Il disastro del Libano

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Residenti palestinesi fuggono dalle loro case dopo gli scontri scoppiati tra membri del gruppo palestinese di al-Fattah e miliziani islamisti.

Come in altri Paesi arabi, anche in Libano una parte rilevante del cristianesimo prepara il proprio suicidio? Temo di sì. Penso sia possibile tentare di spiegarlo coi fatti recenti, ricordando che, in questo Paese, il Presidente della Repubblica, il Presidente della Banca centrale e il Capo dell’esercito, per convenzione non scritta ma sempre rispettata, devono essere cristiani di rito maronita.

Dunque, tutto ciò che riguarda la gestione di questi ruoli, attiene all’apporto «cristiano» al disastro del Libano, il Paese dal quale si estendeva, in termini culturali, economici e diplomatici, l’influenza cristiana in tutta la regione. Tutte le élites arabe volevano mandare i propri figli nelle scuole cristiane libanesi: oggi queste chiudono una dopo l’altra. Il disastro economico non finisce e la violenza domina la scena.

Palestinesi: guerra nel campo profughi

Il primo accadimento di assoluto rilievo riguarda il ritorno della guerra conclamata tra le opposte fazioni palestinesi nel più grande campo profughi di Ain el Helwa, a poca distanza dalla città di Sidone.

Un vecchio accordo tra Olp e Libano impedisce alle forze armate libanesi di intervenire all’interno dei campi, e così la battaglia tra armati fedeli ad al-Fattah − il vecchio partito fondato da Arafat − e miliziani «islamisti», legati cioè a fazioni estremiste, prosegue da tempo, ormai senza più che la politica ne parli; chi soffia sul fuoco che è così forte da aver distrutto 400 edifici le cui ceneri sono ancora calde?

Mentre tale battaglia prosegue, sebbene stia perdendo, all’apparenza, di intensità, un incredibile incidente rivelatore ha avuto luogo a Nord di Beirut, sulla strada che giunge dalla Siria.

Era notte fonda, qualche giorno fa: un camion di Hezbollah carico di armi e diretto verso la capitale ha sbandato finendo contro un muro. L’incidente è accaduto a pochi passi da una chiesa, in un villaggio cristiano. Nulla di pianificato: quella i libanesi la chiamano la curva della morte. Tanto che le poche persone presenti hanno cercato di intervenire, evidentemente per prestare soccorso agli sconosciuti, ritenuti in difficoltà.

I miliziani di Hezbollah della scorta al carico di armi − invece − hanno aperto il fuoco, perché il loro primo pensiero non è stato cercare soccorso, bensì occultare il trasporto. Così è morto Fadi Bejjani. A quel punto, alcuni soccorritori sono accorsi alle loro armi: un miliziano di Hezbollah è stato colpito ed è successivamente morto per le ferite riportate. È intervenuto l’esercito, che ha provveduto a portare in una sua base il carico, senza effettuare alcun altro sopralluogo, senza cercare alcuna ricostruzione dell’accaduto, né identificare chi avesse aperto il fuoco e perché. Le ricostruzioni già ponevano in dubbio se l’esercito fosse intervenuto per proteggere i miliziani o i cittadini.

Le ore sono trascorse, infatti, senza che alcun ufficiale abbia sentito neppure il bisogno di chiarire l’accaduto alla gente. Per di più, il miliziano ucciso è presto divenuto − tra le file di Hezbollah − un martire islamico, quasi che dietro la curva in cui è avvenuto l’incidente, fosse appostata la CIA coi diavoli occidentali.

Occultamenti

Poche ore dopo, in tutt’altra zona, un’auto col ministro della difesa in carica a bordo, è stata crivellata di colpi, benché lui ne sia uscito fortunosamente illeso.

L’attentato, però, è presto sparito dalle cronache per un altro avvenimento che ha fatto sobbalzare molti: fonti palestinesi hanno informato che il carico di armi di cui sopra era destinato agli estremisti palestinesi di Ain El Helwa. Tutto si legherebbe, dunque: Hezbollah ha deciso che Hamas e il Jihad islamico devono riemergere militarmente, insieme, anche in Libano. La visita, proprio nelle ore successive, del capo dei pasdaran iraniani pare confermare il perno della loro strategia regionale.

Il Libano è ormai ostaggio dei disegni di Hezbollah e dei pasdaran? Ecco perché il patriarca maronita, card. Beshara Rai, ha affermato poco dopo, con parole gravi, che non si può vivere in un Paese con due eserciti. Ma l’esercito ufficiale è guidato da un maronita come lui, che però sembra aver consentito una gestione più funzionale agli interessi dell’altro esercito che del Libano.

Il «contenitore» Libano non riesce più a contenere Hezbollah, che è di fatto uno Stato nello Stato, molto più forte e organizzato. La crisi dell’involucro formale è totale. Lo spettro del ricorso ad altre milizie contrapposte aleggia sopra il caos, facendo pensare a conseguenze irreparabili.

