
AP Photo/Philippe Magoni, Pool
Benvenuti nell’età della paralisi: la democrazia liberale come la conosciamo noi non sta funzionando. A inceppare il meccanismo è stato, tra l’altro, il tentativo di evitare che le destre o comunque i partiti anti-sistema e anti-democratici arrivassero al potere. Questi sforzi hanno irrigidito la competizione politica, frustrato gli elettori, generato scetticismo e così hanno preparato le condizioni proprio per il trionfo di quelle destre che si volevano fermare. Guardate la Francia: il nuovo primo ministro Sébastien Lecornu, indicato da Emmanuel Macron appena un mese fa, ha presentato la lista dei ministri e poi si è dimesso prima ancora di cominciare a governare.
Non ci sono le condizioni, non ci sono mai state per quello che Macron dall’Eliseo continua a tentare, cioè costruire una maggioranza parlamentare sbilanciata verso destra che faccia passare misure di austerità grazie all’astensione del Rassemblement National.
I voti non c’erano per Michel Barnier un anno fa, non c’erano per François Bayrou un mese fa e non ci sono per il terzo primo ministro in un anno stritolato dalla crisi politica permanente della Francia.
La crisi permanente
La paralisi non è soltanto francese, ma la Francia è diventata l’epicentro di questa crisi democratica senza soluzione. L’intera parabola del macronismo, la sua ascesa e il suo fallimento, si iscrivono nel perimetro della legge elettorale francese: Macron è un prodotto del sistema a doppio turno che premia i candidati capaci di ottenere abbastanza consenso nello scrutinio iniziale e poi di aggregare larghe maggioranze al secondo.
Da oltre vent’anni, dalla vittoria di Jacques Chirac nel 2002 contro Jean Marie Le Pen, lo schema è lo stesso: partiti frammentati e litigiosi al primo turno che poi si aggregano di malavoglia al secondo per evitare che la destra, anche quando forte di una maggioranza relativa, arrivi al potere.
Questo sistematico tentativo di usare le regole per limitare l’impatto del consenso — reale e diffuso — per partiti xenofobi, anti-europei, manipolati dalla Russia di Vladimir Putin, sta creando le premesse per il loro trionfo. Adesso, dopo nuove elezioni anticipate, o alle inevitabili elezioni presidenziali del 2027.
«Era una crisi permanente, in un susseguirsi incessante di notizie sensazionalistiche. L’opinione pubblica e i politici erano travolti dall’intensità del momento, incapaci di concentrarsi sul futuro a causa di un presente incalzante. Cercavano tutti di restare a galla, ignari di dove le parole stessero portando».
Così Robert D. Kaplan descrive non la Francia di oggi, ma la Repubblica di Weimar tedesca, tra il 1918 e il 1933, nel suo nuovo libro appena pubblicato da Marsilio, che in italiano si intitola Il secolo fragile e in inglese Waste Land, A World in Permanent Crisis.
Ora, la nozione di «crisi permanente» è un ossimoro o un’ovvietà, se la crisi è la normalità non è una crisi.
Comunque, il sempre acuto analista geopolitico Kaplan ha terminato questo libro prima che Joe Biden si ritirasse dalla corsa presidenziale nell’estate 2024, quando Donald Trump non era neppure il favorito.

La sua analisi resta valida: i protagonisti della Repubblica di Weimar erano così ossessionati dal pericolo di un’insurrezione, e in particolare del colpo di Stato da parte dei nazionalsocialisti, che costruiscono l’intera vita politica intorno a questa priorità. Ma perdono di vista la realtà a tal punto che quando il presidente Paul von Hindenburg nomina Adolf Hitler cancelliere nel 1933, il suo predecessore in quell’ufficio, Franz von Papen, dice «L’abbiamo incastrato».
Nel giro di due mesi — riassume Kaplan — «la democrazia era svanita e la Repubblica di Weimar era solo un lontano ricordo. Aveva lasciato un vuoto così grande che qualsiasi cosa avrebbe potuto prenderne il posto».
