Task force tra “tecnica” e “politica”

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Il governo Conte rischia la crisi – così si sente dire – a causa di una “task force”. Ossia di una struttura a prevalenza tecnica che potrebbe essere chiamata a governare e spendere il “tesoro” di oltre 200 miliardi in arrivo dai Recovery Fund comunitari. «Una task force non può sostituire governo e parlamento», ha tuonato alla Camera Matteo Renzi.

Minacciando la crisi se la governance di quei fondi strategici per il Paese non verrà restituita alle sedi politico-istituzionali, e sottratta alla preannunciata “cabina di regia” dove siederebbero solo, oltre al premier, alcuni ministri (Gualtieri-Economia e Patuanelli-Sviluppo) e ben 6 super-tecnici, uno per ogni ambito di intervento previsto dal Recovery Plan.

Molti accusano Renzi di attaccare strumentalmente la task force per altri fini. Ma anche Zingaretti non ha nascosto importanti perplessità per questo modo troppo “autonomo” di prendere decisioni a Palazzo Chigi. La domanda è dunque lecita, al di là delle eventuali strumentalità politiche: una task force siffatta è un vulnus alla Costituzione, alla democrazia?

È giusto fidarsi delle istituzioni, o in certe occasioni occorre più efficienza? In altri termini: è la politica che deve prevalere sempre o, quando si fa sul serio, servono i tecnici?

Tecnica e politica. Se pensiamo che il tema nasca oggi, sbagliamo prospettiva. Da sempre i curricula interni alle istituzioni si contendono il primato con quelli nati “nella società civile” e poi prestati – più meno momentaneamente – alla politica. Persino gli imperatori romani e bizantini venivano tanto dalla politica attiva quanto dagli alti ranghi della burocrazia.

Max Weber parlava degli alti ranghi delle burocrazie come dei nuovi “sacerdoti” della razionalità tecnica. Il potere dei tecnici – anche in termini paretiani – è stato studiato lungamente nel corso del ‘900.

Tecnici in politica: un fenomeno esploso dopo “mani pulite”

Ma, se non vogliamo andare così indietro, o così in teoria, possiamo dire che in Italia è almeno dal 1993, da “mani pulite”, che il ricorso ai tecnici è “esploso”. Dalla crisi di credibilità della politica nasce il bisogno periodico di delegare la guida ai tecnici.

Si ricorda prima di tutto il governo Ciampi (1993-94): seppure composto di politici, era guidato per la prima volta da un non parlamentare, scelto in quanto ex governatore della Banca d’Italia, per evitare la bancarotta. Assai più tecnico il governo Dini (1995-96), letteralmente infarcito di non politici, e poi il governo Monti (2011-2013) che, con le sue misure drastiche, ha forse consumato anche il consenso dato ai “tecnici” come valida alternativa quando la politica ristagna. Una riserva di credibilità –quella dei tecnici – che dagli anni ’90 ad oggi si è oggettivamente offuscata.

Troppi forse i tecnici che, col tempo, hanno fatto il “salto” in politica, con dubbie fortune. La lista è lunghissima: Brunetta, Tremonti, Savona, lo stesso Monti, Passera, Calenda… Anche in tempi recenti i nomi di tanti tecnici sono spesso invocati come possibili “riserve della Repubblica”: Colao, Cottarelli, Cantone, Lamorgese, e su tutti Mario Draghi, solo per citarne alcuni. Salvatore Rossi, ex DG di Bankitalia, ebbe a chiosare qualche anno fa: «non è più tempo in Italia di chiedere ai tecnici di vestire ruoli politici».

In effetti, molti tecnici hanno consumato la loro credibilità nella difficile arena della politica italiana, o hanno prodotto risultati inferiori alle attese, specie quando hanno tentato di mettersi “in proprio”.

L’esteso ruolo delle autorità tecniche nel nostro Paese

Eppure, la stagione della centralità dei tecnici non pare affatto finita, nel nostro Paese. Ovviamente, l’epidemia Covid ha spinto in questa direzione, portando a rilevanti ruoli decisionali i vari Comitati Tecnico-Scientifici, e i loro componenti virologi, infettivologi, epidemiologi. Ancora una volta, non senza polemiche sull’autonomia della politica e sui confini tra l’ambito decisionale e quello tecnico-consultivo.

