L’anima della “Rerum novarum” /2

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dottrina sociale

Continuiamo a immergerci nell’anima della Rerum novarum, l’enciclica con cui, nel 1891, Leone XIII diede inizio alla Dottrina Sociale della Chiesa. Nel post precedente (cf. SettimanaNews) avevamo sottolineato come, con uno stile diretto e giornalistico, il Papa si rivolgesse all’uomo del suo tempo, che abitava un mondo in fermento, segnato da una disuguaglianza sociale che avrebbe portato alla nascita del comunismo, dell’anarchismo e del fascismo, con la tragica conseguenza del deterioramento delle democrazie liberali e l’impatto di due guerre mondiali.

Per questo, vedendo montare nella società «tale e tanta gravità che tiene sospesi gli animi in trepida aspettazione», Leone XIII avvertì dell’imminente «conflitto». Ma, anziché restare con le mani in mano, propose una «medicina» che consisteva fondamentalmente nell’accettare alcuni principi fondamentali. Il primo è che esiste un «ordine naturale» per cui, in virtù dei nostri «talenti diversi», alcuni sono «proprietari» e, nel migliore dei casi «ricchi», mentre altri sono «lavoratori» e se non hanno fortuna «poveri».

Avendo però tutti la stessa «dignità» agli occhi di Dio, le due classi sociali («quelli che mettono il capitale e quelli che mettono il lavoro») hanno entrambe «diritti e doveri». E in questo paradigma ciò che brilla più del sole è l’«estrema necessità di venir in aiuto senza indugio e con opportuni provvedimenti» a coloro che vivono in umili condizioni, poiché «per la maggior parte» essi si trovano a soffrire «in assai misere condizioni, indegne dell’uomo».

Cioè, il Pontefice era ben consapevole che la maggior parte delle persone alla fine del XIX secolo era estremamente vulnerabile e aveva bisogno di protezione. Infatti, «soppresse nel secolo passato le corporazioni di arti e mestieri, senza nulla sostituire in loro vece», le istituzioni pubbliche e le leggi li hanno trascurati e «gli operai, soli e indifesi», sono rimasti «in balia della cupidigia dei padroni e di una sfrenata concorrenza».

A quel tempo, essi potevano contare solo sui sindacati. Erano organismi impegnati a garantire agli operai i diritti fondamentali, come quello di sciopero e di condizioni igieniche minimali, nonché di un tempo libero disponibile per la famiglia. Senza questi «scudi» per la loro umanità, gli operai sarebbero stati esposti alla «vorace usura» di «uomini avidi e avari». Al punto che «un piccolissimo numero di straricchi hanno imposto all’infinita moltitudine dei proletari un giogo poco meno che servile».

Leone XIII era chiaro, no?


El alma de la ‘Rerum novarum’ (II)

Continuamos adentrándonos en el alma de la ‘Rerum novarum’, la encíclica con la que, en 1891, León XIII inició la Doctrina Social de la Iglesia. En el anterior texto destacamos que, con estilo directo y periodístico, el Papa se dirigía al hombre de su tiempo en un mundo convulso, marcado por una inequidad social que daría lugar al surgimiento del comunismo, el anarquismo y el fascismo, siendo su trágica consecuencia el deterioro de las democracias liberales y el impacto de dos guerras mundiales.

Por ello, pues ya veía bullir “la punzante ansiedad en que viven todos los espíritus”, León XIII alertó de la inminente “contienda”. Pero, lejos de quedarse de brazos cruzados, propuso una ‘medicina’ que, básicamente, consistía en aceptar varias esencias. La primera es que hay un “orden natural” por el que, en virtud de nuestros “diferentes talentos”, unos son “propietarios” y, en el mejor de los casos, “ricos”; y otros son “trabajadores” y, si no tienen fortuna, “pobres”.

Eso sí, puesto que todos poseen la misma “dignidad” a los ojos de Dios, ambas clases sociales (“los que aportan el capital y los que ponen el trabajo”) tienen “derechos y deberes”. Y, en ese paradigma, algo que reluce más que el sol es que “es urgente proveer de la manera oportuna al bien de las gentes de condición humilde”, pues “es mayoría” la que sufre “una situación miserable y calamitosa”.

Es decir, el Pontífice era muy consciente de que la mayor parte de los hombres de finales del siglo XIX sufría una extrema vulnerabilidad y necesitaba protección. Y es que, “disueltos en el pasado siglo los antiguos gremios de artesanos, sin ningún apoyo que viniera a llenar su vacío”, “las instituciones públicas” se “desatendieron” de ellos y “los obreros, aislados e indefensos”, quedaron en manos de “la inhumanidad de los empresarios” y “la desenfrenada codicia de los competidores”.

Entonces, estos solo podían agarrarse a los sindicatos. Unos organismos vivos que debían velar por sus derechos básicos, como el de huelga y el de tener condiciones higiénicas básicas, así como horas libres para su hogar. Sin esos ‘escudos humanos’, los obreros estaban expuestos a “la voraz usura” que les imponían “hombres codiciosos y avaros”. Hasta el punto de que “un número sumamente reducido de opulentos y adinerados ha impuesto poco menos que el yugo de la esclavitud a una muchedumbre infinita de proletarios”.

Se entendía bien a León XIII, ¿no?

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