«L’uomo non percepisce mai un’esperienza di completezza come nella compagnia, nell’amicizia, particolarmente tra uomo e donna. La donna per l’uomo, o viceversa, o l’altro per la persona, costituiscono veramente altro; […] mai l’uomo percepisce e vive una esperienza di pienezza come di fronte al tu»
Al liceo, imparando la declinazione dei nomi e la coniugazione dei verbi greci, capita di rimanere colpiti da una forma grammaticale che a noi manca: il duale. Oltre al singolare (l’occhio vede) e al plurale (gli occhi vedono), i Greci avevano un modo specifico per indicare un elemento che ne implica un altro, non come somma, ma come realtà nuova, generata dalla loro relazione.
Per tradurre il duale dobbiamo aggiungere un «due», ma la perifrasi italiana (i due occhi vedono) non restituisce appieno l’azione congiunta. I Greci avevano una forma specifica, quasi intraducibile (gli occhi vedono insieme), perché più che il numero segnalava l’effetto della relazione. Il duale non è quindi né un singolare né un plurale: la vista tridimensionale non è la somma di due occhi, ma un «occhio a due».
Di un’educazione «duale» oggi abbiamo grande bisogno, come mostra anche la cronaca più cruenta. Il duale non è a metà strada tra singolare (individuo) e plurale (società), ma è l’origine di entrambi: la coppia fa i due, si fa nella differenza senza diventare opposizione e nell’unità senza diventare fusione. Solo così è un rapporto tra soggetto e soggetto (generativo) e non tra soggetto e oggetto (degenerativo): al massimo di appartenenza corrisponderà il massimo di libertà, al massimo di unione il massimo di individuazione. Come gli occhi, le orecchie, le narici fanno il vedere, l’udire, il respirare, così il «noidue» fa l’amare, l’uno in due, la forma duale di esistere: co-esistere.
Per vivere abbiamo bisogno del mondo: ci apriamo a ciò che è fuori di noi per necessità. Ma noi umani non ci apriamo solo per bisogno: gli animali non apparecchiano la tavola, non guardano i tramonti, non scrivono lettere d’amore… Ciò di cui l’animale ha bisogno se lo prende dal più debole, con la forza. L’uomo, invece, lo regola attraverso relazioni. Ma se queste sono fragili, prevale la legge di natura: domina chi è più forte, e la forza diventa violenza quando l’altro è percepito come proprietà o minaccia.
La violenza è infatti paradossalmente proporzionale alla debolezza del sé: il bisogno non matura in relazione, resta egocentrismo infantile. Negli ambienti malavitosi, culmine di questo infantilismo del potere, si dice meglio comandare che fottere: i due fenomeni sono percepiti come gradazioni di potere. Si esiste nella misura in cui si domina e si sfrutta l’altro.
Nella prima parte della narrazione simbolica della creazione biblica, Adamo non è il maschio ma l’Umano (adam significa semplicemente fatto di terra). La sua essenza è la relazione: la donna è tratta «dal fianco» per indicare che è della stessa materia (corpo sociale). L’umano non è in-dividuale (l’in-divisibile), ma duale (il con-divisibile). Se nel racconto il principio maschile sottolinea il fare (lavorare il giardino), quello femminile l’essere (Eva significa semplicemente la Vivente), è perché le due dimensioni appartengono prima all’Umano e poi alla dualità uomo-donna. Il primo lavoro umano è proprio la relazione, un lavoro che non si improvvisa.
L’individualismo ci fa credere che l’uomo sia uno e debba auto-costruirsi tecnicamente, così la dimensione relazionale da essenziale diventa puramente funzionale. Quando l’umano vede per la prima volta l’altra, pieno di stupore dice: è come me, soggetto, non oggetto. Scopre di essere relazione, prima in se stesso – capace di dialogo interiore – e poi fuori di sé, con l’altro, che è parte di lui senza essere sua proprietà. Il male comincia quando agiscono soli, individualisticamente. Se la donna non è «come me» (altro da me), ma «mia» (altro per me), smette di essere soggetto e diventa oggetto.
Una cultura individualista non educa alla dualità: il mondo e gli altri diventano il self-service del self-made man. L’altro, ridotto a mezzo, diventa una riserva di «pezzi» di ricambio: lo si fa a pezzi nella mente e nel cuore prima che nelle mani. Una frase di Cristo, scandaloso per come trattava le donne (persino quelle ritenute intoccabili), va alla radice: Fu detto: Non commettere adulterio. Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per dominarla, ha già commesso adulterio con lei nel cuore (Mt 5). La traduzione ha già commesso adulterio con lei, nell’originale suona ne ha distrutto l’integrità, cioè l’ha corrotta: l’ha rotta, fatta a pezzi.
L’educazione alle relazioni che vogliamo affidare alla scuola non basterà a mutare un modo di essere che si struttura nell’infanzia e nell’adolescenza sulla base dei vissuti relazionali. Non sarà una lezione teorica a trasformare lo sguardo individualista in relazionale. Serve un modo nuovo di vivere il rapporto con gli altri, per accedere a un’energia dell’essere differenti che ci è divenuta inaccessibile.
Solo un’educazione dello sguardo, del cuore e della mente, all’integrità (il contrario di dis-integrare: fare a pezzi) dà agli umani un volto. Questo sguardo si struttura sin da piccoli interiorizzando il modo in cui gli adulti si rapportano prima con sé stessi e poi tra loro: oggetti o soggetti? La violenza è in tutti, uomini e donne, di tutte le età e strati sociali. È nella persona.
E solo un’educazione relazionale può arginarla, perché allena a sentire l’altro come me stessa: se lo ferisco, ferisco me. Se lo abbraccio, abbraccio me. E tutto comincia dal faccia a faccia della relazione.