Camisasca e Trianni: un semplice esistere

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Juri Camisasca, musicista, e Paolo Trianni, teologo, sono coautori del volume Un semplice esistere, Queriniana, Brescia 2025 in uscita il 28 aprile prossimo. Qui di seguito riprendono e protraggono la loro conversazione intervistati dal nostro Giordano Cavallari.

copertina

  • Caro Paolo, hai scritto «le canzoni che amo di più sono quelle che ascolto meno»: qual è una canzone di Juri che ascolti raramente, proprio perché preziosa per te?

Non posso sottovalutare Juri Camisasca. A volte penso che nemmeno lui sia consapevole della portata della sua ispirazione. Che ne sia cosciente o meno, nelle sue canzoni vibra la verità dello Spirito. Non mi interessa fargli i complimenti, né lui ne ha bisogno, ma Juri è un grande. Pezzi come Suprema identità (qui video su YouTube) o il suo Te Deum (qui video su YouTube) nascono da uno stato di grazia. È una vergogna che per anni non lo siano andati a cercare per proporgli dei dischi. Forse il solo Battiato ha intuito la verità spirituale che può passare attraverso la sua arte. Forse, senza Franco, non lo conosceremmo nemmeno come artista.

Perché non lo ascolto più spesso? Perché nelle sue canzoni c’è il sacro, e il sacro non può essere mischiato o banalizzato con il profano. Non ascolterei certo Juri quando guido la macchina. Lo riservo a quei momenti nei quali ho bisogno che mi si dischiuda una penetrazione maggiore di luce.

  • Sei docente e scrittore di teologia: perché questo libro con un musicista?

Perché le canzoni non vanno spiegate, ma quelle di Juri sì, e la spiegazione passa anche attraverso una maggiore conoscenza della sua biografia. Per carità, i suoi testi e le melodie che li accompagnano hanno una forza autonoma, ma il messaggio teologico che contengono – perché Juri è forse l’unico in Italia che fa canzoni teologiche – arriva meglio e più a fondo se se ne comprendono meglio i contenuti.

Ho scritto nel libro che probabilmente le sue canzoni sono più grandi lui, e ne sono convinto, perché questo è il segno che sempre accompagna l’arte quando è autentica, ma, se questo è vero, significa anche che contengono una verità spirituale che travalica il suo autore. Le sue canzoni meritano di essere riflettute e considerate al rango di intuizioni teologiche. L’arte, del resto, è una forma intuitiva di teologia.

  • Caro Juri, hai detto che «il dopo annulla tutto»: cosa vuol dire nel tuo caso? È legato alla scelta dello pseudonimo?

“Il dopo annulla tutto” va interpretato come un modo per sottolineare il potere trasformativo della conversione. Si tratta in effetti di una “rinascita” spirituale. Tutto il passato diventa insignificante, si entra realmente in un altro ordine di percezione, il senso della realtà viene radicalmente ridefinito.

Dio basta! Non sai più che fartene della mondanità e dei suoi sbiaditi orizzonti. I desideri materiali e le ambizioni terrene appaiono prive di un significato ultimo. Giovanni della Croce, Ruysbroeck, Rumi, Gregorio Palamas, hanno scritto di una dimensione divina così intensa che il mondo fisico, con le sue distrazioni, diventa quasi un’ombra. Non si tratta di disprezzare la vita, ma questa appare come un pallido riflesso di qualcosa di molto più grande.

Per quanto riguarda lo pseudonimo, il campo della letteratura, della musica e del cinema è pieno di artisti che ne hanno fatto uso. Basti pensare a Moravia, Stendhal, Dylan, Sting, Lady Gaga, Rita Hayrwuorth, Michael Caine e molti altri. Persino nello sport ci sono degli esempi: Muhammad Ali, Sugar Ray Robinson. Nel mio caso si è trattato di una scelta unicamente di gusto sonoro.

Tuttavia, sulla copertina del Te Deum c’è scritto Roberto “Juri” Camisasca.

  • Da dove il titolo “Un semplice esistere”? Cos’è vivere per te?

Il titolo del libro – Un semplice esistere – è stato scelto insieme, da me e da Paolo. Rispecchia la mia vita. Attualmente vivo in Sicilia, alle pendici dell’Etna. Le mie giornate sono sempre uguali ma non sono monotone perché trovo valore proprio nella semplicità e nel silenzio della solitudine. Non è importante quello che faccio ma come lo faccio. Il focus è tutto sulla presenza interiore. Anche il semplice atto di preparare una tazza di tè assume un significato profondo. In questa maniera, senza le distrazioni del mondo esterno, la ripetitività si trasforma in una forma di disciplina.

