
L’inaugurazione dell’enorme impianto musivo della «Cattedrale della salvezza della nazione» di Bucarest (25.000 metri quadri), celebrata il 26 ottobre dal patriarca di Costantinopoli con il patriarca rumeno Daniele, ha dato spazio a Bartolomeo I per esprimere alcune sue preoccupazioni e intenti (cf. qui su SettimanaNews).
Anzitutto l’occasione: la celebrazione dei 100 anni del patriarcato rumeno e dei 140 anni dell’autocefalia di quella Chiesa. «Questo doppio anniversario che celebriamo oggi non è solo una rievocazione storica ma è un appello e una sfida spirituale in tempi in cui il mondo si ritrova ad affrontare diverse prove: alienazione, divisione, guerre, decadenza morale».
Nel tomo o atto ufficiale della memoria si scrive:
«Sia l’acquisizione dell’autocefalia da parte della Chiesa ortodossa rumena il 25 aprile 1885, sia la sua elevazione al rango di patriarcato il 4 febbraio 1925, furono conseguite nel contesto di realtà politiche e sociali favorevoli, come risultato di una stretta cooperazione tra le autorità ecclesiastiche e statali, essendo autocefalia e patriarcato non solo termini amministrativi ecclesiastici, ma anche il riconoscimento pratico della fede ortodossa e della dignità di un popolo indipendente e organizzato in uno stato unitario e sovrano».
«Il patriarcato rumeno è stato come istituzione e organizzazione durante i suoi cento anni di attività una fiaccola inestinguibile della fede cristiana e dell’unità nazionale».
La presenza di Bartolomeo I alle celebrazioni «dimostra che il Patriarcato ecumenico ha storicamente promosso la libertà amministrativa e la dignità delle Chiese ortodosse di popoli diversi, preservando, al contempo, l’unità dogmatica, liturgica e canonica tra di esse» (dall’atto ufficiale di consacrazione dell’impianto musivo della cattedrale).
Le icone
L’inaugurazione ha permesso a Bartolomeo di evidenziare il ruolo delle icone nel sistema simbolico dell’ortodossia.
L’icona non è solo un elemento decorativo,
«è la potente risposta della teologia ortodossa contro le eresie che negano la verità dell’incarnazione del figlio di Dio e contro coloro che non accettano la deificazione dell’uomo per grazia […]. Le sacre icone, sia quelle portatili che quelle dipinte sulle pareti delle chiese, sono portatrici della grazia divina, motivo per cui molte di esse sono anche taumaturgiche. Sono anche un’alta lezione di teologia ortodossa, un grande sermone di fede matura, una testimonianza visiva del Vangelo e della vita “gradita” a Dio che ne deriva. Le icone uniscono il presente all’eternità, elevano la mente dell’uomo dalle preoccupazioni quotidiane del mondo a quelle celesti e avvicinano Dio all’uomo […]. L’arte bizantina dell’icona e del mosaico ha dato origine a capolavori unici e imperituri, conservati anche a Costantinopoli, il centro principale in cui si è sviluppata e coltivata, ma anche in Grecia, sul sacro monte atonita, a Salonicco, a Creta, a Meteora, in Cappadocia, a Cipro, sul monte Sinai, nei monasteri di Dafni, Chora, San Luca, a Ravenna in Italia, in Romania e nell’area della Moldavia, in Serbia e altrove» (omelia, 26 ottobre).
Dialogo ecumenico
Di un certo peso l’accento posto dal patriarca sull’impegno per l’ecumenismo in un tempo non particolarmente favorevole. In occasione del dottorato honoris causa conferitogli il 25 ottobre dall’università Dimitrie Cantemir, ne ha parlato come un impegno permanente della Chiesa ortodossa al servizio del dialogo e della riconciliazione fra i cristiani nella convinzione «che il movimento ecumenico è un catalizzatore vitale per la pace e l’armonia mondiali».
«Il principio che ispira il nostro umile ministero da numerosi decenni – come evidenzia il dottorato riconosciutomi – è il ministero del dialogo. Il dialogo per noi cristiani non è né una strategia politica né un utensile pragmatico della diplomazia. È un imperativo spirituale e teologico, un riflesso del mistero stesso del Dio trinitario, in cui diversità e unità coesistono in perfetta comunione e armonia sotto la primazia dell’amore. Quando ci incontriamo con apertura e rispetto orante, ci guardiamo reciprocamente come icone viventi del Dio unico, partecipando alla vita divina di comunicazione e dono di sé».