Si può forse dire già qualcosa di simile di Emmanuel Macron e della Quinta Repubblica francese. Ma non soltanto. L’età della paralisi è un’esperienza condivisa in un mondo che, per citare sempre Kaplan, è stato reso più piccolo e più fragile dalla combinazione tra interdipendenza economica e accelerazione tecnologica.
Nessuno shock è più locale.
Lo stallo europeo
Mentre la Francia annaspa, in Repubblica ceca alle elezioni politiche trionfa il movimento del populista di destra Andrej Babiš, ma a Bruxelles esultano perché almeno dovrebbe formare un governo soltanto conservatore senza dover fare troppe concessioni ai partiti con le posizioni anti-europee più estreme.
In ogni caso, sarà un governo di minoranza con il sostegno degli estremisti e Babiš ridurrà il supporto della Repubblica ceca all’Ucraina, come promesso in campagna elettorale, e l’Ungheria di Viktor Orbán può contare su un altro Paese ostile alla linea dura dell’Unione europea contro la Russia.
Il Consiglio europeo, dove Orbán fa pesare il suo veto, è un’altra delle tante vittime dell’età della paralisi: una volta le sue riunioni mensili si attendevano con trepidazione, perché era in quelle lunghe cene notturne che si decideva il destino dell’Europa.
Oggi sono diventate quasi irrilevanti. Faticano a decidere sulle sanzioni alla Russia, non hanno ancora preso — e probabilmente non prenderanno a breve — decisioni su Israele e Gaza.
Il potere sembrava essersi spostato verso la Commissione europea: per la prima volta il capo dell’esecutivo europeo Ursula von der Leyen è stata rieletta per un secondo mandato, è diventata il volto dell’Europa, assertiva, determinata, finalmente politica.
O almeno così si diceva fino a qualche mese fa. E adesso invece Ursula von der Leyen è diventata il volto della paralisi. Non è riuscita a imporsi nei negoziati con Donald Trump sui dazi, anche se alla fine il risultato non è economicamente disastroso, la presidente ha dato un’impressione globale di sudditanza.
Gli Stati Uniti hanno cambiato il loro approccio all’Europa, da fornitori di servizi assicurativi – militari e finanziari – a estrattori di rendite, per usare la sintesi dell’economista Adam Posen. Quando Trump è venuto a riscuotere il pizzo per la protezione americana, ora erogata con la logica del boss di quartiere invece che della potenza egemone, Ursula von der Leyen ha soltanto chiesto quale fosse il nuovo prezzo, sia in campo commerciale che per la spesa militare.
Adesso, come osserva Politico.eu, sta diventando quasi una consuetudine che la presidente della Commissione debba sottoporsi a voti di sfiducia nel Parlamento europeo: soltanto questa settimana ci sono due voti. Bastano 72 firme su 720 parlamentari per chiedere un voto di sfiducia, Von der Leyen affronterà «un attacco senza fine al suo ruolo», scrive Politico.
Il Colpo di Stato dello shutdown
La paralisi negli Stati Uniti diventa addirittura strumento di potere. I Democratici si sono trovati costretti a scegliere se approvare con i loro voti la svolta autoritaria impressa dall’amministrazione Trump e le sue politiche che contestano.
Oppure potevano non votare l’innalzamento del tetto al debito pubblico e spingere, almeno per un po’, il governo americano allo shutdown, cioè alla crisi di liquidità. Senza soldi per pagare parte degli stipendi e delle spese, il Governo federale deve fare licenziamenti di massa e bloccare l’erogazione di fondi.
Dopo aver evitato il blocco, qualche mese fa, adesso i Democratici hanno optato per lo shutdown.
Come nell’analisi di Kaplan, il tentativo di evitare la svolta autoritaria la accelera, perché Trump usa lo shutdown per una nuova ondata di licenziamenti di massa, per attuare una delle idee forti del suo secondo mandato: cacciare quanti più dipendenti pubblici possibile per sostituire burocrati indipendenti con esecutori di provata fede trumpiana.
