Diario di guerra /50. Libano e Siria

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È evidente: la sempre più spinosa questione del cessate il fuoco di Gaza e del collegato, a doppio filo, col rilascio degli ostaggi israeliani, coinvolge in pieno – e urgentemente – gli Stati Uniti, con la loro opinione pubblica, il loro elettorato.  Mentre Ursula von der Leyen – quindi l’Europa – va a Beirut.

L’Unione europea e il Libano

L’Europa, dunque, si ricorda, ora, del Libano – un Paese distrutto al sud dalla guerra e, nel resto, dalla crisi che lo affonda da quattro lunghissimi anni – portando un generoso pacchetto del valore di un miliardo di dollari d’aiuti, da ora sino al 2027. Questa Europa chiede, tuttavia, al Libano di fare quelle riforme che non può o non vuole fare per risanare economia e sistema bancario.

È persino difficile capire chi possa farle quelle riforme, posto che i membri del governo sono in carica da un anno e mezzo per il solo, cosiddetto, disbrigo degli affari correnti, tra color che son sospesi, senza la guida di un Presidente della Repubblica regolarmente eletto – a motivo delle faide parlamentari – e quindi senza un’autorità che possa conferire pienezza di poteri. Così non c’è neppure un governatore della banca centrale – il precedente è inquisito – che sia nella pienezza dei propri poteri, benché vi sia un reggente, ma non un vero e proprio Governatore.

Il generoso intervento europeo è certamente importante per un Paese in bancarotta. La scuola e la sanità – le principali emergenze di cura citate dalla von der Leyen – sono certamente tali: sacrosanto aiutare il Libano a fronteggiarle.

Ma l’aiuto della nostra Europa è così disinteressato? E perché non s’è fatto prima? Il mio pensiero va immediatamente ai tanti profughi siriani in Libano, di cui la Von Der Leyen ha auspicato il rimpatrio in Siria: un rimpatrio volontario – impossibile! – col concorso delle Nazioni Unite (UNHCR) – impossibile! Tutto fa pensare, allora, che sia la questione migratoria, anche in questo caso, la maggiore preoccupazione dell’Europa. L’espressione della Presidente della Commissione Europea – peraltro molto vaga – che gli aiuti riguardino anche la gestione delle frontiere e delle migrazioni sembra confermare la mia netta sensazione.

Il premier libanese Mikati, a suo modo, ha chiarito che l’aiuto europeo è incondizionato e non chiede di mantenere nel Paese i profughi siriani: come dire che il loro rimpatrio – necessariamente forzato -non costituirebbe una linea rossa per l’Europa. Questo è il punto.

La Siria

Da tempo le fonti d’informazione più autorevoli segnalano un crescente flusso di imbarcazioni clandestine in partenza dal Libano e dirette a Cipro, in Grecia e in Italia: una nuova rotta della disperazione che va certamente presa in seria considerazione e affrontata umanitariamente, non – certo – col rimpatrio volontario nel Paese in cui ancora comanda Bashar al-Assad.

La Siria è oggi un Paese sul lastrico quanto e peggiore del Libano. Per fare un solo esempio, l’energia elettrica è disponibile per una sola ora al giorno nelle case siriane: in quelle libanesi un po’ di più. E poi: i profughi dovrebbero rientrare volontariamente da chi li ha deportati, dopo averli massacrati? L’ho scritto qui più volte e lo ricordo: la guerra di Siria – la guerra di Assad – è stata una sorta di pulizia etnico-confessionale, contro i sunniti, contro la comunità maggioritaria nel Paese, avversa al regime.  Parlo di 6/7 milioni di deportati oggi al di fuori della Siria, e di 4 milioni di sfollati interni alla Siria.

Chi continua a parlare di questa drammatica realtà in Europa? A questo proposito arriva una notizia importante, da queste parti messa, volutamente, in secondo piano, se non proprio oscurata. È successo che un siriano, rifugiato in Europa, parente di due siriani morti nel bombardamento di un ospedale da parte di un mig russo il 5 maggio 2019 – nel pieno della campagna militare russa pro-Assad – sia riuscito a denunciare la Russia al cospetto del Comitato dell’ONU per i Diritti Umani.

L’episodio – peraltro uno dei tanti avvenuti – si riferisce al bombardamento dell’ospedale Kafr Nabl di Idlib, nel nord della Siria. Nell’impresa giudiziaria, il cittadino siriano è stato sostenuto dalla ONG che gestiva l’ospedale a quel tempo – la Hand in Hand for Aid and Devolpment – che ha titolo a rappresentare gli interessi dei pazienti assistiti: legale il professor Philip Leach, docente alla britannica Middlesex University.

Il materiale prodotto documenta, senza dubbio, l’attacco all’ospedale Kafr Nabl e ad altri tre ospedali vicini, nell’arco di sole dodici ore. In quei giorni nella zona non si registravano combattimenti. Nella documentazione – condivisa su internet – c’è tutto: anche le registrazioni delle comunicazioni tra il comando di Mosca e il pilota che conferma il bombardamento in coincidenza delle immagini dello stesso.

Fadi al Dairi, direttore della ONG Hand in Hand, ha dichiarato che «le coordinate dell’ospedale erano state condivise dalle Nazioni Unite con la Russia nell’ambito del meccanismo di contenimento del conflitto».

Houssam al Nahhas, ricercatore di Physicians for Human Rights ha sottolineato che «i diffusissimi e sistematici attacchi sulle strutture sanitarie siriane sono parte di una strategia attuata dai governi russo e siriano tesa a devastare il sistema sanitario siriano. Malgrado la gravità di questi crimini, nessun responsabile è stato chiamato a risponderne. Noi speriamo che questo caso sia un punto di riferimento che ci aiuti a porre termine all’impunità per crimini analoghi in Siria e che funzioni come avviso in altri conflitti nel mondo».

Un volontà che manca

Il Comitato per i Diritti Umani di Ginevra è costituito da 18 esperti indipendenti che esercitano la loro funzione di controllo sull’attuazione della Convenzione Internazionale sui diritti Civili e Politici, firmata da 173 Paesi, tra i quali, dal 1990, la Russia.

In assenza, tuttavia, di una acclarata volontà politica internazionale, sarà impossibile creare le condizioni perché l’enorme numero di siriani dispersi nel mondo – in particolare nel mediterraneo e, più in generale, in Europa – possano mai realmente rientrare in sicurezza nel loro Paese. E questa volontà chi la vede, pure in Europa e in tutto il mondo occidentale?

Negli Stati Uniti un dettagliato articolo del Washington Post rende conto dell’analisi di alcuni parlamentari che temono che le sanzioni contro il regime di Assad presto vadano a scadenza senza che nulla di concreto sia stato intrapreso per immaginare un diverso futuro alla Siria e al suo popolo.

  • Tutte le puntate del Diario di Riccardo Cristiano possono essere lette qui.
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