Forse tutto questo – Donald Trump, l’intelligenza artificiale, la guerra in Ucraina – ci sembra eccezionale soltanto perché è quanto sta capitando a noi qui, ora. Ma forse, forse, sono soltanto punti di una linea che unisce tanti eventi eccezionali che determinano quella che, a posteriori, è sempre una nuova normalità.
Torno dal meeting annuale del Bilderberg a Stoccolma con più dubbi che certezze, come mi è capitato le altre volte, e con una lista così lunga di questioni che sento il bisogno di approfondire che mi ci vorrà come minimo l’intero anno che manca al prossimo meeting.
Ma almeno una consapevolezza credo di averla maturata: la crisi delle relazioni transatlantiche è al contempo più profonda e strutturale di quanto sembra, ma anche analoga ad altre del passato. Incluse quelle che hanno dato via a queste riunioni così particolari di personalità rilevanti di Europa e Stati Uniti nel 1954, in un hotel olandese di media fascia, dove alcuni ospiti dovevano condividere lo stesso bagno in corridoio.
Tenere insieme l’Occidente
In vari momenti della Guerra fredda c’è stato il rischio che gli Stati Uniti si disinteressassero dell’Europa, e poi che l’Europa pensasse di fare a meno degli Stati Uniti (dopo il 1989), o che li abbandonasse nel momento del bisogno durante la catastrofica Guerra al terrorismo. O che l’ascesa di una potenza asiatica – il Giappone ieri, la Cina oggi – rendesse i Paesi europei economicamente marginali.
Insomma, senza il rischio sempre presente di una crisi delle relazioni transatlantiche, iniziative come le conferenze Bilderberg non esisterebbero neppure. Oggi molto è cambiato rispetto agli inizi, a cominciare dal livello degli hotel, ma l’urgenza di fondo che spinge persone con agende ben più complicate della mia a liberarsi per tre giorni di discussioni è rimasta la stessa: tenere insieme Stati Uniti ed Europa nonostante le periodiche divergenze di valori, di interessi, di performance economiche.
Questi due blocchi di quello che una volta si chiamava Occidente sono sempre in procinto di seguire strade diverse ma poi, a un certo punto, si rendono conto di poter raggiungere i proprio obiettivi soltanto con l’aiuto dell’altra sponda dell’Oceano.
La caratteristica unica dei meeting Bilderberg – che sono appunto conferenze e non un “club” o una “organizzazione” – è la loro ben nota riservatezza, della quale molti complottisti fraintendono la natura: serve a garantire discussioni più libere che se fossero trasmesse in streaming (tipo Davos), ognuno dei partecipanti ripeterebbe soltanto le posizioni ufficiali che ha già espresso in altre occasioni, e parlerebbe soltanto degli argomenti su cui ha titolo di esprimersi.
Al Bilderberg, invece, c’è una orizzontalità democratica che può sembrare paradossale in un raduno che certo si può definire di élite: ma tutti – miliardari, capi di Stato o di governo, imprenditori, generali, giornalisti, perfino sovrani – possono interagire con gli altri su un piano di parità, e di franchezza.
Comunque, il Bilderberg è regolato da uno standard così consolidato che ha il nome di un’altra istituzione – Chatham House – e che consente di usare le informazioni e le idee raccolte nei tre giorni di discussioni, ma non di attribuirle specificamente a qualcuno. Per dare sostanza a questo vago principio, è anche consigliato di non specificare che una certa cosa è stata detta durante la conferenza (la lista dei partecipanti è pubblica e non è così difficile incrociare speaker e concetti).
Gran parte delle conversazioni avviene poi in modo informale, a colazione, a pranzo, durante i cocktail, in pausa caffè, dunque non avrebbe comunque senso cercare di fare un qualche resoconto: ogni partecipante vive un’esperienza diversa e torna con una selezione di idee e stimoli diversa dagli altri.
Mi limito quindi qui a riportare le mie impressioni sull’argomento che, declinato in mille modi diversi, è al centro del Bilderberg dalle sue origini e di tutte le discussioni sull’Europa a cui partecipo da un anno, cioè il rapporto con gli Stati Uniti.
La divisione dei compiti
Una delle idee che ho dovuto rivedere in tre giorni di Bilderberg riguarda il disimpegno degli Stati Uniti dall’Europa: come ha chiarito alla Conferenza per la sicurezza di Monaco il vicepresidente JD Vance, l’amministrazione Trump considera gli europei dei profittatori che imbrogliano l’America con il commercio e scroccano la sua protezione militare (idea, quest’ultima, condivisa con toni diverse anche dalle ultime due amministrazioni Democratiche).
