Israele-Hamas: danni collaterali

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Il duro cinismo della guerra contemporanea produce sempre «danni collaterali» – in specifico si tratta di «civili feriti o uccisi nel corso di operazioni militari» (Merriam-Webster).

Dizione che la violenza armata ama usare per dire «ci siamo sbagliati, ma non troppo». Nasconde non solo l’estensione e le conseguenze di ogni guerra, ma finisce anche col disumanizzare tutti coloro che ricadono nel generico gruppo dei danni collaterali. Togliendo loro anche l’ultima, tragica dignità di essere riconosciuti come vittime di un conflitto.

L’assalto terroristico di Hamas a Israele, e poi la controffensiva di quest’ultimo, sta ammassando un cumulo di danni collaterali senza misura – in cui si concentrano decenni di odio e risentimento, come se l’esistenza di un popolo fosse possibile solo a scapito dell’altro. È come se si fosse tolto il tappo di un lavandino e tutto il contenuto non potesse passare ora che attraverso il gorgo della guerra.

Tutto viene triturato dalla violenza esplosa, anche le esperienze di convivenza, dialogo, incontro, reciproca comprensione, che da decenni in quelle terre cercano di praticare e immaginare alternative concrete al nichilismo del reciproco annullamento. Fedi che si riconoscono, lingue che si ascoltano, pratiche che si scoprono sorprendentemente vicine… tutto spazzato via in pochi attimi.

Il terrorismo di Hamas non vuole solo cancellare Israele dalla carta geografica di quelle terre, ma deve anche annientare ogni possibile forma di convivenza reciproca fra palestinesi ed ebrei – forse ancora più scomoda della stessa esistenza di uno stato di Israele. Convivenze che hanno nomi, volti, storie condivise – sovente generate da donne e da loro tenacemente volute.

E la difesa messa in campo da Israele non può che muoversi sulla stessa lunghezza d’onda: quella della impraticabilità oramai acclarata di vissuti che si toccano e si intrecciano nella loro comune umanità, nel loro rifiuto che solo la morte dell’altro possa essere la vita per me.

A tutti questi luoghi dove la frontiera fra israeliani e palestinesi si era fatta soglia di incontro e reciproca ospitalità è stata ora tolta ogni possibilità di parola. Insinuando, nel cuore di queste convivenze fra popoli, il sospetto che l’altro in realtà non sia che il mostro da annientare.

Sappiamo che, anche nel mezzo del terrore e dell’orrore, queste pratiche di convivenza e condivisione cercano di resistere in ogni modo alla negazione della parola, della mediazione, della negoziazione, che questa guerra porta con sé.

Ma sappiamo anche che queste esperienze di comunità fra i popoli per una pace reale e duratura non sono mai state prese in considerazione, dal potere politico di entrambi i lati, come il punto da cui partire per giungere a un riconoscimento reciproco.

Noi occidentali le abbiamo guardate con simpatia, quella che in genere si concede a isole di utopia destinate a naufragare al primo contatto col grande mare della realtà delle cose. Ci sembravano «troppo belle per essere vere», e così le condannavamo noi stessi fin da principio a essere danni collaterali della primordiale violenza del reale. Salvo poi stupircene oggi.

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