Iran: tra storia, narrative e futuro

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Proteste a Baghdad per i bombardamenti di Israele in Iran, 15 giugno 2025 (AP Photo/Hadi Mizban)

Papa Leone XIV, intervenendo sul drammatico capitolo della guerra in Medio Oriente, ha invitato a un dialogo sincero; per provarci davvero ritengo decisivo voler ascoltare e conoscere tutti i dolori, le diverse speranze e quindi le diverse narrative. Per questo qui si prova a presentare una narrativa, quella di chi nel mondo arabo (e per piccolissima parte in voci iraniane) sente nemico il regime degli ayatollah e del suo «asse della resistenza».

Questo «asse» infatti per questa narrativa araba che esiste ha «eliminato intere classi dirigenti arabe». Definendolo «figlio di un pensiero apocalittico», questa narrativa non lo ha vissuto come un «asse» antagonista, ma imperialista. Questo è il primo punto di interesse, anche se un imperialismo non ne esclude altri. Come tutte le prospettive anche questa non è «quella vera», ma aiuta a capire la complessità dei risentimenti mediorientali. Il dividere in uno scontro buoni/cattivi dunque si potrà trovare anche in questo punto di vista, come sempre, e come sempre anche qui ci sono punti meritevoli dell’attenzione indispensabile per il dialogo.

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Si può però partire da un’osservazione che non lo riguarda; l’ho trovata sul migliore sito di analisi del Medio Oriente, al Monitor: nelle ore appena trascorse ha scritto che agli iraniani tra le tante cose avrà fatto anche impressione lo sfarzo e la ricchezza nella quale vivevano i capi del regime e delle sue onnipresenti branche militari, quelle responsabili da decenni della repressione; uno sfarzo e una ricchezza che le azioni militari contro di loro hanno fatto risaltare, rispetto alle condizioni di povertà in cui vive la popolazione comune. Si può partire da qui perché per anni questa accusa è stata il cavallo di battaglia khomeinista contro le corone arabe; ora Tehran deve temerla?

Va ribadito che qui non si intende rappresentare tutto, ad esempio la comparsa improvvisa, al posto della pace quasi annunciata da Trump, della guerra all’Iran per porre termine al suo progetto nucleare, al suo «asse della resistenza», per alcuni per provare a cambiare il regime. Cosa pensano gli ambienti arabi più evidentemente ostili agli ayatollah? Il fronte è variegato, solo alla fine si accennerà al Governo: queste opinioni emergono dalle opinioni di alcune élite.

Il campo arabo ostile agli ayatollah e al loro «asse della resistenza» parte spesso dall’estensione di questa costellazione di milizie filo iraniane, ma quasi esclusivamente arabe (fa eccezione il loro promotore, il corpo rivoluzionario dei pasdaran iraniani), fondate sulla milizianizzazione di larga parte di comunità arabe sciite. Gli sciiti, va soggiunto, sono persone come le altre, ma hanno patito discriminazioni nei secoli passati nello spazio ottomano. Ciò ha facilitato l’impresa che ha trasformato quelle comunità in spazi miliziani e i partiti ad esse collegati in partiti dall’agenda iraniana, non nazionale.

Di cosa si tratta? Di quali milizie parliamo? Capitanate per anni dall’Hezbollah libanese, un autentico Stato nel debole Stato libanese, sono state create in Iraq, una sessantina di milizie riunite nel cartello denominato «Forze di Mobilitazione Popolare», in Siria, sotto la crescente protezione del regime di Bashar al Assad finché è stato al potere, e successivamente in Yemen, dove proprio in queste ore è stato eliminato il loro leader; di norma li chiamiamo «Houti». Ma questo «asse» non è tutto qui.

Emerge dunque un tratto: «L’asse della resistenza è stato costruito dai khomenisti iraniani, sciiti teocratici, basandosi su sciiti arabi, quasi fossero degli sciiti da sacrificare più agevolmente». Si indica così l’ostilità, antica, tra persiani e arabi. Questo, va ancora aggiunto per completezza, è emerso però dopo la guerra intentata dal’Iraq all’Iran nel 1980, con molti sostegni e conclusasi soltanto nel 1988. È questo, per altri commentatori, che avrebbe indotto il khomeinismo a maggiore aggressività.

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Un racconto arabo sostiene però che quando Khomeini si insediò a Tehran, alla fine degli anni Settanta o subito dopo, ricevette Yasser Arafat. Per quanto Khomeini parlasse arabo gli si rivolse in farsi, con interprete, e gli disse di chiamare la sua lotta non «palestinese», ma «islamica». Arafat avrebbe risposto che la sua lotta riguardava tutti i palestinesi, sia cristiani che musulmani, e dunque avrebbe seguitato a chiamarsi così. L’episodio indicherebbe che l’espansionismo, teocratico e islamista, era fondante per Khomeini.