Ed è vero che gli Stati Uniti vedono la Cina come la vera e forse unica minaccia strategica, non la Russia di Vladimir Putin. Dunque la guerra in Ucraina non è una battaglia esistenziale per loro come invece lo è per l’Europa, in particolare per l’Europa dell’Est.
Probabilmente a molti degli elettori di Trump il destino di Kiev e di Volodymyr Zelensky deve sembrare esotico quanto agli italiani le isole Falkland oggetto della breve guerra tra Gran Bretagna e Argentina nel 1982.
Eppure proprio per questo gli Stati Uniti sono costretti a mantenere un rapporto di collaborazione strategico con l’Europa. Per due ragioni. Primo: non sono più in grado di costruire una deterrenza (anche nucleare) efficiente su due fronti così lontani, a difesa di Taiwan e nell’indo-pacifico, e per arginare la Russia di Putin.
La deterrenza verso Pechino richiede difesa cyber, sottomarini nucleari, e moltissime altre cose ma non droni o carri armati come invece servono sul fronte ucraino. Dunque, quella deterrenza dovranno gestirla gli europei. Ma anche nell’interesse degli americani, perché nella prospettiva degli Stati Uniti la Russia non è una minaccia di per sé ma è un potenziale fattore destabilizzante che può compromettere la sfida geopolitica decisiva con la Cina.
Se per esempio la Russia attaccasse un Paese Nato, l’alleanza atlantica dovrebbe intervenire in base alla clausola della difesa collettiva, ma questo significherebbe distogliere attenzione, risorse, uomini dal Pacifico, creando così la finestra di opportunità per Pechino per prendersi Taiwan, e sancire la fine di quel che resta dell’egemonia americana.
Così si spiega l’idea ricorrente di separare la Russia dalla Cina, la dottrina che va sotto il nome di “reverse Nixon”, visto che invece Richard Nixon cercava di separare la Cina dall’Urss nel 1972. Il guaio è che la via scelta da Trump, cioè costringere l’Ucraina a una tregua di qualunque genere pur di riprendere relazioni accettabili con Mosca e sottrarla alla scelta obbligata di avere Pechino come unico partner, rischia di avere l’effetto opposto a quello desiderato.
Una volta congelato il conflitto ucraino che occupa l’80 per cento dell’apparato militare russo, Putin potrà smobilitare il suo grande esercito o spostarlo altrove e aggredire magari l’Estonia o la Finlandia.
Come se ne esce? Rischiamo di scoprirlo presto, se l’Europa non garantirà all’Ucraina risorse e supporto nei prossimi mesi che le evitino di capitolare di fronte alla Russia. Per queste ragioni, in ogni caso, le traiettorie di difesa e sicurezza di Stati Uniti ed Europa rimarranno intrecciate a prescindere dalle dichiarazioni pubbliche di rottura dei leader su una sponda e sull’altra dell’Oceano.
La competizione tecnologica
Questo contesto di sicurezza nazionale sempre più incerta è lo sfondo sul quale si consuma la corsa all’intelligenza artificiale. I tempi per raggiungere qualcosa che assomigli alla superintelligenza (una intelligenza artificiale che supera gli esseri umani in tutti i campi) sono pericolosamente analoghi a quelli di un possibile attacco cinese a Taiwan: quattro-cinque anni, forse meno.
La geopolitica ha un ruolo cruciale nel determinare l’approccio di Stati Uniti ed Europa all’AI. In estrema sintesi ci sono due visioni opposte dell’intero settore, e non possono essere vere entrambe.
Secondo la prima, l’AI è un po’ come i social: una gara per il monopolio. Oggi ci sono tante aziende che competono – OpenAI, Google, Meta, Anthropic, più i cinesi con DeepSeek – ma alla fine si affermerà un solo standard.
Non tanto come conseguenza degli effetti di network tipici dei social (gli utenti preferiscono stare dove stanno tutti gli altri) ma perché chi riesce a ottenere per primo la superintelligenza può sbaragliare gli altri. Sia sul piano commerciale che strategico: molti degli attuali sistemi di sicurezza cyber – come la crittografia o le blockchain – si reggono sull’ipotesi che sia impossibile anche per chi ha molta potenza computazionale superare certe barriere.
