Diario di guerra /38. Il sogno di Francesco

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È un sognatore di sogni inutili, Francesco?

Domenica 3 marzo, dopo la recita dell’Angelus, ha detto: «Porto quotidianamente nel cuore, con dolore, la sofferenza delle popolazioni in Palestina e in Israele, dovuta alle ostilità in corso. Le migliaia di morti, di feriti, di sfollati, le immani distruzioni causano dolore, e questo con conseguenze tremende sui piccoli e gli indifesi, che vedono compromesso il loro futuro. Mi domando: davvero si pensa di costruire un mondo migliore in questo modo, davvero si pensa di raggiungere la pace?

Basta, per favore! Diciamo tutti noi: basta, per favore! Fermatevi! Incoraggio a continuare i negoziati per un immediato cessate-il-fuoco a Gaza e in tutta la regione, affinché gli ostaggi siano subito liberati e tornino dai loro cari che li aspettano con ansia, e la popolazione civile possa avere accesso sicuro ai dovuti e urgenti aiuti umanitari. E per favore non dimentichiamo la martoriata Ucraina, dove ogni giorno muoiono tanti. C’è tanto dolore là».

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Il papa ha detto una cosa, a mio avviso, molto importante. Per spiegare, mi soffermerò su un rapporto che nel 2007 è stato reso di pubblico dominio. Lo aveva redatto nel 1981 la CIA. È istruttivo leggerlo ora, perché molto attuale. Riguarda Anwar Sadat, il presidente egiziano che firmò il trattato di pace di Camp David con Israele e che poi, per questo, fu prima ucciso dagli estremisti e poi dimenticato dai più. Quell’accordo prevedeva la restituzione del Sinai all’Egitto, ma anche – punto cruciale – l’autonomia dei Territori palestinesi, per realizzare la quale, a Camp David, nel ‘78 si presero cinque anni di tempo.

Ecco cosa si legge in quel documento della CIA: «Il presidente Sadat è ansioso di ottenere progressi nei negoziati sull’autonomia (palestinese) ora che Israele ha svolto le sue elezioni per la formazione di un nuovo governo. Si aspetta che gli Stati Uniti giochino un ruolo decisivo nello spingere Israele a fare significative concessioni in modo che i palestinesi e i governi arabi moderati possano unirsi ai colloqui di pace. Un altro summit sul modello di Camp David gli appare decisivo per il successo. Il timore degli egiziani è che il nuovo governo israeliano sia troppo debole per procedere e che si debba andare a nuove elezioni. Sadat vuole progressi rapidi perché teme che gli arabi radicali, suoi critici, sfruttino nel prossimo anno i summit dell’Organizzazione per l’Unità Africana e del Movimento dei Non Allineati – che avranno luogo in Libia e in Iraq- per isolarlo ulteriormente. Teme anche che Mosca sfrutti la lentezza negoziale per rafforzare la sua influenza nella regione.

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Il sostegno popolare al processo di pace è stato messo in difficoltà dall’attacco aereo israeliano ai centri di ricerca nucleare iracheni e dall’attacco al Libano. Altri scontri arabo-israeliani potrebbero ridurre ulteriormente le possibilità negoziali di Sadat. Ecco perché i tempi rapidi per lui sono decisivi.

L’Egitto è pronto alla flessibilità nei colloqui sull’autonomia. Può proporre un accordo iniziale nella sola Striscia di Gaza, dove l’Egitto ha influenza. Ma se nessun accordo sarà trovato prima del ritiro israeliano dal Sinai orientale, Sadat cercherà gesti eclatanti per rompere l’impasse. Potrebbe fermare il processo di normalizzazione o ridurre di grado le relazioni diplomatiche con Israele, per aumentare la pressione su Israele e Stati Uniti e porre termine all’isolamento dell’Egitto nel mondo arabo».

Da questo punto in poi il testo della CIA spiega perché Sadat chiedeva di accelerare gli accordi sull’autonomia palestinese a Gaza e in Cisgiordania in modo che i diritti e il potere politico potessero attrarre i palestinesi moderati dalla sua parte.

L’anno successivo, le conferenze che impensierivano Sadat sarebbero state guidate proprio dai suoi più feroci rivali politici arabi: l’Iraq e la Libia. «Gli egiziani temono sanzioni contro l’Egitto, se Sadat non otterrà progressi sul fronte palestinese». Sadat voleva dimostrare agli egiziani e agli arabi che la via della pace da lui scelta con Camp David era giusta, fruttuosa, e che i progressi negoziali avrebbero rafforzato la sua posizione.