Procediamo: il 16 novembre 1992 il governo israeliano espulse verso il Libano del Sud centinaia di militanti di Hamas basati soprattutto in Cisgiordania. Questo, nell’opinione di alcuni, avrebbe facilitato l’incontro inatteso, quello tra i sunniti di Hamas e gli sciiti di Hezbollah, organizzazione teocratico – khomeinista che, come ricordato, diventerà la testa dell’«asse della resistenza». Siamo davanti a soggetti appartenenti a due campi religiosi divisi da un’acredine plurisecolare. In tempi successivi Hamas è stata citata, inserita o accostata all’«asse della resistenza». Una novità sorprendente, se si ricorda cosa accadeva pochi anni prima.

Molto spesso si scrive, correttamente, che la fatwa contro Salman Rushdie fu emessa dall’ayatollah Khomeini nel 1989. Questo è giusto. Ma è ancora più giusto scrivere che quella fatwa fu emessa il 14 febbraio del 1989. L’importanza in sede storica di questa precisazione l’ha spiegata Gilles Kepel, ricordandoci che il 15 febbraio 1989 l’armata sovietica avrebbe completato il suo ritiro dal’Afghanistan, consegnando la vittoria «politica» ai mujaheddin del popolo, estremisti islamisti di rito sunnita, mentre Khomeini era un estremista islamista di rito sciita.  In definitiva, per Kepel, Khomeini ha operato d’anticipo, ha sottratto ai suoi contendenti la palma della vittoria, il titolo di leader della rivoluzione islamista: l’enorme eco che ebbe quella fatwa gli consentì di affermare, nei fatti, che il vincitore globale era lui, non loro.

Il cammino del khomeinismo come «rivoluzione da esportare» era cominciato un decennio prima, con l’autentico golpe di Khomeini, come ho sentito dire da uno studioso iraniano, quando ebbe inizio la crisi degli ostaggi americani, che coinvolse 52 diplomatici americani, tenuti in ostaggio dal 4 novembre 1979 al 20 gennaio 1981. Se il 4 novembre ebbe luogo l’azione, il 5 novembre 1979 si dimise il capo del governo provvisorio in carica a Tehran, Mehdi Bazargan: autorevole islamo-democratico, lui aveva capito che le riforme democratiche che proponeva erano state dichiarate impossibili. Alla rivoluzione iraniana, fenomeno molto articolato e dai molti volti, subentrava la rivoluzione teocratica e i pasdaran avrebbero avuto il compito di esportarla.

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Questa esportazione, che ha sempre avuto in Israele e negli Stati Uniti i nemici dichiarati, puntava però alla conquista dell’islam, buttando a gambe all’aria la leadership araba, definita inetta e corrotta, oltre che venduta al nemico americano. Conquistare l’islam voleva dire conquistare la «terra dell’islam»; la conquista riguardava l’Iraq, con la sua sede califfale, Baghdad, la Siria, con la sua sede califfale, Damasco, il Libano, esistenziale sbocco sul Mediterraneo, terminale della sempre agognata pipe-line che avrebbe dovuto connettere Tehran con il Mare Nostrum. Un disegno concreto, imperiale, rifare l’impero persiano, si accavallava con un disegno politico-religioso, teocratico. Una simile impresa richiedeva una bandiera ideologica dietro la quale cercare legittimità: e se la questione palestinese fosse stata risolta quella bandiera sarebbe venuta meno.

Un accordo israeliano-palestinese avrebbe tolto all’Iran e al suo «asse della resistenza» l’oggetto della resistenza stessa, «islamica». Intanto si combatteva per eliminare i moderati, portatori di un’altra visione, con una serie di delitti politici, come l’assassinio, nel 2005, dell’ex primo ministro libanese, il sunnita Rafiq Hariri. Una sentenza del Tribunale Internazionale ha riconosciuto come colpevoli di quel crimine operativi di Hezbollah, la testa dell’«asse della resistenza». È stato l’episodio più eclatante dei tanti verificatisi.

In quegli anni di ascesa l’asse della resistenza si è presentato come il «soggetto del riscatto», recentemente ha subito colpi durissimi e ora la guerra all’Iran produce l’oscuramento oggettivo della guerra di Gaza; con il nuovo conflitto se ne parla molto poco, l’iniziativa franco-saudita per rilanciare la proposta «due popoli, due stati» è stata rinviata proprio per l’esplosione di questo nuovo conflitto che impediva al principe saudita bin Salam di volare: inoltre il voto per l’immediato cessate il fuoco che per la prima volta ha ottenuto il sì europeo, in presenza del veto statunitense, è scomparso perché verificatosi nelle ore immediatamente precedenti l’attacco israeliano.

