La Chiesa cattolica si trova in Europa sotto pressione: tra desiderio di riforma, attaccamento alla tradizione e crescente distacco di molti fedeli, le tensioni si acuiscono. Come può oggi la fede rimanere credibile e condivisibile, senza tradire sé stessa? Con il suo nuovo libro Die Dynamik des Wortes. Fortwährende Übersetzung als Prinzip christlicher Überlieferung (La dinamica della Parola. Traduzione continua come principio della trasmissione cristiana), il teologo e filosofo Gianluca De Candia propone una risposta a questa domanda, che egli formula così: come si può comprendere la Tradizione cattolica come un processo vivente di traduzione, in cui sempre «lo stesso» è stato espresso ogni volta «in modo diverso», diventando al contempo sempre «più sé stesso»? Chiarire le dinamiche ermeneutiche di questo essenziale processo di traduzione getta una luce particolare anche sul dibattito che, non solo in Germania, concerne i processi di riforma nella Chiesa. De Candia lo spiega chiaramente anche nel dialogo con noi.
- Professor De Candia, quando parliamo di tradizione, ci troviamo spesso in un campo in tensione: da una parte la continuità, dall’altra la discontinuità. Cosa si cela dietro questa tensione?
Non siamo di fronte a un semplice problema matematico, risolvibile con una formula. La tensione tra continuità e discontinuità è, piuttosto, il cuore pulsante di ogni autentica comprensione della tradizione: è ciò che la rende viva e significativa per il presente. Chi si pone nella prospettiva dell’ermeneutica teologica – e dunque evita, da una parte, di cadere nello storicismo, nel razionalismo o nell’interpretazionismo, e dall´altra di ipostatizzare la tradizione, quasi fosse un insieme di nozioni astoriche – si rende presto conto che il credente vive un’esperienza comunitaria di senso (fides qua) e cresce all’interno di una rete condivisa di convinzioni tramandate che, nel suo nucleo più originario, era valida ieri, lo è oggi e lo sarà anche domani. Tuttavia, il Kerigma ci raggiunge sempre attraverso la storia delle sue interpretazioni confessionali.
- E come si pone invece la questione della discontinuità?
Proviamo a pensare a quando ci avviciniamo a una questione portandoci dietro il nostro bagaglio di idee e convinzioni. Ogni volta che interpretiamo qualcosa, in realtà ci appropriamo di ciò che incontriamo, lo applichiamo alla nostra vita e, spesso, correggiamo il nostro punto di vista: spostiamo, integriamo o cambiamo le nostre opinioni, lasciandone andare alcune e accogliendone di nuove. Questo è un vero dialogo: un confronto reciproco tra il “noi” collettivo della Chiesa e ciò che ci è stato tramandato. Non tutto rimane uguale a sé stesso, ma tutto si trasforma continuamente – però non nella cosa trasmessa in sé (come ad esempio la Bibbia), ma dentro di noi. «I tempi cambiano… noi siamo i tempi», come ha ricordato di recente Leone XIV citando Agostino.
- Dove si evidenzia maggiormente questa discontinuità?
Chi osserva la storia della teologia cristiana si accorge facilmente che ci sono vere e proprie discontinuità nei modi in cui, nel tempo, sono state pensate e spiegate le varie «dottrine» ecclesiastiche, soprattutto se si guarda alla Riforma, alle diverse chiese cristiane. Allo stesso modo, si possono notare dei cambiamenti anche nel modo in cui il magistero cattolico stesso ha saputo applicare, spesso in maniera induttiva, alcune convinzioni teologiche a nuove situazioni e domande che hanno messo in discussione le risposte di un tempo.
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- Può chiarire con un esempio concreto?
Il Concilio Vaticano II ha chiarito fin dall’inizio di non voler introdurre nuovi dogmi. L’intento era piuttosto quello di trasmettere la fede e di ripensare la coscienza credente alla luce del presente.
- Questa «retro-traduzione», però, è entrata in una certa tensione con la Chiesa tridentina…
Il Vaticano II ha mantenuto intatto il patrimonio di fede, ma allo stesso tempo ha portato una nuova consapevolezza nella Chiesa – anche grazie ai tanti compromessi teologici che stanno dietro ai vari documenti. Per la prima volta, la Chiesa cattolica ha iniziato a guardare sé stessa anche “con gli occhi degli altri”: quelli delle altre confessioni cristiane, delle religioni non cristiane e persino del mondo secolare. Questo cambiamento di prospettiva ha inevitabilmente creato delle tensioni con l’immagine che la Chiesa aveva di sé in passato, tanto che qualcuno ha parlato addirittura di una rottura. È importante ricordarlo: ognuno di noi percepisce le cose sempre con gli occhi e il cuore del proprio tempo. Questo vale anche per lo sviluppo e la comprensione della tradizione.