Istituzioni estinte

Ma lo Stato libanese esiste ancora? Non c’è un Presidente della Repubblica in carica, poiché dall’ottobre scorso è decaduto e il Parlamento non riesce a eleggerne uno nuovo. Il governo è in carica solo per il disbrigo degli affari correnti. Solo un Presidente nel pieno delle sue funzioni potrebbe nominare un altro premier. Il mandato del Presidente della Banca del Libano, Riad Salameh, è scaduto dopo che lui ha custodito i segreti del malaffare libanese per oltre trent’anni: questi è peraltro inquisito e sanzionato in Europa, in Canada e negli Stati Uniti per gravissimi reati finanziari, ma nessuno può sostituirlo e così anche la Banca è in mano a un reggente non nella pienezza dei poteri.

Il Capo dell’esercito − che ha giocato il suo prestigio nella tragicomica vicenda dell’incidente stradale − ha davanti a sé pochi mesi prima della pensione e a tal punto non sarebbe più utilizzabile come Presidente di salvezza nazionale, ipotesi che circola con il suo consenso. In tutto, il Paese è nel baratro economico: la lira libanese non ha più alcun valore; si vive solo coi contanti, perché le banche non operano da tempo.

In questo quadro drammatico può confortare che il partito cristiano − che rappresenta la popolazione che piange il suo morto nell’incidente stradale − abbia gettato acqua sul fuoco: purtroppo questo non edifica, al contrario. Cerco di spiegare. Questo partito − ovvero la Corrente Patriottica Libera fondata dal Presidente uscito di scena, Michel Aoun − ora affidato alle cure del cognato, Gebran Bassil, ha interrotto il lavoro con gli altri partiti cristiani per far passare un candidato comune e ripreso da settimane il dialogo politico con Hezbollah su una linea molto precisa, del genere: «Trovate un Presidente della Repubblica che vada bene a voi, purché ci concediate decentramento e autonomia finanziaria».

Riconfessionalizzazione del Libano

Ritorna, con ciò, il vecchio incubo, ossia la cantonalizzazione del Libano su base confessionale. Per il Libano, secondo me, sarebbe la fine; soprattutto sarebbe la fine di quel poco che ancora resta di «cristiano» in Libano. La linea della cantonalizzazione è stata a lungo perseguita dai gruppi più estremi della destra identitaria cristiana, che non sopporta la convivenza con i musulmani. Le comunità cristiane del Monte Libano si chiuderebbero così, di nuovo, nelle loro ridotte e ogni comunità si sentirebbe in dovere di ricostituire la propria milizia armata.

Capisco che, per chi non vede un futuro nel disastro socioeconomico attuale − causato da tutti i gruppi incluse, appunto, le grandi famiglie cristiane − il ritorno al passato remoto, alle guerre tribali, possa costituire un sogno di salvezza. In tal modo, il partito di Michel Aoun spera di ritrovare il consenso dei suoi «cristiani». Ma non funzionerà. Non può funzionare il ritorno al passato, mai. Neppure il partito cristiano maronita, in fondo, ci crede.

A Beirut sta circolando allora un’ipotesi: si dice che i cristiani fedeli ad Aoun stiano puntando semplicemente a prendere tempo, per far andare in pensione il capo dell’esercito. A quel punto, senza più nomi spendibili, senza più un comandante in carica, si percepirà la «fine del mondo» dietro l’angolo e ciò potrà consentire di provare a imporre come Presidente l’ex ministro degli esteri e capo del partito Gebran Bassil, già sanzionato per gravi reati finanziari.

Questa ovviamente è solo un’ipotesi che affiora dal marasma: tutta da verificare, in realtà, ma che dice molto della considerazione che si ha per il ceto politico cristiano tra i cristiani.

Il dramma è che il filo del dialogo in Libano è inesistente sui veri e gravissimi problemi del Paese: le cause di una corruzione trasformatasi in collasso, l’assenza di veri partiti e l’oggettivo soggiogamento dello Stato alle armi di Hezbollah e quindi ai disegni politici di altri Stati, quale è l’Iran.

Se il Libano non riuscirà ad affrontare questi nodi − necessariamente con l’aiuto di una comunità internazionale veramente interessata alle sue sorti − si ridurrà a una finzione miliziana.

Per contro, numerosi deputati cristiani, circa il 50%, proprio in queste ore stanno dimostrando di essere pronti a rivendicare la difesa del ruolo politico e culturale che il Libano può ancora svolgere.

Il punto forte di un loro documento è che il dialogo nazionale deve essere gestito dal nuovo Capo dello Stato, non dai diktat dei partiti per accordarsi su chi sarà. Nulla è perso se si dimostra consapevolezza. Ma il tempo è poco e la pretesa della Francia di fare da mediatore, come se fosse ancora potenza coloniale, ostacola il sussulto di consapevolezza.

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