Ma con la superintelligenza, l’impossibile diventerà questione di un attimo. Chi sostiene questa visione auspica che a prevalere nella corsa siano aziende americane, che usano intelligenze proprietarie, chiuse, non open source.
La competizione per l’arma decisiva devono vincerla i buoni, cioè gli americani, e questo richiede poche regole – anche da parte europea – molti dati, molti capitali, moltissima energia. E consente, come piacevole effetto collaterale, enormi profitti
Il riaffermarsi della supremazia americana garantirà anche a noi europei – come nella Guerra fredda – pace, prosperità e un ruolo di secondo piano, mentre gli Stati Uniti potranno contrastare la narrazione delle autocrazie in base alla quale le democrazie liberali sono entrate in una spirale di declino inarrestabile.
Oppure no, oppure il settore è fatto in modo completamente diverso: l’intelligenza artificiale è quasi una commodity, che diventa di massa grazie anche ai modelli open source che sono un po’ in ritardo rispetto a quelli proprietari, ma questione di pochi mesi.
Tutti avranno in tasca o chissà dove capacità strabilianti, l’intero capitalismo sarà da ripensare, toccherà ai filosofi invece che ai tecnocrati della Silicon Valley spiegare che senso ha il lavoro o la politica quando i nostri agenti artificiali potranno fare tutto meglio di noi, e decidere in modo più razionale ed efficace quello che è nel nostro interesse (un assistente digitale che consiglia cosa votare, sceglierebbe mai un leader populista? Chissà…).
In questo scenario, dare più potere a una manciata di visionari della Silicon Valley è l’ultima cosa da fare, e i problemi di una possibile guerra nucleare con la Cina sbiadiscono di fronte ai rischi esistenziali – qualunque accezione sia dia al termine – per l’intera specie umana.
Se il problema è collettivo, serve una gestione molto collettiva, e se l’unica speranza (per quanti dubbi possa sollevare) è il cosiddetto “allineamento” dell’intelligenza artificiale con i nostri valori, allora Stati Uniti ed Europa devono essere più uniti che mai.
E l’Europa ha una cultura molto più sviluppata nell’indirizzare l’innovazione attraverso le regole invece che accettare gli abusi di potere e i disastri e poi provare a rimediare dopo, come fanno invece gli americani.
Democrazia e dintorni
Tutto questo, cioè le dinamiche di lungo periodo che vedono l’ascesa della Cina come aspirante egemone e il tentativo di resistenza degli Stati Uniti, equivale un po’ a un movimento di placche tettoniche che prescinde da chi, trovandosi su quelle placche, subisce le conseguenze del terremoto.
Esiste un livello, che è quello della cronaca, sul quale tutto sembra decisivo: ogni decisione di Donald Trump rivela la crisi irreversibile della democrazia americana, ogni mossa di un capo di governo europeo sancisce la fine dell’Occidente.
E poi c’è un livello – che si intravede dalla prospettiva del Bilderberg – che un po’ prescinde da tutto questo, un filo di dialogo che si mantiene nonostante (o proprio in risposta) ai terremoti quotidiani.
Molti dei partecipanti al Bilderberg hanno di sicuro la possibilità di influenzare gli eventi nel rispettivo ambito di azione – che sia la politica, la tecnologia, la finanza – ma proprio a vedere tanti protagonisti riuniti nella stessa stanza per tre giorni si percepisce meglio che ci sono anche forze più profonde – i cicli dell’economia, i vincoli della geopolitica, i trend della demografia – che definiscono il perimetro entro il quale i singoli individui o i singoli Stati possono agire e incidere.
Mi viene il dubbio che i cinesi siano molto più consapevoli di noi occidentali che celebriamo l’individuo – con le sue libertà e le sue responsabilità – di questa dimensione collettiva della storia.
Se questa maggiore consapevolezza sia davvero un vantaggio competitivo o se invece l’Occidente continuerà a prosperare proprio grazie all’illusione che ogni individuo possa spostare, sia pure di poco, il corso degli eventi verrà misurato e discusso nelle conferenze Bilderberg degli anni a venire.
- Dal Substack di Stefano Feltri, Appunti, 16 giugno 2025







Un’analisi lucida e densa di spunti. Colpisce come la competizione tecnologica e quella geopolitica si intreccino sempre più. L’Europa saprà davvero ritagliarsi un ruolo autonomo e costruttivo in questo nuovo equilibrio globale? Seguo con estremo interesse e spero che sia così.