Ma anche senza l’enorme enfasi data dal Covid ai tecnici, in questo Paese, ben prima dell’epidemia, erano attive ad ogni livello task forces, tavoli, cabine di regìa, stati generali, e altri infiniti luoghi  – più o meno annunciati, più o meno reali ed efficienti – in cui la politica si faceva “consigliare” dalla tecnica. Per tacere del fatto che sono ad oggi vigenti ben dodici autorità amministrative indipendenti (i famosi “garanti” della privacy, della concorrenza, delle comunicazioni, anticorruzione…) e risultano attivi – dal sito della Presidenza del Consiglio – ben 32 commissari straordinari di governo, sui temi più disparati.

Aggiungendo che quasi ogni emergenza – ambientale, sismica, infrastrutturale – genera nuovi commissari, anche a livello locale. Ricordiamo su tutti il ponte di Genova, le tante aziende a partecipazione pubblica o la sanità in tante regioni…

Il ricorso ai tecnici e alle autorità indipendenti – seppure teoricamente sottoposte alla nomina e al vaglio politico – è dunque ben più vasto e ben più esteso della sola task force per i Recovery Fund, che pure fa tremare il governo. Quasi ogni volta che c’è un problema complesso da affrontare, in Italia, si abdica alle “vie ordinarie” e si cercano soluzioni che – per quanto ordinamentali – sono di fatto un salto fuori dall’ordinario funzionamento istituzionale e amministrativo.

Alla radici di un fenomeno: la sfiducia nella politica e nella pubblica amministrazione

C’è dunque un’analisi ben più ampia da fare, oltre l’attualità politica. Alle spalle di questo fenomeno c’è – come detto – la perdita di credibilità ormai cronica del sistema politico e delle sue capacità strategiche e decisionali. Ma c’è anche di più: c’è l’evidente perdita di fiducia della politica stessa verso le amministrazioni, dai livelli locali fino – soprattutto – alle amministrazioni centrali e ai ministeri.

Illuminante una recente dichiarazione di Luigi di Maio, proprio a proposito della spesa dei Recovery Fund: «Non si può fare a meno dei poteri che consentono di velocizzare le procedure», ha dichiarato, proseguendo con chiedersi esplicitamente se questa spesa di 200 miliardi si possa fare dentro o fuori i ministeri…

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Dietro a questo ricorso imponente a commissari e a tavoli tecnici “collaterali” all’ordinarietà vi è dunque non solo la crisi della politica, ma l’eterno problema della pubblica amministrazione italiana.

Su questo serve una parola in più, per non cedere a luoghi comuni. Nelle pubbliche amministrazioni italiane ci sono straordinarie competenze ed eccellenze, accanto a fenomeni sconfortanti. Anni di tagli, patto di stabilità e mancato turn-over hanno impoverito le pubbliche amministrazioni e portato l’età media (media, sottolineo) ben oltre i 55 anni, in molte strutture. Niente giovani, niente nuove idee, niente dinamismo. Molti ministeri appaiono oggettivamente impoveriti di capacità rispetto anche solo a 10 anni fa.

La famosa riforma “Bassanini”, poi, andrebbe una volta per tutte riesaminata, per vedere se quel modello dirigenziale e organizzativo abbia dato i frutti voluti: se l’intenzione era quella di creare una sorta di spoil system alla americana, dove i dirigenti pubblici sono professionals che entrano ed escono dall’amministrazione (come vediamo in questi giorni con il passaggio Trump-Biden) spendendo le loro competenze nel privato come nel pubblico, in base alle esigenze effettive di chi governa e dei suoi programmi, non c’è dubbio che la pubblica amministrazione italiana resta lontana anni luce.

