Myanmar: strage di bambini

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«Penso, in particolare, al Myanmar. Da più di due anni quel nobile Paese è martoriato da gravi scontri armati e violenze, che hanno causato tante vittime e sfollati. Questa settimana mi è giunto il grido di dolore per la morte di bambini in una scuola bombardata. Si vede che è la moda, bombardare le scuole, oggi, nel mondo! Che il grido di questi piccoli non resti inascoltato! Queste tragedie non devono avvenire!» – così papa Francesco Domenica scorsa all’Angelus da Matera.
Abbiamo chiesto a Emanuele Giordana – giornalista e attivista dell’Associazione Atlante delle Guerre e dei Conflittidel Mondo di ricordarci il contesto del Paese in cui è avvenuta questa strage di innocenti. L’intervista è a cura di Giordano Cavallari.

  • Emanuele, a quale avvenimento – e a quale più ampia situazione – ha fatto riferimento ieri il papa?

C’è stata una incursione con elicotteri militari sul villaggio di Let Yet Kone in Myanmar ed è stata presa di mira una scuola gestita dai buddhisti.

Sono stati – consapevolmente – colpiti tanti bambini. Non sappiamo quanti siano morti con precisione: più di dieci, per quanto è dato di sapere. Ci saranno anche tanti feriti.

La denuncia è stata fatta dall’esercito clandestino di unità nazionale che ha facilmente accusato dell’eccidio la giunta militare al potere. Save the Children ha rilanciato la denuncia in tutto il mondo.

Come giustamente accennato dal papa, questo atto non è isolato: segue una serie di atti di violenza che da almeno due anni caratterizzano la vita nel Paese e rende l’idea di come in Myanmar ormai esista un contesto di guerra manifesta, con migliaia di morti.

Il colpo di stato
  • Vuoi ricordare alcuni passaggi storici che avevi già citato (cf. qui), con le precisazioni del caso?

La data spartiacque da ricordare è quella del 1° febbraio del 2021, la data del colpo di stato che ha fatto seguito alle elezioni. Da quella data le proteste si sono diffuse, inizialmente in maniera pacifica, non soltanto nella vecchia capitale Yangon o nella nuova Naypydaw, ma in tutto il Paese, anche nelle regioni più remote.

Devo ricordare che in Myanmar, da prima del colpo di stato, esistevano eserciti etnici regionali: una trentina di formazioni armate. Tutte queste – già dall’indipendenza degli anni ’40 – variamente hanno rivendicato forme di federazione o di autonomia o persino di secessione dal governo centrale, per lo più determinato dalla comunità Bahamar.

Un lento e faticoso processo di pacificazione – portato avanti dal governo di Aung San Suu Kyi – aveva dato qualche risultato prima del colpo di stato. Si stava lavorando a una carta federale in grado di contemplare una certa autonomia federale.

L’equilibrio cercato dal governo di Aung San Suu Kyi è saltato con la giunta militare al potere. Ora, alcune etnie stanno trattando con questa giunta, altre – come le comunità Karen e Kachin – hanno ripreso in mano le armi contro la giunta.

Altri gruppi etnici regionali stanno prendendo le parti del governo formato in clandestinità dai parlamentari regolarmente eletti alla fine del 2020 che, ricordo, non solo avevano confermato l’affermazione della lega nazionale guidata da Aung San Suu Kyi, ma ne avevano mostrato l’accresciuto consenso popolare.

Dopo il golpe, la situazione è perciò passata dalla contestazione verbale – con scioperi generali e manifestazioni represse col carcere e nel sangue – agli scontri con gruppi armati di civili.

Per queste ragioni non è inappropriato parlare di una guerra civile, in parte sovrapposta e confusa agli scontri tra eserciti etnici regionali e giunta militare.

Una guerra civile
  • Il governo in clandestinità ha dunque un suo seguito armato nel Paese?

Il governo in clandestinità ha costituito vari, propri, gruppi armati di civili che in questo momento stanno combattendo un po’ in tutto il Paese e che sostengono di tenere sotto controllo più della metà del territorio.

Dall’altra parte la giunta sostiene di avere tutto il Paese sotto il proprio controllo. Ovviamente entrambe le versioni appaiono non veritiere.

  • Di quali alleanze si avvalgono le parti che ora si stanno scontrando?

La realtà dei fatti è che si sta combattendo con rifornimento di armi che, per quanto riguarda la giunta militare, giungono dalla Russia e dalla Serbia. La Russia è, in questo momento, il principale alleato della giunta, entrambe – Russia e giunta militare birmana – sono a caccia di qualche consenso internazionale.

La Cina sta tenendo una posizione più distaccata: non ha certamente condannato il colpo di stato ma non lo sta neppure particolarmente sostenendo, anche se, nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU, ha votato di concerto con la Russia, bloccando tutte le risoluzioni che avrebbero voluto vietare ogni rifornimento di armi ai militari birmani.

  • Gli elicotteri che hanno realizzato il raid sul villaggio e sulla scuola dei bambini sono “russi”? Pilotati da chi?

È assai verosimile, per quel che ho detto, che questo deliberato attacco ad una scuola sia stato compiuto da elicotteri di fabbricazione russa. Ma sono portato ad escludere che alla guida ci fossero militari russi.

La giunta militare è appunto ben organizzata da questo punto vista. È stata fatta l’ipotesi che in Myanmar siano presenti consiglieri militari russi, ma di questo non c’è conferma.

  • La domanda che viene da sé è perché è stata colpita una scuola? È lo sconcerto del papa…

La resistenza armata al regime militare è tanto diffusa, in molti o in tutti i villaggi, da poter ritenere plausibile la presenza di oppositori con armi a Let Yet Kone, nei pressi della scuola.

Come mette in evidenza l’esclamazione del papa, le guerre contemporanee, sempre più, non badano ai civili e neppure ai bambini. Naturalmente non c’è nulla che possa giustificare – né dal punto vista del diritto che del buon senso etico – il fuoco sulle scuole e sugli ospedali. In ogni caso.

La protesta delle suore
  • La cosiddetta comunità internazionale sta prestando attenzione a quel che avviene in Myanmar? 

Proprio in questi giorni, la Commissione delle Nazioni Unite che valuta il gradimento dei diplomatici inviati nella Assemblea dovrebbe decidere circa la riammissione del delegato già membro indicato dal governo di Aung San Suu Kyi.

L’ONU ha infatti sospeso il seggio del Myanmar dopo il colpo di stato ed ha rifiutato il nuovo rappresentante della giunta militare. Di conseguenza il seggio del Myanmar ora non c’è. Nella Commissione siedono 9 Stati: 6 a rotazione, gli altri 3 sono Cina, Russia e Stati Uniti. È chiaro che Russia e Cina si oppongono alla riammissione.

Ma l’ultima parola spetterebbe alla Assemblea Generale ove le cose andrebbero in maniera diversa. Perciò in Commissione si giocando coi rinvii, mentre è il momento – per la comunità internazionale – di manifestare una posizione chiara sul Myanmar. Sono in corso mobilitazioni dei birmani in diaspora nei Paesi del mondo.

  • Anche in Italia?

Si è svolta a Milano una manifestazione di sostegno per la conferma del delegato precedentemente nominato, quindi, implicitamente, per il riconoscimento del governo in clandestinità. A tale manifestazione hanno partecipato non più di 30 persone.

Ma faccio notare che quasi una ventina di queste erano suore birmane: segno eloquente – mi pare – della posizione della chiesa cattolica in Myanmar. Là, la Chiesa non può certo esprimersi liberamente, perciò lo fa dalla diaspora, anche in Italia.

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