Opposti estremismi contro la pace

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medio oriente guerra

L’allusione di Trump a una possibile eliminazione (futura) di Ali Khamenei va interpretata. Non credo prepari la strada a suo figlio Mojtaba, candidato da anni a succedere al padre, piuttosto è apparsa annunciare la discussione sull’ingresso in guerra, come sostenuto da siti americani: «Trump sta seriamente considerando l’ipotesi di entrare in guerra e lanciare un attacco statunitense contro le strutture nucleari iraniane, in particolare contro l’impianto sotterraneo di arricchimento dell’uranio a Fordow».

Un cambiamento profondo rispetto a pochi giorni fa. Questi sviluppi sono emersi dopo che, rientrando a Washington, ha invitato tutti gli abitanti della capitale iraniana a lasciare Tehran. Per Gaza propose la nuova Riviera, quella del noto filmino, corredata dalla proposta di allontanamento della popolazione, 2 milioni di persone, invitata a recarsi altrove. Ora ha detto a dieci milioni di persone di lasciare Tehran.

Dunque, non parlo del destino di Khamenei e dei suoi, non parlo neanche, come fa in queste ore Massimo Cacciari, del possibile ritorno alla categoria della «guerra giusta»: parlo di linguaggio, di modi, e delle persone. La presenza del vuoto nelle indicazioni di Trump va notata.

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Gaza e Teheran sono lontane, così lontane che la follia khomeinista aveva indotto gli iraniani a infuriarsi con i palestinesi perché l’impresa militarista, il colonialismo khomeinista per rifare l’impero persiano, ha sottratto centinaia di miliardi di dollari a un Paese ridotto alla fame.

Chi avversa Trump di norma applaude Obama, che però di tutta evidenza fece una scelta. Obama preferì trattare solo sul nucleare con gli ayatollah, chiudendo entrambi gli occhi sull’espansionismo territoriale di Tehran. Hezbollah era una lama al collo di Israele, e anche una pozione avvelenata nei calici arabi.

Occorre dare una chance ai popoli perché la possano cogliere? Il Corano, che da quelle parti è conosciuto, afferma: «Allah non modifica la realtà di un popolo finché esso non muta nel suo intimo» (XIII, 11). Hamas nei sondaggi d’opinione prima del 7 ottobre precipitava. Per non parlare degli ayatollah nei sondaggi iraniani.

Dunque la realtà era mutata. Prima dell’esordio dei kamikaze, invenzione khomeinista mai comparsa prima nella storia islamica a eccezione dell’antica setta degli assassini, l’opinione pubblica israeliana era con Rabin nella sua maggioranza, non con chi avversava il processo di pace. È vero anche per quella palestinese. Un racconto univoco non ci porterà a vedere una strada plausibile.

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C’è un uomo nella storia italiana che certo non appartiene al mio album di famiglia. Ma nella vita occorre capire, camminare. E a mio avviso lui spiega, con un fatto tutto italiano, quel che non vediamo dei conflitti mediorientali. È il prefetto di Milano Libero Mazza che negli anni Settanta sostenne la tesi degli opposti estremismi. Li vedeva entrambi, nonostante quando scrisse quasi tutti vedessero più la violenza nera che l’altra.

Ciò che si vedeva in quei giorni a molti sembrava diverso da quanto vedevano nei dati numerici, nei fatti. Libero Mazza fu duramente criticato, ma dopo il delitto Moro molti si resero conto che forse non aveva «deformato i fatti», ma aveva visto oltre il muro di allora. La teoria degli opposti estremismi poi fu usata da alcuni come sostegno del centro sinistra, raggruppamento di forze diverse, definite tutte, sebbene in modi diversi e con obiettivi diversi, moderate. Il centro sinistra oggi ha pochi nostalgici, è quasi rimosso con le anticaglie. L’evoluzione politica poi ha penalizzato i moderati in tutti gli schieramenti, e oggi si parla di radicalizzazione, nuovi tipi di opposti estremismi, diciamo di opposte posizioni radicali, basate soprattutto sull’essere pro o contro l’uno o l’altro.