Da un punto di vista esteriore, il mio tempo lo passo tra la musica, la pittura e la lettura. Ma spesso rimango come assorto in uno stato di “non mente”.

Non è semplice vivere in solitudine. Il fatto è che, se ti capita di non stare bene, e questo capita, tutto diventa più difficile; ma è anche vero che proprio in quei momenti si ha la misura della vera maturità spirituale, della capacità di abbandono e di accettazione.

Bisogna essere in grado di padroneggiare il flusso dei pensieri, dell’immaginazione e delle emozioni, altrimenti si possono passare anche ore spiacevoli. Ci deve essere una certa predisposizione per fare questo tipo scelta. Tuttavia, quando hai per amico il silenzio, hai anche la possibilità di vedere la ricchezza nascosta nella quiete.

  • Paolo, uno degli interessi comuni con Juri è l’India. È possibile una convergenza teologica “indo-cristiana”?

La civiltà cristiana ha bisogno della sapienza indiana. Non lo dico io, lo ha scritto persino Giovanni Paolo II in Fides et Ratio n. 72. Bede Griffiths, che dopo gli studi ad Oxford si fece monaco, scrisse che partiva missionario per l’India perché aveva bisogno dell’altra metà della sua anima.

Henri Le Saux, un monaco benedettino che io e Juri amiamo molto, ha vissuto alle sorgenti del Gange le più alte esperienze mistiche dello yoga, sostenendo che, attraverso la tradizione indiana, diviene possibile scoprire nel Vangelo ricchezze insospettate.

In questo tempo di crisi, attraverso il confronto con la civiltà religiosa indiana è possibile rilanciare il cristianesimo, un po’ come ha fatto la scuola di Alessandria con la civiltà greca, ma teologicamente è un’impresa complessa, e questa sintesi è ancora tutta da compiere.

  • Siete entrambi vegetariani: come, quando e perché?

Paolo. Mi immagino Dio come una potenza generativa che è Amore, che emerge dall’Amore e all’Amore riconduce ogni cosa. Ma allora perché la natura ci presenta ad ogni dove l’orrore del dolore? Guardo di frequente i documentari sulla vita degli animali, e non smetto mai di inorridire quando li vedo sbranarsi. La vita si preserva solo attraverso la morte. È necessario uccidere per vivere, e morire tra atroci sofferenze. Sotto questo aspetto la vita e la natura non sono belle, ma agghiaccianti.

Guardando a queste realtà, Simone Weil parla della spiritualità come “de-creazione”. Un eccesso di incarnazionismo ha fatto trascurare questa verità sacrosanta. Anziché dissociarci da questa legge perversa, l’abbiamo assecondata creando i mattatoi e l’industria animale.

A volte penso che il pensiero cristiano abbia riflettuto molto su Dio e troppo poco sul mondo. Cosa c’è dietro il paradosso della natura? La tradizione ecclesiale lo chiama peccato originale. Nessuno sa bene cosa sia, ma è una dimostrazione che, nei miti, c’è una verità che sfugge alla scienza.

Che la tradizione cristiana, che custodisce il Vangelo della vita, non abbia saputo dir nulla, in duemila anni, di particolarmente significativo su questa tema – fatta eccezione per alcuni teologi profetici come Albert Schweitzer – è per me motivo di imbarazzo e di disorientamento.

Per quanto riguarda il vegetarianesimo, comunque, ci sono segni di cambiamento. Juri è con me uno dei fondatori del Centro Studi Cristiani Vegetariani (https://www.centrostudicristianivegetariani.it) ed un prete amico, Martin Lintner, ha da poco pubblicato per la Queriniana un volume sull’Etica animale. Senza eccedere in radicalismi, mi sembra che la Chiesa sia prossima ad importanti cambiamenti, se non altro per motivi ecologici.

Juri. Sono diventato vegetariano negli anni ’70, forse perché suggestionato dalle letture sullo yoga che consigliavano di alimentarsi in un certo modo. In seguito, è diventato un fatto biologico; il mio corpo rifiuta determinati alimenti. Ora non riesco più nemmeno a mangiare le uova, ma non sono vegano.

Sono inorridito dagli allevamenti intensivi; la crudeltà verso gli animali è un atto di barbarie umana veramente abominevole. Quando passo davanti a una macelleria giro la testa dall’altra parte. E soffro in maniera indicibile quando per strada vedo cani e gatti abbandonati.

