarsi a noi nella bellezza non sarà delusa: «Ci apparirà colui che è indicibilmente bello, nel quale ora crediamo pur senza vederlo, poiché allora saremo simili a lui in quanto lo vedremo quale egli è».[9]

2. Una bellezza che abiteremo per sempre. Il Cielo sarà bello perché risplenderà della bellezza della vocazione realizzata di tutti i figli di Dio, a ognuno dei quali sarà dato il suo nome eterno: «A chi vince io darò della manna nascosta e una pietruzza bianca, sulla quale è scritto un nome nuovo che nessuno conosce, se non colui che lo riceve» (Ap 2,12).

Il Cielo sarà infinitamente bello per l’amore perfetto che vi si celebrerà, come, del resto, l’Inferno sarà un “luogo” imbruttito dal disamore, dall’odio, dal peccato e dai molteplici fallimenti eterni della vocazione degli uomini (umano-creaturale, religioso-cristiano, comunitario-ecclesiale).

Destinati alla bellezza eterna

In Cielo saremo «con bellezza presso la Bellezza»,[10] al cospetto dell’«infinita bellezza divina»;[11] allora sarà proprio l’eternità a diradare le ultime ombre dal nostro godimento della bellezza. Alla fine, oltrepassato il tempo del lavoro, della ricerca, delle intraprese umane e il loro corredo di gioie, di tristezze e di fatica, resterà solo l’amore che scaturisce dalla visione della divina bellezza (cf. 1Cor 13,8).

Questa visione di gloria è la consacrazione eterna dell’esistenza vissuta nella grazia, nelle virtù e nello spirito delle beatitudini: «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio» (Mt 5,8).

Il “frattempo” è l’allenamento alla gratitudine, alla contemplazione della bellezza, che per la distesa dei giorni Dio irradia sulla creazione perché questa sia strada sicura che porta alla gloria.

La bellezza sperimentata nella fragilità del tempo è allusiva della bellezza futura, ma questa sarà profondamente diversa: essa si porrà tra continuità e discontinuità con l’esperienza che se ne fa durante la nostra condizione pellegrinale.

Un “pieno” di bellezza

Il Cielo è infinitamente ricco di gloria perché è il santo grembo della Trinità, il santo cuore del Padre. Perciò il Cielo è il “luogo” della perfezione dell’uomo, perché in nessun altra condizione ultima questi potrà essere maggiormente arricchito da Dio, poiché solo lassù in Cielo «Dio sarà tutto in tutti» (1Cor 15,28): «Egli sarà il compimento [finis] di tutti i nostri desideri, perché sarà veduto senza fine, amato senza ripulsa [fastidio], lodato senza stanchezza […]. Lì riposeremo [vacabimus] e vedremo, vedremo e ameremo, ameremo e loderemo. Ecco quel che si avrà senza fine alla fine».[12]

Il Cielo, perché “luogo” di pienezza di gloria, è anche “luogo” di piena bellezza, che s’irraggia per sempre e in tante forme diverse.

Per mirare al vertice della bellezza del Cielo, la saggezza cristiana suggerisce di non dimenticare i limiti dell’esperienza del bello che facciamo in terra: il contrasto dell’ultima bellezza con la prima aiutano a capire la grandiosità di quella e l’importanza di questa.

È ancora il magnifico “maestro di bellezza” che ci guida nello scrutare dalla bassezza di questa valle i bellissimi Cieli e a rendercene conto: «In questo mondo, – scrive l’Ipponense – immersi in tanto splendore e in una bellezza che quasi non dubiteresti a qualificare come ineffabile, accanto a te vivono anche i vermiciattoli e i topi e tutti gli esseri che strisciano sulla terra: esseri di questa levatura vivono insieme con te in questo magnifico splendore. Quale non sarà lo splendore di quel regno dove insieme con te non vivranno se non gli angeli?».[13]

La bella scala dell’amore attracca alla soglia del Cielo

Non c’è solo un rapporto causale dall’amore alla bellezza, ma anche dalla bellezza all’amore. Se già qui in terra la bellezza è amore e l’amore è bellezza, soprattutto nell’esperienza della gloria eterna la più alta forma della bellezza evocherà la massima misura dell’amore.

Il Cielo confermerà la doverosità della bellezza: l’imperativo dell’amore è un imperativo di bellezza; in altri termini, la responsabilità di testimoniare l’amore si trasferisce sulla bellezza.