Sadat incontrò Begin per discutere dei possibili sviluppi del negoziato di pace, rimanendo scosso dal fatto che tre giorni dopo quell’incontro ebbe luogo l’accatto sui centri nucleari di ricerca iracheni, il che lo allontanò da Begin, benché abbia poi accettato di incontrarlo nuovamente.

Il rapporto della CIA, dunque, sottolineava quanto Sadat temesse che la debolezza della coalizione di governo israeliana aumentasse il peso dei falchi, contrari a porre limiti alla costruzione di insediamenti ebraici in Cisgiordania e a Gaza.

«L’attacco contro l’Iraq ha indebolito Sadat. Molti giornali lo hanno criticato», si legge nel documento, riferendo che la vicinanza tra la data dell’incontro tra Sadat e Begin e l’attacco veniva vissuta come un colpo alla sua credibilità. «I Fratelli Musulmani e piccoli gruppi marxisti servono da collettori dell’opposizione a Sadat». La campagna militare contro il Libano e in particolare contro i gruppi palestinesi mise ulteriormente in difficoltà Sadat, che propose l’invio di medici e di farmaci in Libano per soccorrere i feriti.

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Il testo indica gli obiettivi del leader egiziano: creare un autogoverno palestinese con sostanziale controllo sulla terra e l’acqua, alcuni poteri legislativi e un ruolo nel governo nei settori arabi di Gerusalemme, insieme ad una sensibile riduzione delle attività di insediamento colonico.

L’obiettivo di Sadat, si sottolineava, era quello di ottenere sufficienti concessioni per attirare i moderati, i giordani, i sauditi ed altri paesi del Golfo. «Sadat non vuole uno Stato palestinese sovrano in Cisgiordania, temendo che possa essere filosovietico. Da molto tempo immagina un collegamento tra Cisgiordania, Gaza e Giordania senza unirli (in un unico Stato) perché non pensa che Amman sia pronta a unirsi ai negoziati di pace» e quindi complicare il quadro. Ecco perché, consapevole della delicatezza della situazione in Cisgiordania, e delle questioni di sicurezza che Israele poneva, proponeva «di partire con il progetto di autonomia a Gaza, dove vivono 400.000 palestinesi in un’area di appena 145 chilometri quadrati. Begin è disponibile, ma chiede un accordo quadro che riguardi Cisgiordania e Gaza».

Dunque, la Gaza sovraffollata di quel tempo contava un quarto o forse un quinto degli abitanti di oggi. E questo serve a capire Gaza, oggi.

Il testo illustrava già allora dinamiche tuttora ben attuali. Il ruolo svolto allora dalla Libia di Gheddafi e dall’Iraq di Saddam Hussein non annunciava quello svolto dal fronte oggi guidato di fatto dall’Iran? Giordania e Arabia Saudita già allora erano invece i partner di un possibile fronte moderato; Mosca, un incubo; gli estremisti, la minaccia; la colonizzazione della Cisgiordania il problema cruciale.

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Così ciò di cui molti oggi parlano – ossia i due Stati – si capisce meglio: occorre una visione per tutti per costruire una pace regionale, per dare un orizzonte e togliere appigli agli estremisti.

Ecco, allora, che l’affermazione dell’ex premier israeliano Ehud Barak, in un articolo apparso in questi giorni su Foreign Affairs, diventa più chiara: Barak parte dal timore, comprensibile, da parte di molti israeliani che pensano che tutti i palestinesi siano come Hamas: «Ricordiamo che un tempo la pensavamo così anche su Egitto e Giordania. Un’intera generazione di israeliani (di cui faccio parte) ha combattuto aspre guerre contro questi Paesi.

Ma una pace efficace (anche se fredda) con questi Paesi dura ormai da quasi 45 anni e quasi 30 anni, rispettivamente. Immaginate quanto sarebbe peggiore la situazione di Israele oggi se questi accordi non esistessero e considerate quanto sia importante non minarli come parte di una risposta mal considerata agli eventi del 7 ottobre. Ma invece di esortare gli israeliani a superare le loro paure, Netanyahu le sta sfruttando».

Quindi ci si addentra nelle questioni dell’oggi.

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