In un apposito video creato con l’intelligenza artificiale, Trump suona una campanella, il vicepresidente JD Vance suona la batteria e il direttore dell’ufficio bilancio e teorico del Project 2025 Russel Vought è la morte con la falce che viene a prendervi.
I commentatori progressisti si indignano perché nel video un messicano ha il sombrero e questo può essere un po’ razzista. Intanto Trump rende il colpo di Stato permanente un contenuto virale.
Tra le conseguenze della paralisi ci sono le piazze per Gaza: nessuno riesce a fermare il genocidio di Israele. Non l’ONU, non la giustizia internazionale, non i governi. Anzi, a portare in piazza molte persone è stata la frustrazione nel vedere una politica spettatrice passiva degli eventi.
Se i rappresentanti eletti — politici, sindacali o altro — avessero dato battaglia, se le opposizioni avessero dato l’impressione di poter offrire qualcosa di davvero diverso rispetto alle forze al governo, le piazze sarebbero state meno partecipate.
In Italia come negli Stati Uniti, invece, le forze che dicono di opporsi alla deriva autoritaria delle nostre democrazie liberali e al collasso dell’ordine internazionale rimangono prigioniere di calcoli tattici che consigliano sempre di rimandare il momento delle prese di posizioni esplicite.
Oggi no, forse domani, magari meglio dopodomani quando gli elettori si saranno resi conto che è tempo di cambiare. E intanto la paralisi diventa cronica, e la domanda per alternative autoritarie cresce.
Gloria Origgi: la crisi del macronismo
- La crisi della politica francese ormai è permanente. Qual è la crisi principale? La presenza di Macron all’Eliseo rende impossibili soluzioni creative?
La Francia non riesce a risollevarsi dalla dissoluzione dell’Assemblea nazionale che Macron impose ai francesi nel giugno del 2024. Da allora si sono succeduti diversi governi e primi ministri, ma nessuno è riuscito a restituire al Paese una sufficiente credibilità.
Le elezioni legislative successive alla dissoluzione avevano prodotto un Parlamento diviso in tre blocchi fondamentali: una sinistra molto frammentata, che per ora è riuscita a presentarsi unita solo in occasione delle elezioni; una destra composta dal partito repubblicano tradizionale e da una destra populista, il Rassemblement National, sempre più ampia; e infine un centro macronista che non disponeva più dei numeri necessari per essere politicamente credibile.
Dopo la crisi apertasi con il nuovo Parlamento, Macron ha scelto di nominare primi ministri moderati, appartenenti al suo stesso campo politico. L’ultimo, Sébastien Lecornu, è stato forse l’esempio più emblematico di questa linea: il suo governo non è riuscito a resistere neppure dodici ore.
A questo punto, ciò che appare rifiutato in modo chiaro è il macronismo stesso, l’intera politica costruita attorno alla figura di Macron. Le opzioni che restano sul tavolo sono una nuova dissoluzione dell’Assemblea o, come auspica l’estrema destra, addirittura le dimissioni del Presidente.
- Che conseguenze ha questa paralisi sulla credibilità delle istituzioni democratiche in un momento in cui sono già in difficoltà un po’ ovunque?
Ho sentito alla televisione le reazioni dei cittadini di fronte a questa nuova crisi di governo — un governo praticamente neanche nato — ed effettivamente il sentimento dominante è quello di sentirsi presi in giro. Queste continue manipolazioni politiche, le alleanze e le finte alleanze, la mancanza di interesse per i veri problemi del Paese irritano profondamente la popolazione.
I problemi, infatti, sono concreti, soprattutto sul piano economico: la Francia si trova con un deficit importante, è stata retrocessa nei ranking finanziari internazionali e deve approvare con urgenza la legge di bilancio. In questo contesto, la litigiosità e la continua «cucina politica» nei corridoi del potere suscitano una disillusione crescente, in un Paese in cui le istituzioni sono sempre state solide e che oggi appaiono ridicolizzate dalla piazza.
