Il prete e l’impasse della formazione permanente

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La formazione permanente, così come oggi la conosciamo, nasce il 25 marzo 1992 con la pubblicazione dell’esortazione apostolica post sinodale Pastores dabo vobis a firma di Giovanni Paolo II.

Il fondamento del documento è la convinzione che ogni presbitero dovrebbe sentire la costante necessità di formarsi nell’ambito spirituale, teologico, pastorale e umano.

Un bilancio

A quasi 30 anni dalla pubblicazione del Documento è doveroso porsi una domanda: quale è la sua recezione nelle diocesi italiane? Non possiamo negare che, formalmente, ci sia stata una recezione nella stragrande maggioranza delle Chiese locali in Italia ma con moltissime sfumature. È sufficiente googlare su internet per vedere come i siti istituzionali delle diocesi italiane diano, alla realtà della formazione permanente, spazi e pesi ben diversi.

Ma oggi, al di là della prassi, qual è la «vocazione» più genuina della formazione permanente del clero? Credo che, ancor prima di vedere i dettagli di cosa sia più opportuno fare o non fare, sia necessario soffermarci sull’essenza del discorso. La formazione permanente è uno strumento, potenzialmente molto forte ed efficace, per accompagnare la persona, nel suo essere prete, dal discernimento vocazionale alla morte.

Questa prima considerazione, ci aiuta ad evidenziare una priorità tutt’altro che scontata: la formazione permanente non deve riguardare alcune tappe della vita del prete ma la vita stessa del prete! Perché dovremmo credere che un prete 30enne debba essere più fragile di un 45enne o di un 75enne?

Riuscire a trasmettere un contenuto non richiede eccessivo tempo ma creare uno «stile», e farlo maturare, richiede un lavoro qualificato, costante e frutto di un lavoro di squadra. Anche nella Chiesa è finito, e spesso molto male, l’era dei grandi «condottieri» solitari. E da alcuni di questi, ovviamente ancora oggi esistenti, è necessario quanto mai essere prudenti prima di coinvolgerli in proposte formative per evitare di trasmettere contenuti e stili in contraddizione tra loro.

Progettazione: la vera sfida

In questo contesto è facile capire che il cuore della formazione permanente non è la calendarizzazione degli incontri con nomi più o meno blasonati, come se si dovesse creare una passarella clerical-spirituale di rango, ma piuttosto la vera questione è la progettazione dell’intervento formativo.

Uno dei veri «nodi» della formazione permanente del clero è la sua progettazione, un vero e proprio lavoro reso più difficile sia dall’irrilevanza ecclesiale in cui è precipitato, sia dall’incapacità di molti «addetti al mestiere» di aver presente il fattore formativo del clero in modo globale, olistico, a 360 gradi. Cosa può fare, da solo, un teologo, un pastoralista, un vescovo o un prete? Spesso ci si riduce a fare un onesto calendario di appuntamenti cercando di assortire contributi teologici, pastorali, spirituali e pastorali.

Ecco, dunque, che la scelta di un’equipe si impone non semplicemente come una possibilità ma come l‘organizzazione e la testimonianza più coerente con l’obiettivo che si vuole ottenere: trovare ed accompagnare il prete nella sua vita!

Formarsi, che fatica

È evidente che la formazione permanente non riscuota un gran successo, ad iniziare dalla percentuale dei partecipanti, ma non mancano occasioni in cui ci si dica soddisfatti per la presenza di un 30% dei preti invitati (che spesso sono solo quelli dei primi dieci anni di messa) e che quindi, rappresenta una percentuale ad una cifra del presbiterio diocesano. Esistono diversi motivi che spiegano questa tendenza: preti sempre più impegnati, meno perseveranti negli appuntamenti ripetitivi nel lungo tempo, un certo distacco da ciò che è «istituzionale», mancanza di relazioni profonde con i confratelli…

La lista potrebbe essere allungata senza troppe difficoltà mentre mi sembra che siano molto limitate le «reazioni» messe in campo per superare le difficoltà ben note. Spesso si tende a rispondere al «malessere» con scelte che, non solo non sono la soluzione (ed infatti la tendenza non varia), ma che sono parte delle cause: si diradano gli appuntamenti, si cercano relatori sempre più prestigiosi, si passa dall’ignorare l’assenza del prete al chiamarlo il giorno successivo all’incontro, nello stile del vicepreside che chiama per un’assenza ingiustificata.