I modelli contrattuali pubblici portano alla continuità delle amministrazioni, mentre le figure politiche ruotano – o roteano, addirittura – sempre più velocemente. Ne nasce spesso sfiducia e poca collaborazione tra politici e strutture. Spesso, la prima cosa che fa un sindaco, un presidente di regione, un ministro è quella di cercare risorse per creare un proprio staff “fedele” e portato da fuori: non cercare dentro all’amministrazione che governa le competenze di cui servirsi e fidarsi.

Un rischio democratico o un’opportunità?

Alla fine, alla politica fa spesso comodo giustificare la propria impotenza dando la colpa alla “bestia”, all’amministrazione inefficiente, e che pure governa… Da qui l’imponente ricorso a commissari, autorities, incarichi straordinari, CTS e task forces, nel tentativo di trovare un’efficienza che, oggettivamente, spesso manca.

C’è un rischio democratico in tutto questo? Difficile negarlo, o quanto meno c’è il rischio che una “seconda costituzione”, materiale, de facto, prenda il posto di quella formale, istituzionale, nelle decisioni che contano o nelle questioni più urgenti, delicate, significative, anche economicamente. Quanta distanza rispetto a uno dei cardini della democrazia moderna: non puoi spendere i soldi pubblici se non hai rappresentanza politica (no taxation without representation).

L’idea di poter rafforzare – se non sostituire – la decisione politica con quella tecnica è un’utopia antica quanto Platone, e probabilmente molto pericolosa.

In ogni decisione c’è una componente ottativa, di opinione, di visione del mondo, che è ineliminabile anche nella sfera apparentemente più legata alla scienza, come nel caso delle misure anti-Covid. «Al politico inerisce l’idea», avrebbe detto un famoso e discusso politologo tedesco del ’900: non ci può essere politica ridotta a mera tecnica neutrale.

Neutralizzare la politica, cioè toglierle la sua natura di parte, di scelta, di idea non per forza obiettiva, ma che dà una lettura e un indirizzo al mondo e alla società, è un’operazione che presuppone solo un dislocamento ad altro luogo della dimensione “partigiana” della politica. Non lo elimina.

In questo dislocamento – dai banchi del Parlamento o del Governo ai tavoli di qualche task force – non c’è dunque maggiore oggettività di decisione: in compenso, la partigianeria, invece di essere sottomessa alle maggioranze democratiche, sarà soggetta alle lobby tecniche più imponenti, o alle correnti scientifiche. Se le task forces sono questo, ha ragione chi se ne preoccupa: non c’è in esse nessun guadagno per la collettività.

Se invece la task force – anche quella dei Recovery Fund – fosse non un tavolo decisionale, ma una struttura di missione; non un luogo decisionale ristretto, ma un “pezzo” di amministrazione creato ad hoc, il giudizio potrebbe essere diverso. Fermo restando che nelle nostre pubbliche amministrazioni ci sono moltissime straordinarie competenze spesso poco valorizzate, da sempre capita che la politica si serva di strutture speciali per compiti speciali.

Lo fece De Gasperi, ad esempio, quando creò nel 1950 la Cassa del Mezzogiorno. Molte partecipazioni statali – oggi valide realtà industriali o economiche – sono nate così. Certo, molte anche fallite in un mare di debiti… Ma molte amministrazioni – ancora una volta, tipicamente, quelle americane – si basano quotidianamente e ordinariamente su strutture di missione, su modelli a progetto: sotto ciò che noi chiamiamo Pentagono o Food and drug administration, ad esempio, lavorano centinaia di strutture tecniche di progetto che nascono e muoiono con le loro mission o i fondi ricevuti da gestire.

Se la task force di Conte fosse questo, potrebbe essere un’interessante occasione per discutere una volta per tutte, seriamente, perché non ci si fida della pubblica amministrazione “ordinaria” e quali potrebbero essere i modelli per una sua autentica riforma.

Il rischio, però, è che il dibattito sia alla fine strumentale, tattico, o puramente di principio, e quindi rappresenti solo, ancora una volta senza alcun esito, l’ennesima tappa della lunga querelle tra “tecnica” e “politica” nel nostro paese.

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