La destra e il governo

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elezioni

Si è da poco conclusa una delle più brutte e misere campagne elettorali della storia repubblicana. Ora si possono commentare i risultati del voto.

Quaranta e più giorni di comizi sono passati quasi esclusivamente tra piccole polemiche, attacchi personali e posizionamenti di visibilità. Pochissime le riflessioni strategiche sul futuro del Paese o sul complesso quadro internazionale.

Alla fine, le forze di destra e di centrodestra, tra loro alleate, hanno riportato la prevista vittoria nelle urne. Nessuna sorpresa. L’esito era in gran parte già scritto a priori.

Non tanto perché lo dicessero i sondaggi, che pure lasciavano capire il trend in crescita della Meloni, e quello a calare del Pd. La crisi di Salvini – già chiara, ma non prevista in queste dimensioni – non ha influito sul risultato, visto che la Lega ha ceduto gran parte dei suoi voti, secondo i flussi, proprio a Fratelli d’Italia. Con un esito quindi sufficiente per battere largamente tutte le altre forze e – soprattutto – assicurarsi quasi tutti i collegi uninominali.

Ma – oltre che nei sondaggi – l’esito complessivo delle elezioni era già scritto in due altre evidenze, l’una più puntuale, l’altra più di sistema.

La prima evidenza riguarda come è terminato il governo Draghi; la seconda, la costante ricerca da parte degli elettori italiani, da almeno 15 anni, di un possibile riformatore-salvatore del Paese.

Dalla crisi di governo, il risultato delle elezioni

L’alleanza di centro-destra ha vinto, largamente. È prima in tutte le regioni italiane (esclusa la Campania, dove ha leggermente prevalso il M5S). Col suo 44% circa, però, non avrebbe trionfato, in termini di seggi, se le altre forze e coalizioni non fossero andate in ordine sparso.

È vero che un’eventuale alleanza tra Pd e M5S avrebbe probabilmente fatto cambiare voto a molti dei loro elettori. Ma è pure vero che, sulla carta, il rassemblement giallo-rosso, correndo insieme, avrebbe potuto ottenere la maggioranza in Parlamento. Ancor di più se avesse partecipato anche Calenda: in questo caso si stima che alla Camera ci sarebbe stata una maggioranza di quasi 50 seggi. Insomma, oggi staremmo parlando di un governo Letta, o Conte, ma non di un governo Meloni. È una bella differenza.

Ma le cose non sono andate così, per vari motivi. Di fondo, c’è l’obiettiva difficoltà nel centrosinistra a tenere insieme partiti che hanno agende e linguaggi piuttosto diversi. C’è anche però un calcolo di utilità individuale delle élites di questi partiti: l’analisi dei flussi svolta da vari istituti specializzati, dimostra che sia M5S che Calenda hanno avuto ampio vantaggio dal correre da soli.

Entrambi hanno importanti flussi in entrata dal Pd (sorprendente quello dal Pd ai M5S in varie città del nord, a testimonianza del profondissimo scontento dell’elettorato storico dei democratici). In più, correndo da solo, il M5S ha avuto mano libera sulle promesse al sud. Insomma, parafrasando Giulio Cesare, c’è ancora chi preferisce essere primo in un partito più piccolo, che essere secondo in una grande coalizione.

Il vero motivo, però, per cui la destra ha vinto, a fronte di un centro-sinistra frammentato, è che è stata molto più abile nella gestione della crisi del governo Draghi. La sconfitta di Letta e del Pd si determina già in quei giorni convulsi di metà luglio. Letta, infatti, ha puntato tutto – insieme ai suoi sponsor Orlando, Bettini e Zingaretti – sulla ruota dell’alleanza coi Cinquestelle, per oltre un anno.

Poi, però, non è riuscito a tenere saldamente legato Conte al progetto del governo Draghi. Non è riuscito a farlo ragionare sull’inopportunità di innescare la crisi, dimostrando almeno una di queste due cose: che Conte – spaventato dal calo di consensi M5S – non era più in condizione di reggere l’intesa col Pd; che tra l’elettorato M5S e il Pd – ci si ricordi di Bibbiano – c’è incompatibilità, assai più del contrario.

Morale della vicenda: Letta non riesce a gestire l’alleato Conte, su cui ha puntato tutto. Il centro-destra, abilmente, alimenta la crisi, o quanto meno non fa nulla per spegnere l’incendio. Risultato: la crisi precipita, Draghi si dimette e per chi – come Letta – ha sposato l’“Agenda Draghi”, l’alleanza coi M5S diventa, almeno nell’immediato, inspiegabile e ingestibile.

