Amoris lætitia: problemi di traduzione

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L’esortazione post-sinodale Amoris lætitia di papa Francesco sta creando non poche difficoltà e problemi di interpretazione anche in ambito pastorale. Un parroco recentemente mi ha detto: «Ho l’impressione che il papa e i vescovi stiano riversando su preti e confessori la loro dif­ficoltà di trovare un consenso in riferimento al problema se sia giusto o meno assolvere convi­venti e divorziati risposati, aprendo loro la strada verso la comunione eucaristica». Un altro parroco mi ha confidato: «Ho molta confusione in testa e mi attendo che la Conferenza episcopale italiana ci dia qualche indicazione in proposito, un po’ co­me ha fatto dopo la pubblicazione dell’enciclica Humanae vitæ».

In entrambi i casi si avverte l’esigenza di alcune chiarificazioni per un lavoro pastorale di accompagnamento, discernimento e integrazione che sia illuminato e al tempo stesso attento alle sollecitazioni del papa. Una prima chiarificazione po­trebbe riguardare la distinzione, elaborata da Giovanni Paolo II nella Familiaris consortio (34) e ri­presa da papa Francesco nella Amoris lætitia (295), tra “legge della gradualità” e “gradualità della legge”.

Sarà bene al riguardo chiarire che in ambito mo­rale la “legge della gradualità” riguarda l’atteggia­mento che assumiamo nei confronti del bene, della volontà di Dio. E rimanda a una presa di co­scienza del nostro limite, del fatto che nonostante la buona volontà non possiamo, né potremo mai, raggiungere la perfezione assoluta, che è solo di Dio. E nemmeno quella perfezione relativa che in linea di principio è alla nostra portata, ma di fatto per diversi motivi non raggiungiamo. Ciò implica che da un punto di vista morale (il solo che qui ci interessa) ci accostiamo al bene, alla volontà di Dio, gradualmente, per gradi. Ne deriva che in ri­ferimento all’atteggiamento vale la cosiddetta legge della gradualità, la legge del “più o meno”: possiamo essere più o meno buoni, più o meno cattivi, dipende da noi, dalla nostra libertà. Essen­do poi l’atteggiamento un atto interiore, che non si vede, nessuno lo può giudicare, valutare dall’esterno.

In questo senso sono da intendere le parole di Gesù: non giudicate e non sarete giudicati. Gesù non intendeva certo il comportamento, ma l’at­teggiamento. Come a dire: il giudizio se una per­sona sia buona o cattiva, più o meno buona o più o meno cattiva, è meglio affidarlo a Dio. Solo lui infatti vede il cuore e i reni: noi diremmo la co­scienza e ciò che sta sotto la coscienza e che nemmeno la persona a volte è in grado di cono­scere. Io non giudico gli altri e neanche me stes­so – scrive Paolo alla comunità di Corinto – chi mi giudica è Dio.

Viceversa quando nella sua esortazione apostoli­ca papa Francesco parla di “gradualità della legge” non ha in mente l’atteggiamento della perso­na, ma il suo comportamento, che è un atto esteriore, che si vede, e dunque si può, anzi si deve, giudicare, valutare. Non fosse altro per il fatto che nel tradurre l’atteggiamento in comportamento, l’intenzione in azione, siamo sempre soggetti a condizionamenti, in parte strutturali e permanenti (genetici, psichici, culturali), in parte contingenti e provvisori (ignoranza, errori, passioni, paure, co­strizioni ecc.), che possono indurre in errore. Sotto questo profilo, in riferimento cioè al com­portamento, non vale la legge del “più o meno”: non si può dire che uno è più o meno adultero, che l’indissolubilità non sia più un bene, un valo­re. Significa più semplicemente riconoscere il da­to di fatto che una relazione, nata per durare sempre, si è rotta, si è interrotta, e non è più pos­sibile ristabilirla, ricostruirla. A questo punto vi è chi sceglie di vivere da separato, da separata, in casa o fuori casa, e così facendo testimonia il be­ne, il valore dell’indissolubilità; e chi viceversa sceglie di avviare una nuova relazione, di convive­re, di risposarsi civilmente, ma non per questo nega il bene, il valore dell’indissolubilità: si direb­be anzi che riprende il cammino verso di esso. In entrambi i casi l’atteggiamento è fondamental­mente buono, semmai la discussione verte sul comportamento: cosa è meglio fare? Risposarsi o, come direbbe Paolo, bruciare?

Nella sua esortazione papa Francesco non affron­ta direttamente questo problema, non avvia anali­si e riflessioni di natura etico-normativa. Troppo rischioso. Avrebbe comportato – e segnali premo­nitori non mancavano – una lacerazione profonda della Chiesa, una contrapposizione radicale tra cosiddetti tradizionalisti e innovatori. Ha così pre­ferito affrontare il problema indirettamente, non a partire dalla dottrina, ma dalla prassi, sollecitando i pastori a muoversi in due direzioni. Anzitutto in direzione di una casistica rinnovata, di tipo mora­le, non giuridico, attenta sì al rispetto formale del­la legge, ma anche e soprattutto al rispetto della coscienza, anche della coscienza erronea. Che certo va illuminata, ma non sostituita. E in secon­do luogo in direzione di un’applicazione più cor­retta della dottrina tradizionale riguardante il pec­cato mortale, per la valutazione del quale si ri­chiede la compresenza di tre condizioni: materia grave (trasgressione della legge), ma anche piena avvertenza della mente e deliberato consenso della volontà.

Nella prassi pastorale si dà quasi sempre per scontato, alquanto idealisticamente, che l’avvertenza sia “piena” e il consenso “deliberato”. Di fatto non è sempre così: ma non perché non si conosca la “materia”, la legge o norma generale. Di qui il severo monito del papa: «È meschino soffermarsi a considerare solo se l’agire di una per­sona risponda o meno a una legge o norma generale, perché questo non basta a discernere e ad assicurare una piena fedeltà a Dio nell’esi­stenza concreta di un essere umano» (304). Co­me a dire: il discernimento pastorale impegna sì a verificare “se l’agire di una persona risponda o meno a una legge”, guai però a dimenticare che ciò “non basta a discernere e ad assicurare una piena fedeltà a Dio nell’esistenza concreta di un essere umano”.

Il testo è stato pubblicato su La difesa del popolo del 12 giugno 2016, a p. 31.

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