Come uscire dall’angolo del ring in cui di fatto noi formatori ci ritroviamo? La risposta non può precludere una conversione del ruolo dei formatori e della prassi della formazione permanente. Il formatore non può essere solo un segretario di se stesso che contatta relatori, invia email per auguri di compleanno e di ordinazione… occorre innanzitutto esserci! Esserci con il cuore, con la mente, con il proprio vissuto quando, dove e come anche il prete che ti è stato affidato è in grado di esserci! Questa è la grande e necessaria conversione da vivere se vogliamo che la formazione permanente sia in grado di divenire un’esperienza significativa per i preti di ogni età.

Un padre adulto, qualificato, equilibrato

Il prete di oggi non avverte come bisogno prioritario la presentazione di un libro, o ascoltare una relazione o partecipare ad un ritiro, tanto più se guidato dal suo stesso vescovo. Tutto questo può trovarlo online con due click.

Il prete, anche quello di oggi, ha un gran bisogno (proprio perché spesso non ne è neppure consapevole) di relazionare per trovare sostegno in un padre adulto, qualificato ed equilibrato con cui confrontarsi a 360 gradi a partire dal proprio vissuto emotivo, esistenziale, pastorale, spirituale, culturale… Il numero dei preti è sempre più basso così come quello di formatori preparati e di chi sa essere, ed è disposto a prestarsi, come un padre amorevole del suo confratello.

Così facendo la formazione permanente si trasformerebbe da un’informazione più o meno generica ad una formazione della persona che la renda sempre più libera dai fardelli del proprio passato e aperta ai valori trascendentali del Vangelo. La formazione, da realtà di aula, deve diventare un’esperienza di umanità (spiritualità e psicologia) attraverso laboratori di gruppo e colloqui individuali.

I nostri preti hanno bisogno di essere ascoltati e non di ascoltare e la formazione permanente deve essergli accanto per aiutarli a fare emergere ciò che hanno nel cuore e che fanno una fatica enorme a prenderne consapevolezza e a verbalizzare. Il formatore deve essere un uomo che sa ascoltare, soprattutto tra il non detto, che conosce e accetta se stesso e che vive con consapevolezza il suo ministero.

Formazione remota

Il desiderio di autoformazione, dato per scontato nel 1992, non nasce nel prete per il fatto stesso di essere ordinato ma da uno stile di appassionante interesse per le cose dell’uomo e di Dio che noi dobbiamo contribuire a far maturare sin dai percorsi vocazionali.

Non è questo il luogo per parlare dei percorsi di formazione remota al presbiterato ma sono convinto che è proprio in essi che vanno posti i semi dai quali dovrà germogliare il bisogno di formarsi tutta la vita. I giovani devono essere accompagnati, verso l’ordinazione prima e per tutta la vita poi, nel prendere consapevolezza dei grandi temi dei quali non possono e non possiamo non tenerne conto: la mia storia personale, di famiglia, di vita cristiana, la mia affettività e la mia vita di relazione con la donna, con l’uomo, con il mondo LGBTQ+, con Dio e la sua immagine, il mio percepirmi davanti agli stili abusanti, il mio riconoscermi figlio, padre/fratello maggiore, come vivo la lotta spirituale e psicologica in me…

Anche la formazione del clero ha risentito della pandemia da Covid-19 ma torneremo a vivere una nuova normalità. Ci stiamo preparando per servire al meglio i nostri preti non appena potremo incontrarci di nuovo in presenza? Come una moneta, anche questo tempo ha un evidentissimo lato negativo ma anche uno altrettanto potente e positivo: non possiamo non coglierlo!

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