Se guardiamo a quanto è accaduto in Medio Oriente con occhi simili a quelli del prefetto Mazza, al di là del peso delle specifiche responsabilità, possiamo vedere un cammino simile.

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Quando fu ucciso in piazza a Tel Aviv, dal giovane estremista ebreo Yigal Amir, il premier israeliano Yitzhak Rabin godeva di consenso per il suo processo di pace con i palestinesi, con Yasser Arafat. E lui volle alla manifestazione del giorno del suo assassinio, il 4 novembre 1995, che sul palco ci fossero anche gli ambasciatori di Egitto e Giordania, i Paesi arabi che a quel tempo riconoscevano Israele, l’Egitto dai tempi di Camp David, la Giordania a seguito dell’intesa con i palestinesi. Forse aveva visto che serve una politica comune, un lavoro comune, forse il polo a cui pensava era un incontro di «moderati diversi», dei due campi.

Così forse è lecito dire che opposti estremismi hanno sconfitto il processo di pace dei divenuti moderati, e di quegli opposti estremismi erano parte il regime iraniano e settori della destra israeliana che rifiutava Rabin.

L’Iran fu chiaramente dietro l’ondata di kamikaze che nel tempo ha cambiato l’opinione pubblica israeliana, la destra israeliana dietro azioni che hanno modificato l’opinione pubblica palestinese. Ma quelle opinioni pubbliche avevano scelto la pace, prima di allora.

A farlo saltare ci hanno pensato i pesi di estremismi, anche quello che soffiava da ambienti influenti del Golfo, che definivano «zecche» tutti gli sciiti arabi, a volte perseguitati. Non un messaggio intelligente per staccarli da Khamenei. La guerra senza fine o «confini» di Gaza è un altro caso. La repressione della Primavera del 2011, che le corone arabe temevano per un possibile «contagio democratico» (altro che inverno, quella è stata la chance, lasciata fallire), e che si è tentato di capovolgere con le milizie islamiste, è stato un altro caso di enorme rilievo.

L’estremismo khomeinista, prima e dopo, ha devastato il campo moderato arabo, con un’azione imperiale che ha smantellato il pensiero arabo liberale: questo lunghissimo processo che ha visto Iraq, Siria e Libano divenire Stati a sovranità limitata nella cortina di ferro iraniana ha facilitato il compito dell’opposto estremismo. Riferendosi a questo campo potremmo dire che il delitto Hariri, uomo molto vicino ai sauditi come ai francesi e molto amato dai libanesi, è stato un po’ il delitto Moro del mondo arabo. Un estremismo è emerso feroce contro i moderati.

È quello che il delitto Rabin era stato in Israele.

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I moderati non sono dei «timidi»: sono dei coraggiosi, come Rabin, Moro, Hariri. Con agende che non portano allo scontro, ma all’incontro, con rinunce ma anche conquiste. Unire i racconti, uscire dal muro contro muro, è il metodo che abbiamo per evitare un collasso di civiltà, senza visioni.

Per i nostalgici di una politica scomparsa sarà interessante leggere il testo diffuso ieri da sindacati indipendenti iraniani, che dopo aver ricordato che il governo israeliano si dice amico del popolo iraniano ma ha anche minacciato per bocca del suo ministro della difesa di bruciare Tehran, conclude così:

«I popoli del Medio Oriente hanno bisogno di porre fine alle tensioni distruttive tra le potenze regionali e globali e di stabilire una pace duratura, una pace in cui i popoli possano determinare il proprio destino attraverso l’organizzazione, la mobilitazione di massa, i crescenti movimenti di protesta e la partecipazione diretta e collettiva».

Non leggere può aprire due porte non desiderate: la frammentazione dello spazio iraniano, dove sono numerose e come sempre nervose le minoranze, circa il 50% della popolazione, che non hanno il persiano come lingue madre. Poi c’è l’ipotesi, in parte connessa, di un’azione di carattere nazionalista dei pasdaran.

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