Paura liturgica: riforma della Chiesa

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L’apertura della Chiesa al mondo e alla dimensione comunitaria, così come pensata e realizzata dal Concilio Vaticano II, ha trovato nella liturgia la sua prima espressione compiuta. Potremmo dire che questo “destino” è scritto nel DNA delle espressioni conciliari. Non deve stupire, infatti, che la “costituzione liturgica” abbia un “titolo” così “generico” come Sacrosanctum Concilium. In effetti essa contiene un “proemio” che è inaugurale non solo per il discorso sulla liturgia, ma per l’intero evento conciliare. Riascoltiamo dunque il testo di SC1:

«Il sacro Concilio si propone di far crescere ogni giorno più la vita cristiana tra i fedeli; di meglio adattare alle esigenze del nostro tempo quelle istituzioni che sono soggette a mutamenti; di favorire ciò che può contribuire all’unione di tutti i credenti in Cristo; di rinvigorire ciò che giova a chiamare tutti nel seno della Chiesa. Ritiene quindi di doversi occupare in modo speciale anche della riforma e della promozione della liturgia».

Qui è evidente che la riforma (come crescita di vita cristiana, suo aggiornamento e adattamento, dialogo verso l’unità delle confessioni e del genere umano) è l’orizzonte generale nel quale viene incastonata, in modo inaugurale, la azione liturgica della Chiesa.

Ora non si tratta semplicemente di “iniziare dalla liturgia”, ma di considerare il rito cristiano come il punto delicatissimo di mediazione della tradizione. Recuperando una nozione più profonda di liturgia e di partecipazione, proponendo una accurata riforma della liturgia eucaristica e di tutti i sacramenti, rinnovando la dimensione temporale dell’anno liturgico e della liturgia delle ore come “esperienza comune” a tutto il corpo ecclesiale, vengono poste le basi per una ricomprensione della Chiesa e della Parola, delle altre confessioni e delle altre religioni. Il nuovo paradigma è tutto implicito nel nuovo rito.

Come la riforma della Chiesa si “attiva” sul piano liturgico, così la medesima riforma si “blocca” sullo stesso piano. Proprio in questo tempo pandemico, a partire dai giorni di marzo in cui abbiamo iniziato a prendere coscienza della gravità e della potenza del fenomeno, abbiamo visto apparire una serie di fenomeni che rivelano, al di là di tutto, una grave forma di incomprensione della riforma liturgica e della sua stessa ragion d’essere. Proviamo a farne un breve elenco.

Una sofferenza liturgica

Le categorie con cui abbiamo cercato di “far fronte” alla pandemia, sul piano liturgico, non raramente sono state rudimentali, arretrate, talora apertamente non conciliari. La paura del contagio ha riattivato, in modo singolarmente esplicito, la paura della liturgia:

  • alcuni vescovi hanno scritto o brevi documenti, o lunghe lettere, al cui centro stava il prete che celebra da solo;
  • le normative sulle “celebrazioni pasquali” – sia al centro sia in periferia – non raramente hanno avuto come interlocutori soltanto i preti, non il popolo di Dio, lasciato in fondo, come categoria residuale;
  • la lettura del ministero ordinato in relazione alla liturgia è stato spesso inteso come “privilegio” o addirittura come “esclusiva” sulla azione rituale.
  • il modo stesso di affrontare le singole “normative sanitarie” – a parte la tentazione di leggerle come “indebita limitazione della libertà di culto” – ha faticato ad assumere la forza interna delle categorie introdotte da SC e dalla riforma liturgica.
Excursus: Corpus Domini in pandemia

Del tutto singolare, ma anche assai istruttiva, è stata la “traduzione” della festa del Corpus Domini in condizione di “presidio sanitario”. Questo passaggio è stato rivelatore. Essendo impossibile compiere la “processione esterna alla Chiesa”, si è adattata la “festa” alla situazione, introducendo una sorta di momento di adorazione alla fine del rito di comunione, rinunciando al congedo della assemblea. Questa soluzione è frutto di un equivoco. La festa è festa di comunione. Nell’atto istitutivo della festa, nel 1264, Onorio IV dice esplicitamente che quel giorno «tutti si comunicano». E lo pensa a rimedio della «dispersione del Giovedì santo». È assai istruttivo che questo contenuto originario si sia, nei secoli, tramutato in un primato dell’adorazione sulla comunione. Da questo punto di vista la pandemia ha favorito, ancora più del solito e per motivi pratici, questo primato della stasi sulla dinamica, che tuttavia non è né nelle corde originarie della festa, né nella rilettura dell’esperienza eucaristica promossa dalla riforma liturgica.