Nell’eternità non vale il principio «ciò che è temporale lo si ama di più prima che lo si possegga, mentre quando se ne è in possesso, diventa insignificante [vilescit, ma l’altro criterio: «ciò che è eterno […], quando lo si è conseguito, lo si ama con più ardore che non quando era oggetto di desiderio».[14]

L’amore maturo, ardente, perfetto ha i connotati della bellezza, che è maturità d’esperienza, ardore di vita, perfezione di forma.

Chi ama vuol contemplare la persona amata e chi contempla la persona amata si sente d’amarla sempre di più. Come pure, chi contempla amando e chi ama contemplando la persona desidera durare in questa doppia e reciproca esperienza: «Chi vede ciò che ama, vuol restare là dov’è. Se il desiderio dei santi può essere tanto ardente nella sola fede, che cosa mai sarà nella visione? […] quale sarà il nostro amore quando avremo davanti agli occhi ciò che amiamo?».[15]

La bellezza dell’“Altro Mondo”

In Cielo saremo «con bellezza presso la Bellezza»,[16] al cospetto dell’«infinita bellezza divina»:[17] allora sarà proprio l’eternità a diradare le ultime ombre dal nostro godimento della bellezza.

Alla fine, oltrepassato il tempo del lavoro, della ricerca, delle intraprese umane e il loro corredo di gioie, di tristezze e di fatica, resterà solo l’amore che scaturisce dalla visione della divina bellezza (cf. 1Cor 13,8). La bellezza del Cielo sarà un premio alla santità, parola che dà un nome allo stesso Cielo: questo è il “luogo” per eccellenza della santità; in esso, insieme a Dio tre volte santo, abitano gli angeli e i santi.

Per questo la bellezza si lega in modo decisivo all’opera plasmatrice dello Spirito, per la cui azione anche la carne riceverà, nella risurrezione, la trasformazione innovatrice: allora «tutto l’uomo deificato» potrà «aderire all’eterna e immutabile Verità»[18] e verrà ricomposta la proporzione armonica fra il Cristo e noi nell’esperienza dell’unica risurrezione, prima quella di Cristo, poi anche la nostra: «Così anche il corpo avrà vigore in virtù del Figlio di Dio, perché tutto esiste per mezzo di lui».[19]

In tal modo, Dio opererà tale rinnovamento, creando un’opera d’arte d’ineguagliabile bellezza: con la sua «meravigliosa onnipotenza» riuscirà a compiere questo abbellimento in modo sublime. Se già un artista umano è capace di trasformare una statua malriuscita in un’altra, bella e della stessa grandezza, «che cosa si deve pensare dell’Artista onnipotente?».[20]  

Senza il Figlio incarnato non ci sarebbe bellezza né in terra né in Cielo

Cristo, l’Adamo vero, è bellezza perché è «irradiazione dello splendore del Padre» (Eb 1,3) e, in lui e per mezzo di lui (cf. Ef 1; Col 1), siamo stati creati con la vocazione a partecipare a quell’infinita bellezza in parte in terra, del tutto in Cielo.

Questo progetto del Padre s’è, di fatto, realizzato con l’incarnazione del Figlio, ha reso dunque possibile il manifestarsi della bellezza trinitaria: la sua umanità è il segno della bellezza divina ed è anche il sacramento della comunicazione di quella bellezza a noi, «predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo» (Rm 8,29). Come è facile comprendere, parlando di Bellezza divina, il primo accento cade sull’incarnazione e qui arrestiamo il discorso: non è un caso che san Tommaso parli della bellezza quando sta parlando del Figlio incarnato.[21]

Se non ci fosse stata l’incarnazione, non avremmo il primo segno della bellezza divina, né potremmo parlare di essa con la concretezza e la densità con cui lo fa la teologia cristiana. «La ricchezza di un’affermazione che unisce bellezza e salvezza è proprio la dottrina dell’incarnazione della corporeità trasfigurata come condizione indispensabile alla realizzazione della fede e condizione della novità assoluta del cristianesimo, novità celebrata nella risurrezione di Cristo».[22]

Se l’essenza del cristianesimo è la persona di Gesù Cristo, il cristianesimo comincia con l’incarnazione ed è allora, perciò, che è possibile iniziare a parlare della bellezza del Figlio. La bellezza divina inizia la sua vera storia con l’incarnazione: ciò che precede è la sua profezia, in un certo senso la sua preistoria. «Facendosi uomo – scrive Giovanni Paolo II –, il Figlio di Dio ha introdotto nella storia dell’umanità tutta la ricchezza evangelica della verità e del bene, e con essa ha svelato anche una nuova dimensione della bellezza: il messaggio evangelico ne è colmo fino all’orlo. La sacra Scrittura è diventata così una sorta di “immenso vocabolario” (P. Claudel) e di “atlante iconografico” (M. Chagall), a cui hanno attinto la cultura e l’arte cristiana».[23]