Qui si rappresenta solo la percezione araba di un progetto iraniano molto simile a quello di suoi nemici: disegnare un Nuovo Medio Oriente. Nel loro disegno i rapporti che mutavano prioritariamente erano quelli islamici: un grande accademico arabo, libanese, ha visto alla sua base la vendetta per la sconfitta patita ai tempi di Alessandro Magno, la disfatta dell’impero persiano, che ora si puntava a rifare. Chi ne ha parlato sui nostri giornali ne ha spesso parlato come della «mezzaluna sciita», vista anche la forma territoriale che questo spazio imperiale iraniano veniva ad assumere.

Questo progetto ha avuto nella minaccia nucleare un obiettivo dichiarato, Israele, e uno meno citato: le monarchie arabe del Golfo, anche loro, ovviamente, nel raggio nucleare.

Così questi ambienti arabi criticano la scelta di Obama: scelse di negoziare con l’Iran sul nucleare, ma senza tenere nel negoziato l’espansionismo territoriale, la ricostruzione in corso dell’impero informale, da Tehran a Beirut. Un esponente di questa tendenza araba recentemente ha spiegato così l’errore di Obama: davanti ai sunniti di al Qaida e i sunniti dell’Isis lui ha concluso che c’era un problema con i sunniti, decidendo che era meglio negoziare con gli sciiti. Ma le interferenze trasversali, a suo avviso, Obama non le seppe leggere. Sono sicuro si riferisse all’«oscura cloaca» di servizi deviati e mercanti vari che per padre Dall’Oglio gravitava intorno a questi e altri terrorismi. Questo capitolo però sarebbe troppo complesso da riassumere.

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Arriviamo così all’oggi. Il 10 marzo 2023 sauditi e iraniani erano passati, con il ristabilimento a Pechino di relazioni diplomatiche dopo anni di gelo, al dialogo: partita tra scetticismi stava producendo risultati e la chiave ultima per alcuni avrebbe potuto essere in un centro regionale per produrre il nucleare civile per tutti, sauditi, iraniani ed emiratini. Era questa l’idea al centro dei negoziati tra iraniani e americani? Non lo so. Ma è possibile che questa intesa mirasse ad espandersi nell’area per «avvicinare la pace», allargandola.

Quella strada è ancora percorribile? Sembra di no, visto che i colloqui in Oman sono stati cancellati. Resterebbe l’altra opzione, quella che viene chiamata «tagliare la testa del serpente». Le parole del principe saudita bin Salman per il quale Israele ha violato il diritto internazionale la respingono nonostante gli asti tra sauditi e iraniani.

Le corone del Golfo detestano la destabilizzazione regionale. Qui si parla di Governi, non di altre opinioni come quelle sin qui rappresentate: questi Governi per alcuni temono il seme della rivolta contro i regimi, retorica usata contro di loro per anni da Tehran e che oggi colpisce Teheran, ma loro potrebbero temerne una nuova diffusione, come accadde nel 2011. Poi c’è la ritorsione più semplice che Tehran potrebbe usare contro di loro: chiudere lo stretto di Hormuz, da dove passa molto petrolio arabo.

Per alcuni l’idea di «tagliare la testa del serpente» può soddisfare il desiderio di farla finita una volta per tutte con il khomeinismo e le sue conseguenze, ma spaventa i Governi, quanto meno in assenza di una prospettiva di stabilità che a loro sembra dovrebbe includere Gaza. Sarebbe la prospettiva politica, quella che oggi non si vede.

Chi crede che il male si possa estirpare auspica il regime change, e lo fa anche a Tehran come nel mondo arabo. Il cammino dell’«asse della resistenza» quasi tutti gli arabi che ragionano così lo rappresentano come una distesa di macerie. Chi non crede che il male possa essere estirpato ne dubita, teme. Come esprimere questa idea in termini politici? Forse dicendo che «il male va contenuto».

Coperto dall’anonimato, un iraniano ha accettato di dire la sua al portale di informazione Ytali, una valutazione dello stato dell’arte in Iran che mi ha colpito: «Non c’è sostegno per il regime. Ma ciò non comporta un sostegno automatico per un regime change targato Netanyahu. Soprattutto se corredato con il solito sopravanzo di morti collaterali tra i civili. Almeno cento, se non oltre sinora. Non c’è un’opposizione coerente e già in campo che possa dare una spallata. Non siamo alla volata finale di una ribellione».

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