  • Juri, parlaci del potere meditativo della musica, magari con una tua canzone…

È necessaria una premessa: il suono influisce sui nostri meccanismi psicologici e fisiologici; è un dato di fatto, e la scienza ce lo conferma! Ad esempio, il ritmo stimola il nostro sistema nervoso attivando certe aree del cervello associate al movimento, e questo ci spinge a muoverci in sintonia con il ritmo stesso. Inoltre, la musica ha anche la capacità di generare sensazioni di gioia e di energia, favorendo una sorta di conforto emotivo.

Secondo alcuni studi, ha un effetto catartico anche a livello collettivo, non solo individuale: pensa, ad esempio, ai concerti rock, ma anche ai canti condivisi in certi raduni, dove le emozioni si amplificano e si creano a volte meccanismi di liberazione incontrollati o teatralmente isterici.

Nello specifico della domanda, il suono ha un impatto significativo sulla nostra percezione del tempo, specialmente quando ne siamo profondamente coinvolti. La musica meditativa, oltre a sospendere gli automatismi del pensiero, ci porta in una zona di “non-tempo” con dolcezza, e, da quello spazio, ci fa viaggiare verso altre dimensioni.

I corali di Bach, certe composizioni di Debussy, le musiche di Arvo Pärt, i canti Gregoriani, i Raga indiani e tante altre musiche di questa natura, sono perfettamente adatte per compiere questo viaggio spirituale.

Una menzione la meritano anche i meravigliosi Adhan dell’Islam, quei canti che il muezzin diffonde dal minareto; benché siano tradizionalmente considerati semplici richiami alla preghiera piuttosto che una forma di musica nel senso proprio, hanno una tale magia che in pochissimo tempo ricongiungono le energie disperse e le elevano, portando al senso di pace e di armonia.

Tra le mie produzioni direi che il Te Deum (qui il video su YouTube) è il più mirato a questo tipo di funzione. Una volta eseguivo spesso delle improvvisazioni con l’harmonium usando la voce come strumento; anche durante i concerti lasciavo un certo margine a questo genere di espressione. Ora però preferisco decisamente il silenzio.

  • Scrivi prima le parole o la musica? E come le metti insieme?

Non esiste un unico metodo. Le musiche aleggiano nell’etere e, a volte, ti arrivano. Tuttavia, bisogna stabilire una connessione con la fonte creativa: devi tenerti aperto. Se la mente è distratta o occupata da pensieri esterni, è difficile che le melodie fluiscano.

Certi suggerimenti possono venire pure dai sogni. Può capitare che melodia e testo nascano spontaneamente insieme. Oppure si può avere un’idea di un testo e si aspetta che arrivi la giusta melodia per poterlo sviluppare. A volte la composizione può nascere da una piccola frase, da un accenno musicale e pian piano si costruisce il resto. Vorrei ricordare che Mahler dichiarava di non comporre, ma «di essere composto». Ma Thomas Edison diceva che «il genio è per l’1% ispirazione e per il 99% sudore».

  • Paolo, nel volume ti attribuisci, almeno in parte, il “merito” di aver portato Teilhard de Chardin nella musica di Juri: dove?

L’evoluzione è un grande mistero. E non parlo solo di quella che riguarda la storia, che secondo Teilhard è ordinata e convergente verso un Omega finale nel quale si uniranno popoli, culture e religioni: parlo di quella interiore.

Henri Le Saux, riprendendo il gesuita francese, descriveva Cristo come un Punto Omega oltre il quale non c’è altro che il passaggio al Padre. Ciò che intendeva dire è che l’anima è destinata ad un’evoluzione spirituale che si attua attraverso la vita cosmica e, al di là di essa, fino al traguardo mistico della “cristogenesi” (titolo di una raccolta di Juri, cf. qui i video su YouTube): “cristogenesi” che è l’apice del compimento umano.

  • A entrambi chiedo, in breve, cos’è il silenzio?

Paolo. In varie tradizioni è il luogo dell’incontro perfetto con Dio, dove si stabilisce una comunione ontologica pura. La preghiera è una comunione emotiva; il silenzio un riconoscimento, una comunione di essenze.

Juri. Il silenzio è una dimensione profonda che va ben al di là della mancanza di rumore. Il silenzio è coscienza. È lo spazio sacro in cui si dissolvono pensieri e preoccupazioni e si entra in contatto con il mondo dell’anima. Abitare il silenzio significa ascoltare l’inudibile e comprendere ciò che sta oltre la mente razionale.