La relazione tra riforma liturgica e riforma della Chiesa

Del tutto evidente, inoltre, è la correlazione tra ripensamento delle forme rituali, e le forme ecclesiali e ministeriali da rinnovare. Un’interpretazione “tridentina” dell’eucaristia torna sempre comoda quando non si vuole cambiare di una virgola l’assetto del ministero ordinato e delle forme disciplinari della vita ecclesiale (come ad es. la parrocchia). È sufficiente disinserire il valore originariamente comunitario dell’eucaristia, e degradarla ad “azione del prete”, per ottenere, in un sol colpo, un duplice risultato. Nulla cambia nel ministero del prete e nulla cambia nell’organizzazione della parrocchia. Ma il presupposto di questa immobilità è la sordità nei confronti del Concilio e della riforma liturgica. Questi eventi, la cui eredità sta a tutti valorizzare, hanno cambiato profondamente la cose, poiché hanno riletto la figura del prete, aiutandoci a capire la differenza tra “colui che celebra” e “colui che presiede”. Questa differenza è ancora piuttosto sconosciuta.

Celebrare e presiedere

Qualcuno mi dice: «ma dicendo così tu neghi che la messa sia valida anche se la celebra solo il prete». E io rispondo: «No. Io non nego affatto che la messa celebrata da un prete da solo sia valida. Ma so due cose. Che la sua validità non impedisce che sia “illecita”, perché la normativa sulla messa prevede imperativamente che ci sia almeno un altro ministrante oltre al prete. E questo è già un segnale importante. Ma poi vi è un secondo punto, ancora più importante. La messa celebrata da un prete solo è certo valida, ma è “soltanto valida”. Se il suo valore viene pensato come l’insieme di tutte le parole e di tutti i linguaggi, in una comunità ricca e articolata, una messa valida è solo valida. Le manca tutta quella gratuità di cui ha bisogno in modo vitale, per essere pienamente se stessa. Per questo è giusto parlare del prete come colui che “presiede” un atto nel quale è tutta la Chiesa a “celebrare”. Ed è tutta la Chiesa che è chiamata, in relazione al pane e vino come corpo e sangue di Cristo, a diventare essa stessa quel corpo e quel sangue. L’atto non si chiude mai nel circolo ristretto e vizioso tra prete ed elementi, mediato dalla “formula”, ma nel circolo ampio e virtuoso che si istituisce tra comunità, ministri, presidenza, liturgia della parola e liturgia eucaristica.

L’equivoco sulla liturgia e il blocco della riforma della Chiesa

È evidente che, se tutto questo non è chiaro, se ci sono ancora preti, e persino alcuni vescovi e cardinali, che hanno paura del Concilio e della riforma liturgica, e continuano a parlare in modo unilaterale del “potere del prete di rendere presente il Signore sotto le specie del pane e del vino” – come se fosse un atto solitario e una peculiarità personale e non ecclesiale e comunitaria – allora non ci sono ragioni né per promuovere la riforma della liturgia, né per trovarne riscontro nella riforma della Chiesa.

Una ministerialità bloccata e isterilita dipende da una visione dell’onnipotenza del prete, che tutto l’essenziale lo fa da solo, diremmo “di per sé”. E la parrocchia – o la diocesi – viene pensata a immagine e somiglianza di questo modello di sacramento e di prete. D’altra parte tutti sanno bene che, se si assume davvero fino in fondo la Chiesa eucaristica che il Concilio e la Riforma Liturgica hanno pur sempre disegnato, allora occorre mettere mano a un grande ripensamento delle forme ministeriali e delle istituzioni in cui queste forme si esprimono.

L’equivoco che grava su tutta questa materia è, in fin dei conti, un equivoco liturgico. Finché avremo, sia pure a certe condizioni, una duplice forma del rito romano, potremo sempre pensare che la riforma della liturgia, come quella della Chiesa, sia soltanto un optional. E così potremo pensare che la vita ecclesiale possa garantirsi una sostanziale continuità senza alcuna fatica, per “pura amministrazione”. E potremmo persino illuderci di annunciare la “conversione missionaria della parrocchia” citando soltanto articoli del Codice di diritto canonico. Ma se ascoltiamo le parole del Concilio, così come papa Francesco ha saputo tradurle in EG, troviamo un monito che è una sorta di “sintesi”: «Ora non ci serve una semplice amministrazione» (EG 25). Ma per garantirci un futuro di “semplice amministrazione” – e vincere così la paura di una liturgia che ha la Chiesa intera come soggetto – è sufficiente promuovere – anche inconsapevolmente – una definizione tridentina di eucaristia. Che solo il prete – e il prete solo – può “celebrare” e “amministrare”. In questo immaginario – così facile e quasi scontato – sta il difetto da superare, ormai da 60 anni.

Pubblicato il 31 luglio 2020 nel blog: Come se non.

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2 Commenti

  1. Adelmo Li Cauzi 3 agosto 2020
    • Angela 3 agosto 2020

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