Completa il quadro l’errore – quanto meno di valutazione e di fiducia – commesso da Letta nel gestire l’assai difficile asse tra Calenda e Fratoianni… Ecco allora che il risultato attuale delle elezioni era già servito, per chiunque conoscesse il nostro sistema elettorale, e sapesse fare due conti, almeno da metà agosto.

Giorgia, la nuova salvatrice

Oltre alle dinamiche specifiche degli ultimi mesi, a spingere Giorgia Meloni al successo (il successo è suo, non certo dei suoi alleati) è la costante necessità di un “salvatore antisistema” che l’elettorato italiano palesa ad ogni tornata elettorale, da almeno 15 anni.

Risaliamo le tappe: nel 2018, clamorosa affermazione del M5S (allora profondamente antisistema) e della Lega, anch’essa realtà politica dai toni molto forti (seppure profondamente legata all’establishment economico, al nord).

Nel 2014, appena otto anni fa, il 40% ottenuto dal Pd del rottamatore Renzi alle Europee (abbinato al 20% dei M5S e con un centrodestra che tutto insieme non superava il 15%!).

Prima di allora, anche l’ascesa di Berlusconi può essere vista, in parte, con le stesse caratteristiche: gli italiani, specie i ceti meno abbienti e i lavoratori autonomi, sentono di vivere in un sistema-Paese inefficiente, burocratico, opprimente (e non hanno tutti i torti). Non hanno vincoli di ideologia. Sono molto liberi e volatili del voto. Sono disponibili e propensi a darlo a chi, di volta in volta, promette di smantellare le contraddizioni italiane e riformare il Paese, meglio se provenendo da una chiara posizione di opposizione e “antisistema”.

Giorgia Meloni ha incarnato benissimo questo ruolo. Come già prima di lei lo avevano interpretato alla perfezione Grillo, Di Maio e il M5S, Salvini, il Renzi della fase rottamazione, e in parte anche il Berlusconi anni ’90 o inizio anni 2000, ancora in grado di reggere la retorica dell’imprenditore pronto a efficientare il Paese come fosse una sua azienda.

Sappiamo che per ognuno di questi “salvatori politici” le cose sono andate piuttosto male: Berlusconi è tracollato nel 2011 (da allora mantenendo però un filo di potere patriarcale sul centrodestra). Renzi ha buttato tutto in tre anni, con la sconfitta referendaria di dicembre 2016. Grillo, Di Maio e Salvini non sono stati da meno, bruciando la loro ora di gloria nel giro di qualche anno.

Questo significa che anche la Meloni è destinata ad essere l’ennesimo fuoco di paglia, che si estingue contro la barriera della irriformabilità del sistema italiano, duro cemento resistente a qualsiasi fuoco?

È un tema di prospettiva a cui è difficile rispondere ora, ma alla cui rilevanza possiamo dedicare qualche riflessione a priori sugli anni che ci aspettano.

Verso il quinquennio delle destre? Sì, ma con qualche variabile aperta

Se oggi dovessimo scommettere un penny, lo punteremmo sul fatto che il centrodestra governerà, senza eccessivi scossoni, fino al 2027. E, forse, potrà porre le basi per un periodo anche più lungo di controllo del Paese.

Tuttavia, il cammino che attende Giorgia Meloni – che ormai dà per scontato di ricevere l’incarico di governo, al di là delle prerogative presidenziali di Mattarella – è tutt’altro che privo di insidie.

Insidie che potranno essere affrontate in vari modi: e da queste variabili possono conseguire risultati molto diversi.

Proviamo a scorrerle rapidamente, queste insidie e variabili:

La formazione del governo. La Meloni accetterà figure moderate nei ministeri chiave? O sfiderà Mattarella proponendo nomi antieuropeisti e antisistema, in posti chiave come Esteri, Economia e Finanze, Sanità? Accetterà un profilo più istituzionale, a prezzo di passare per un “ridimensionamento” agli occhi del suo elettorato più arrabbiato, o svelerà un volto “alla Orban” o “alla Vox”?

Siamo pronti a scommettere sul primo profilo, ma è chiaro che – sul lungo periodo – questo può avere un prezzo nel consenso più estremo, che Giorgia dovrà colmare con una sapiente gestione del potere nell’establishment romano, con adeguate operazioni di immagine su temi-civetta, e – in fondo – andando ad occupare lo spazio politico di Forza Italia, più liberale, col rischio di riconcedere spazio ad una Lega che ora sarà assai più di lotta che di governo.

La posizione europea. Il tema è simile al precedente: moderarsi, o attaccare? Flirtare con la Le Pen, con Orban e le destre meno liberali, o virare verso un profilo di destra europea di tipo più “popolare”? Chiedere la revisione del PNRR, o lasciarsi alle spalle le invettive anti-draghiane di campagna elettorale?