  • Cos’è la preghiera?

Paolo. È una relazione che può avere forme e gradi differenti. Nella preghiera ci sono, però, vari rischi, perché può essere sempre condizionata dallo psicologismo, dall’immaginazione, dalle richieste esistenziali e dalle riflessioni teologiche. Non di rado è segnata dall’ingenuità, perché non siamo consapevoli che, nella preghiera, è in verità Dio che ci cerca e sa benissimo di cosa abbiamo bisogno senza fargli “un elenco della spesa”.

Pur con tutti i suoi limiti, la preghiera suscita un’energia “personale” che arriva sempre e sempre produce frutti, nella vita come nel proprio essere.

Juri. La preghiera ha diversi gradi. Per il ricercatore spirituale è un atto di connessione e di trasformazione interiore. Un mezzo per trascendere sé stessi, una aspirazione a fondersi con il Mistero. Nella storia della mistica occidentale, la preghiera è considerata come un fuoco che purifica. Così è anche per me.

  • E “Chi” è Dio?

Paolo. Non lo so. È questa la prima risposta che vorrei darti. Probabilmente sarebbe anche la più sensata. Ma, dovendo tentare una risposta, mi immagino Dio come una sorta di potenza generativa essenzializzata dall’amore.

La Trinità è, nel medesimo tempo, il dogma più inconcepibile e quello più sensato. Che c’è di più logico di un Dio Padre che trabocca da sé stesso come una sorgente e tutto riconduce a sé attraverso lo Spirito? L’Incarnazione, poi, è un mistero nel mistero, ma senza questa mediazione, probabilmente, tale processione non troverebbe compimento.

Juri. C’è una definizione che, nella sua semplicità, è altrettanto inaudita: Dio è amore, e l’amore è Dio.

Nel libro dell’Esodo, Dio dice a Mosè “Io sono Colui che sono”. Questa definizione era molto cara anche a Ramana Maharshi. Molto poetico è l’episodio di Elia che riconosce la presenza di Dio nel soffio di una brezza leggera. Nel Nuovo Testamento invece è il concetto di Trinità ad essere centrale per la fede del cristiano. Con un linguaggio filosofico, dico che Dio è la Realtà Ultima, fonte di tutto ciò che esiste, che è oltre il tempo e lo spazio.

  • Infine, a cosa serve la Chiesa?

Paolo. È una domanda difficile quella che fai. Sostenere che la Chiesa non è necessaria, equivarrebbe a banalizzare “il dono di Dio”. La Chiesa non è necessaria per la salvezza individuale, come per secoli si è detto negli ambiti teologici tradizionalisti ed esclusivisti, ma lo è, probabilmente, per il disegno che Dio ha sulla storia, disegno che non può compiersi senza la Chiesa che rimane il corpo di Cristo, la continuazione, nel tempo e nello spazio, della sua parola e della sua azione salvifica.

Juri. Scruto la Chiesa in prospettiva futura. Da un lato, serve ancora come punto di riferimento spirituale, offrendo un senso di significato e di speranza. Per molti è ancora un luogo dove trovare le risposte alle grandi domande esistenziali: perché esistiamo, cosa c’è dopo la morte ecc.

D’altro canto, c’è anche chi vede la Chiesa come un’istituzione superata, priva di coerenza, e che oggi non risponde più ai bisogni reali di una società contemporanea che valorizza ogni tipo di diversità e di pluralismo, anche religioso. Altri l’accusano dei grandi fallimenti storici, come le crociate, l’Inquisizione o gli scandali più recenti che ne minano la credibilità morale.

Personalmente, ritengo che il rito della messa possieda un potere straordinario nel favorire uno stato di trascendenza e una circolazione delle energie che elevano lo spirito personale verso la Luce Vera. Figure come Teresa d’Avila o Meister Eckart, descrivono esperienze in cui, attraverso la contemplazione o l’Eucaristia, si dissolvono i confini dell’io individuale, permettendo una comunione con l’Assoluto.

Il mistico non si limita ad un atto simbolico, ma vive un’esperienza reale di fusione con la presenza divina. Nel mio brano Le acque di Siloe (cf. su YouTube) parlo di questo quando dico: «Con un magico volo ti abbassi ai confini del mondo e riveli la Tua Immagine». Nell’ultima strofa invece faccio un accenno alla Risurrezione. È la mia convinzione spirituale, e questo mio modo di sentire le cose non può che venire dai fondamenti della fede cristiana.

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Un commento

  1. Paolo 1 maggio 2025

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