La congenialità della bellezza con l’incarnazione è tale che «in tutto ciò che suscita in noi il sentimento puro e autentico del bello – scrive Simone Weil nei suoi Quaderni – c’è come una specie di incarnazione di Dio»: «quindi tutta l’arte di prim’ordine è per essenza religiosa» in quanto «testimonianza in favore dell’incarnazione. Una melodia gregoriana testimonia quanto la morte di un martire».[24]

Il richiamo all’incarnazione è così necessario e decisivo che, senza di esso, il discorso sulla bellezza in termini cristiani non si dà. Senza l’incarnazione, non c’è bellezza né in terra né in Cielo. Questo autorizza a dire una gran cosa: la “teologia della bellezza”, che non è presa ancora sul serio in tutta la comunità teologica, non è legittimata da uno sporadico riferimento alla cristologia, ma di questa essa è una parte importante o – forse ancora meglio – si deve dire che, della cristologia, la teologia della bellezza è una forma necessaria.

In Cielo aleggia il fascino della bellezza di Dio

La bellezza di Dio non perderà mai il suo valore e il suo fascino: «Perciò sii fedele a Dio poiché è immutabile [tene ergo Deum, quia nu­mquam vilescit], poiché non c’è niente di più bello. Là vi sarà anche, in certo qual modo, una sazietà insaziabile. Poiché non avvertirai una sazietà che ti faccia desiderare di scostarti né ti mancherà qualcosa di cui tu debba quasi avvertire il bisogno».[25]

All’ineffabilità del bello da vedere – che sant’Agostino attribuisce alla seconda Persona divina – corrisponde l’effetto: il godimento inesprimibile. «Mediante questa [fede che opera in virtù della carità: Gal 5,6] progrediscono ogni giorno nella virtù i fedeli desiderosi di arrivare […] alla visione di Dio. La dolcezza e il diletto della visione di Dio sorpassa tutto lo splendore delle anime giuste e sante quanto si voglia; oltrepassa la magnificenza degli angeli del cielo e delle virtù, insomma tutto ciò che non solo può dirsi, ma anche pensarsi di Dio».[26]


[1] S. Agostino, Confessioni, 1,4,2.
[2] S. Agostino, L’ordine, 11, 19, 5 1.
[3] S. Agostino, La città di Dio, XXII, 19, 2.
[4] S. Agostino, La città di Dio, XXII, 19, 2.
[5] S. Agostino, La Trinità, 1, 13, 31.
[6] S. Agostino, Esposizioni sui Salmi, 41, 7.
[7] Cf. S. Agostino, Discorso 252, 10 e 27, VI.
[8] S. Agostino, Esposizioni sui Salmi, 84,9.
[9] S. Agostino, Lettere, 64, 1; cf. 1 Pt 1, 8‑ 1 Gv 3, 2.
[10] S. Agostino, La quantità dell’anima, 35,79
[11] Concilio Ecum. Vat. II, Cost. Sacrosanctum concilium, n. 122.
[12] S. Agostino, La città di Dio, XXII, 30, 1; 30, 5.
[13] S. Agostino, Esposizioni sui Salmi, 144, 15.
[14] S. Agostino, La dottrina cristiana, 1, 38, 42.
[15] S. Agostino, Discorso 359/A = Lambot 4.
[16] S. Agostino, La quantità dell’anima, 35,79.
[17] Concilio Ecum. Vat. II, Cost. Sacrosanctum concilium, n. 122.
[18] S. Agostino, Discor­so 166,4.
[19] S. Agostino, La vera religione, 12, 25.
[20] S. Agostino, La città di Dio, XXII, 19, 2.
[21] S. Tommaso d’Aquino, Summ. Theol. I, q. 39, a.8.
[22] M. Tenace, Il cristiano filocalico. L’amore del bello e la vita cristina, in Aa.Vv., Cristianesimo e bellezza. Tra Oriente e Occidente, a cura di Natalino Valentini, Paoline, Milano 2002, p. 116.
[23] Giovanni Paolo II, Lettera agli artisti (4.4.1999), n. 5.
[24] S. Weil, Qua­derni, III, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1988, p. 120.
[25] S. Agostino, Discorso 125, 11.
[26] S. Agostino, Lettere, 189, 3 [al generale Bonifacio].

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