Le considerazioni diventano analoghe alle precedenti, in tema di costi e benefici. Anche in questo caso, con un PNRR da portare a casa (specie nel duro inverno che ci attende), è probabile che alla fine Giorgia conceda al suo pubblico più “estremista” qualche show su temi-civetta (immigrazione e Trattato di Shengen, ad esempio), ma per il resto indossi un tailleur molto più istituzionale, anche se moderatamente critico, nei rapporti con Bruxelles e la Van der Leyen.

Supportata in questo da una non indifferente “benedizione” giuntale da Washington, in cambio dell’appoggio all’Ucraina. Tema su cui, però, Lega e Berlusconi potrebbero darle più di un grattacapo, coi loro costanti rigurgiti filorussi. E con temi come gas, energia, inflazione pronti ad irrompere nelle case degli italiani, direttamente dallo scacchiere internazionale ed europeo, amplificando eventuali posizioni diverse nel centrodestra su sanzioni, guerra, politiche energetiche.

Temi che farebbero tremare i polsi al più esperto dei leader europei: esperienza che la Meloni– oggettivamente – non ha e dovrà farsi in fretta, sul campo.

Gli equilibri nel centrodestra. Ecco allora un altro tema delicato, con molte variabili. La Meloni ha sbancato: è l’azionista di maggioranza del centrodestra. Col suo 26% ha preso assai più della somma di Lega e Forza Italia. Che difficilmente potranno starsene buoni cinque anni, contenti solo di un po’ di sottogoverno, rinunciando per sempre a recuperare spazio. Soprattutto la Lega. Che col tempo la “punzecchierà” su posizioni assai più estreme di quelle che la neo-premier potrà concedersi.

Ma anche Forza Italia non farà concessioni su temi “liberisti” come aborto o diritti individuali, che la Meloni ha spesso attaccato in passato. Morale: qualche tensione nella maggioranza da gestire ci sarà. Anche perché, malgrado l’ampio successo, la Meloni non ha seggi a sufficienza ed è dipendente dagli alleati sia alla Camera che al Senato.

Chi sarà davvero Giorgia Meloni?

Il vero tema che la Meloni dovrà affrontare, quindi, è di identità. Chi è davvero Giorgia Meloni? È una leader di destra, pasionaria, che ora svelerà il suo vero volto, tentando una riforma del Paese sotto l’insegna dei programmi della destra europea? Oppure, virerà – utilitaristicamente – verso una gestione più tranquilla e meno ambiziosa del potere ottenuto, evitando scontri aperti con Bruxelles e con Mattarella, vigile custode dell’europeismo italiano?

Proprio il tema della Presidenza della Repubblica sarà il termometro dell’identità che la Meloni vorrà assumere. Nei rapporti e nei toni quotidiani con Mattarella, ma anche – più a fondo – sul tema del presidenzialismo.

Questa variabile è enorme. Tenterà davvero Giorgia di dire agli italiani che, per poter “salvare” il Paese, per riformarlo, si deve passare all’elezione diretta del Presidente della Repubblica, dandogli poteri esecutivi? Tenterà di porre fine, cioè, alla Costituzione parlamentarista del 1948, passando ad un sistema presidenziale o semipresidenziale?

Se lo farà, vincerà la scommessa o sarà travolta, come Renzi –naufragato su una riforma invero molto più limitata? La stanchezza degli italiani per lo status quo la sosterrà nella sua missione di riforma del sistema, fino al punto di cambiare radicalmente la nostra Costituzione, almeno nella sua seconda parte? Che opposizione (ri)susciterebbe nel Paese? Che dinamiche internazionali vedremmo?

A queste domande, davvero, oggi non si può ancora dare risposta, ma è chiaro che i cinque anni che ci aspettano saranno completamente diversi, se la Meloni volerà alto cercando il profilo “storico” della riforma radicale del sistema italiano, o se si accontenterà del piccolo cabotaggio del potere e del consolidamento del suo forte consenso, virando su un profilo meno pasionario, più istituzionale, più attaccabile da destra ma molto più solido su posizioni centriste e liberali.

Ecco la variabile di fondo che ci attende nei prossimi anni.

Nel primo caso, assisteremmo ad un all-in quasi pokeristico, in cui potrebbe capitare di tutto, persino la rinascita di una sinistra sensata e capace di tornare al governo del Paese (opponendosi al presidenzialismo, o sfruttandolo con nuovi leader più credibili o popolari).

Nel secondo caso, appare più probabile che avremo cinque anni di costante e lenta navigazione del Paese verso un’agenda di centrodestra. E, forse, se Giorgia saprà essere abile e accorta come è stata fino ad oggi, si tratterà di ben più di cinque anni.

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