La giornata per il dialogo fra cattolici ed ebrei, che si celebra il 17 gennaio di ogni anno, ha offerto come sempre occasioni preziose di incontro, come quella ad esempio della dichiarazione congiunta sottoscritta a Bologna dal cardinal Matteo Zuppi e dal presidente della comunità ebraica di quella città Daniele De Praz di cui si dà il resoconto su SettimanaNews.
Ma il dialogo e l’incontro non possono prescindere né ignorare il confronto fra posizioni differenti e che, in questo caso, bisogna rilevare come contrapposte. È quanto si è verificato nell’evento, celebrato a Roma presso la Pontificia Università Lateranense nel pomeriggio del 16 gennaio, che ha visto come protagonisti il rabbino capo della sinagoga Riccardo Di Segni e la presidente della comunità Ruth Dureghello e, da parte cattolica, il vescovo Ambrogio Spreafico e il direttore dell’ufficio del Vicariato sul dialogo ecumenico e interreligioso mons. Marco Gnavi (un preciso e dettagliato resoconto lo si rinviene nell’articolo di Giuseppe Muolo apparso su Romasette).
C’è chi si è indignato e stracciato le vesti perché da parte ebraica si sono sollevate esplicite critiche alla posizione espressa da papa Francesco circa il conflitto medio-orientale in atto. E questo addirittura nella Università del papa. Una università è e deve essere sempre luogo di confronto, in quanto non esprime forme di sapere ideologicamente orientate. Un esecrabile esempio lo ha offerto l’università della Sapienza allorché ha impedito a papa Benedetto XVI di pronunziarvi il suo discorso nel 2008.
L’evento alla Lateranense
Tornando al presente, la lettura del pezzo di Muolo può aiutare chi intenda approfondire la questione a farsi un’idea delle posizioni in quella sede espresse nei due campi. Mi limiterò qui ad alcune considerazioni in margine all’evento e alle polemiche, che in quanto tali sono sempre sterili.
Il dialogo è e deve essere anche confronto, allorché fra gli interlocutori si rilevino opinioni diverse e contrapposte, che non si possono bypassare in nome di un buonismo che non porta da nessuna parte. Tanto più che i giudizi espressi da parte ebraica in quella sede sono stati di natura nettamente geopolitica piuttosto che teologica.
Non posso non rallegrarmi del fatto che l’Università del Papa, che ho avuto il dono di servire per alcuni decenni e di cui, grazie all’invito della mia Facoltà teologica, mi sento tuttora parte, abbia mostrato, proprio con l’ospitalità a chi ha rappresentato idee diverse dalle proprie una grande apertura democratica, che non è dato rilevare altrove, rifuggendo dalla tentazione della papolatria, nella quale può facilmente incorrere chi, nella Chiesa cattolica, persegue obiettivi carrieristici. Nessun atteggiamento censorio, ma neppure sottomissorio, in quanto da parte del vescovo e del confratello presbitero si è avuto modo di ribattere e quindi di ulteriormente e adeguatamente motivare la posizione della nostra amata Chiesa, rappresentata dal vescovo di Roma.
Nessuno scandalo quindi, anzi un grande plauso perché iniziative di confronto, soprattutto in sede accademica, siano sempre più realizzate, nel reciproco rispetto e in vista di un autentico dialogo.
Quanto ai contenuti, mi preme sottolineare l’importanza del fatto che i fratelli ebrei della diaspora, come i nostri italiani, siano invitati a riflettere sulla necessità di distinguere la loro fede nel Dio di Abramo dalle scelte politiche e belliche di chi governa oggi lo stato d’Israele. Questo accade anche in credenti cittadini di quello stato. Il collateralismo non giova mai alla fede e, oserei dire, neppure alla religione in qualsiasi ambito si verifichi.
Mi sembra altresì importante rilevare l’espressione utilizzata dal rabbino (e ripresa dal vescovo) sulla necessità che un papa non possa avere «figli e figliastri». Spreafico ha dimostrato che papa Francesco è molto lontano dall’assumere questa alternativa. Ma mi è sembrata interessante la metafora sulla bocca del rabbino che in tal modo, anche se forse inconsciamente, rivendica per sé e i suoi correligionari una filiazione da parte del vescovo di Roma. Vicende a tutti note anche risalenti all’epoca del razzismo nazi-fascista mostrano come il cattolicesimo italiano sia stato e sia molto lontano da posizioni antisemite, che pure in secoli precedenti aveva fomentato. Questa consapevolezza richiede onestà intellettuale da parte di tutti.
Preoccupazione condivisa
Infine, un’annotazione sulla critica rivolta all’utilizzo dello shofar (il corno di montone il cui suono raduna il popolo ebraico) in ambito cattolico, interpretato dal rabbino come «appropriazione e sostituzionismo». Chi come me ritiene che la teoria teologica della sostituzione debba essere superata in un’adeguata comprensione dell’ebraismo, nel quale pure rinveniamo le nostre radici, è chiamato a condividere questa preoccupazione.
In più occasioni mi esprimo contro l’utilizzo di simboli e rituali ebraici estrapolati dal loro contesto, con atteggiamenti che non mi esimo dal definire di pura moda, come ad esempio l’esibizione della menorah sull’altare cattolico, del rito del seder celebrato in seminari e parrocchie, e quindi anche del suono dello shofar in occasione del giubileo, che pur avendo le sue fonti nell’Antico Testamento, è altro rispetto a quanto prescritto dal Levitico.
Penso che in ogni caso, le sia pur ingiuste critiche del rabbino alle posizioni cattoliche sul conflitto, siano state dettate dalla preoccupazione che esse possano ingenerare forme di antisemitismo, che pure si sono manifestate nelle piazze italiane, ma che in nessun modo possono ricondursi al magistero di papa Francesco e alla necessaria, perché un bene per tutti, distinzione fra fede ebraica e governo dello stato israeliano, fra qualsiasi fede e qualsiasi stato (il caso Kirill/Putin dovrebbe insegnarci qualcosa).
Vorrei aggiungere un complimento pieno di ammirazione per l’uso del termine “papolatria” . Si tratta di una parola molto poco utilizzata sia dalla stampa che dalla letteratura un tanto al chilo. Ha un significato molto preciso ed in questo testo è stata utilizzata in senso appropriato. L’italiano è una lingua meravigliosa e ricca. Usata con stile, garbo e intelligenza dona a qualsiasi discorso in gusto unico.
Sul fatto che, come si afferma in questo articolo, rav Di Segni “forse inconsciamente, rivendica per sé e i suoi correligionari una filiazione da parte del vescovo di Roma” occorrerebbe magari sentire il diretto interessato. Temo che rav Di Segni ne sarebbe oltremodo sorpreso e forse (chissà) anche un po’ irritato (e di certo lo sarebbe buona parte della comunità ebraica romana). Ho l’impressione che proprio su questioni come “Filiazione/primazia” tra ebraismo e cristianesimo (come anche sulla dibattuta questione dell’antisemitismo/antigiudaismo della Chiesa pre Vaticano II) da parte cattolica ci siano ancora grossi e diffusi limiti di comprensione. Semplificare ciò che in realtà è complesso temo renda più arduo e problematico il confronto tra i due mondi religiosi. E tutto ciò lo dico e lo penso ritenendo comunque che da parte dei responsabili della comunità ebraica romana ci siano grossi limiti nella comprensione delle posizioni del pontefice e dello Stato del Vaticano a proposito del drammatico conflitto in Medio Oriente