Ricorda come il Fanar si sia impegnato nel dialogo ecumenico fin dal 1920 e dalla conferenza «Vita e azione» di Stoccolma nel 1925. Partecipazione confermata alla nascita del Consiglio ecumenico delle Chiese nel 1948.
«Alcuni possono dire che avanziamo lentamente nel cammino ecumenico, che il dialogo teologico è praticamente fermo. Dobbiamo ricordarci che il vero dialogo è un pellegrinaggio di amore, non una negoziazione di termini o un equilibrio di interessi. Se fosse così contraddirebbe la natura stessa della fede come incarnata e dinamica. Quando camminiamo con il nostro prossimo sono imperative per un dialogo vero e fruttuoso la pazienza, la verità e l’umiltà […] In proposito siamo molto incoraggiati dall’approfondimento della relazione tra la Chiesa ortodossa e la Chiesa cattolico romana in seguito all’incontro profetico di Gerusalemme nel 1964 fra il nostro predecessore, il defunto patriarca ecumenico Atenagora, e papa Paolo VI fino alla ormai vicina visita di sua santità papa Leone XIV in Turchia il mese prossimo. Questo incontro fraterno sarà, se Dio vuole, un’occasione per gioire e celebrare insieme le radici della nostra fede comune nella memoria del 1700° anniversario del primo concilio ecumenico di Nicea come anche per la festa patronale della grande Chiesa di Costantinopoli: la solennità di sant’Andrea, il primo chiamato fra gli apostoli. Mentre il dialogo teologico continua il nostro comune impegno ad affrontare le sfide del nostro mondo sono veri segnali del nostro desiderio di servire e testimoniare Cristo insieme. Nel cammino comune continueremo ad affrontare insieme la crisi ecologica attuale, a rispondere alle sorti dei migranti e a difendere la dignità di tutte le persone. Questo pellegrinaggio ecumenico è una piccola epifania del regno di Dio che fa irruzione nella storia».
Il veleno etnicista
Nel solenne discorso davanti al sinodo rumeno ha, infine, affrontato lo spinoso problema della struttura ecclesiale e dell’autocefalia. Dopo aver affermato il legame fra istituzioni canoniche con l’identità eucaristica, ha citato la responsabilità dei vescovi e delle giurisdizioni patriarcali.
Fin dall’antica pentarchia, Costantinopoli ha avuto l’onore della presidenza e del primato, non come vocazione egemonica ma come compito materno. Le correnti socio-filosofiche del 19° secolo e le parallele spinte etnico-nazionali hanno motivato cambiamenti «anche forzati» veicolando l’errore di sostituire i criteri territoriali-ecclesiali con quelli etnici. Un passaggio pericoloso che la sede costantinopolitana ha saputo trasformare in elementi compatibili con l’unità della Chiesa.
Le autocefalie moderne nascono come risposta alla domanda legittima di autonomia di una Chiesa ma si portano dietro il veleno delle spinte etniche. Se ne vedono le conseguenze nella diaspora quando convivono molti vescovi sullo stesso territorio.
«È inconcepibile e, a guardare bene, lontano dalla fede che vi siano tanti vescovi in comunione ecclesiale nello stesso spazio territoriale. Non si può giustificare l’ingiustificabile con neologismi e acrobazie verbali».
Un veleno etnico che si manifesta anche nella negazione del diritto del ricorso d’appello al patriarcato di Costantinopoli. Le conseguenze sono autodistruttive (da chi hanno ricevuto l’autonomia e l’autocefalia?) e pesano negativamente sul presente ecclesiale.
Bartolomeo non ha mancato nei discorsi e negli incontri a evocare le fratture intraortodosse («il patriarcato ecumenico non ha mai cessato di tendere la mano in amicizia agli altri cristiani, alle altre confessioni e a tutte le persone di buona volontà») e l’urgenza della pace:
«Siamo addolorati per la continua guerra fratricida contro l’Ucraina da parte della Federazione Russa. Dobbiamo opporci all’utilizzo della nostra santa fede per fini puramente politici».