Macron si trova dunque davanti a una scelta difficile: perdere tutto nel tentativo di restituire credibilità al proprio Paese, oppure insistere in una politica che lo vede aggrapparsi al suo ruolo di presidente, cercando di tirare avanti fino al 2027.
Questa seconda opzione, tuttavia, rischia di favorire l’estrema destra, che, pur essendo coinvolta anch’essa in negoziazioni di basso profilo politico, è rimasta all’opposizione e continua quindi a presentarsi come un volto nuovo del potere — un elemento che potrebbe attirare ulteriormente gli elettori.
- In queste settimane le piazze si sono riempite delle manifestazioni per Gaza: è il segnale di un ritorno di fiducia nella politica o della disillusione definitiva che spinge a voler fare da soli, senza fiducia nei governi? In Francia come in Italia.
Sicuramente anche in Francia, come in Italia, si sono manifestati movimenti non prettamente politici che hanno portato le persone in piazza. In settembre abbiamo visto, per esempio, il movimento Fermiamo Tutto, nato sui social network senza un chiaro fondamento politico.
La politica, intesa come movimento dei cittadini per far avanzare le cose, oggi in Francia si esprime quindi sempre più al di fuori degli assetti tradizionali dei partiti.
Resta da vedere, però, cosa farà nelle prossime settimane la sinistra francese, che dopo la dissoluzione aveva mostrato un certo slancio e una capacità di unirsi, riuscendo a rinvigorire le piazze e le speranze. Di fatto aveva anche ottenuto un risultato discreto alle elezioni.
Una possibilità per Macron, invece di lasciare che tutto si dissolva e consegnare di fatto le redini a Bardella, sarebbe quella di tentare un’apertura a sinistra, valutando se un governo di sinistra — che, pur con una maggioranza risicata, era emerso dalle elezioni del luglio 2024 — possa riuscire a risollevare lo spirito e l’energia politica del Paese.
- Dal Substack di Stefano Feltri, Appunti, 7 ottobre 2025







La Francia non è Weimar e non ha vinto la destra al secondo turno, ma una sinistra più radicale che non ha visto riconosciuta da Macron la vittoria.
Trump invece potrà anche licenziare più gente, ma non ne può assumere, perché lo shoutdown impedisce pure le assunzioni, e se i democratici vogliono giocare sporco questo shoutdown durerà ben più di quanto durò il più lungo, sempre accaduto durante la prima presidenza Trump.
Fare predizioni è difficile in questo momento. Quanto all’ Europa, non è mai esistita. In un Mondo dove il diritto internazionale è morto ucciso dai suoi creatori, si svela al mondo l’ inganno di questi 80 anni di pace, che hanno visto l’ Europa abbandonare la storia in nome di una ipocrita idea che l’ occidente e l’ america erano il meglio. E per carità tutti noi ora riconosciamo che quei valori di democrazia e diritti che erano stati creati dopo le due guerre mondiali avevano il loro valora e lo hanno oggi, non fosse che questi valori per sussistere devono essere, se non riconosciuti da tutti tutti, almeno dalla potenza egemone, che fa da sceriffo del mondo. Ma noi stessi anche in passato abbiamo visto che questi diritti erano violati perfino dai loro creatori, anzi erano usati per falsificare false guerre giuste come in Iraq, dove si inventarono ad hoc le armi chimiche mai esistite, o la guerra in afganistan dove ci siamo tutti infognati in un paese che non ci voleva e a cui della nostra democrazia imposta non importava nulla. Il Vietnam non ha insegnato nulla. Ora se persino il tribunale del diritto internazionale viene preso di mira dai suoi inventori, inventori che però non vi hanno mai partecipato, perché fa il suo lavoro, come si può ancora parlare di Europa? Mi pare evidente che non è questa Europa che serve, ma una nuova da costruire e che al momento non è neppure nei piani di venir costruita.