- Si può dire che il Vaticano II rappresenti quindi un «progresso»?
Il termine «progresso» è piuttosto ambiguo e richiede delle precisazioni. Preferisco parlare di una dinamica di crescita nella comprensione stessa della fede, perché comprendere (Verstehen), a differenza del semplice sapere (Wissen), è sempre un processo graduale. Le esperienze del passato e quelle del presente dialogano continuamente tra loro. In questo senso, il nostro «oggi» è altresì importante quanto lo «ieri». Prendiamo sul serio ciò che ci è stato tramandato, ma allo stesso tempo lasciamo che nuove scoperte e intuizioni arricchiscano la nostra comprensione della stessa fede. È con questo sguardo che rileggo nel libro, a 1700 anni dal Concilio di Nicea, anche il dibattito sull’«ellenizzazione del cristianesimo». Questo fenomeno, infatti, rappresenta un vero e proprio aumento di complessità nella trasmissione apostolica: una straordinaria opera di traduzione che continua a caratterizzare il cristianesimo ancora oggi.
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- Perché inizia il suo libro con uno capitolo sul rapporto degli antichi (greci, romani, ebrei, cristiani) nei confronti delle lingue straniere?
Ho voluto mettere subito in evidenza la particolare apertura dei primi cristiani verso la traduzione degli scritti che, col tempo, sarebbero diventati canonici – un atteggiamento tutt’altro che scontato! Se pensiamo, ad esempio, al giudaismo o, più tardi, all’islam, vediamo che lì la lingua originale dei testi sacri viene considerata intoccabile e sacra. Tradurre parola per parola era visto quasi come una perdita, se non addirittura come un sacrilegio. Il cristianesimo, invece, ha seguito una strada tutta sua: già molto presto i cristiani tradussero le lettere di Paolo e poi i Vangeli in diverse lingue. Certo, in parte riprendevano la prassi del giudaismo ellenistico di Alessandria, come accadde con la Settanta, ma sono andati oltre: per loro, la traducibilità delle Scritture non era una concessione, ma un vero e proprio segno distintivo. Questo ci dice che il cristianesimo è, fin dalle origini, una religione della parola e della traducibilità. Non si tratta di una semplice coincidenza storica, ma di un elemento fondamentale della sua autocomprensione teologica.
- Dove è fondata questa particolare apertura dei cristiani nei confronti della traduzione?
Al cuore del cristianesimo non c’è un testo sacro, ma una persona: Gesù Cristo, Dio fatto uomo. La rivelazione di Dio, quindi, è legata a una persona viva, non a una lingua particolare. Ed è proprio questa la differenza fondamentale. Certo, la lingua è importante – parliamo infatti di «sacra pagina» – ma non è la lingua in sé a essere santa («sancta»). Quello che conta davvero è che il Kerigma, cioè l’annuncio della risurrezione del Crocifisso, possa arrivare a tutti, senza distinzioni di origine o cultura, e per questo può essere tradotto in qualsiasi lingua del mondo.
- Una delle tesi centrali del suo libro è che il Nuovo Testamento stesso è una forma di traduzione. Cosa intende esattamente?
Sostengo una visione della traduzione che va ben oltre il semplice aspetto linguistico. Prima ancora che venissero scritte le prime righe del Nuovo Testamento, i primi cristiani vivevano la loro fede in un processo continuo di traduzione – non solo da una lingua all’altra, ma soprattutto trasformando esperienze personali in parole, in una esperienza liturgica. Chiamo questo processo «traduzione epidigmatica». Il termine può sembrare un po’ tecnico, ma mette in risalto un punto essenziale: i testimoni della Risurrezione hanno continuamente riformulato, trasmesso e testimoniato – anche fino al martirio – la loro esperienza sconvolgente e carica di significato, rivolgendosi in modo diretto e personale agli altri. Hanno reso «visibile» ciò che avevano vissuto, attualizzandolo e adattandolo sempre alle situazioni concrete delle comunità. Non si trattava di rendere il Kerigma qualcosa di arbitrario o vago. Anzi: il suo nucleo è rimasto intatto. Il contenuto del Kerigma è infatti «meta-culturale», anche se porta con sé i segni della storia. Tuttavia, il modo in cui viene espresso – anche nella pratica – non è mai «trans-culturale», ma sempre legato al contesto sociale e culturale in cui ci si trova. È proprio questa capacità di trasmissione situata che rende il cristianesimo, fin dall’inizio, così vivo e universalmente comprensibile.
- Nel suo libro lei fa riferimento due volte al cosiddetto Sinodo degli Apostoli degli Atti degli Apostoli. Perché questo evento è così importante per lei?
Per me, il Sinodo degli Apostoli è l’esempio perfetto di come la Chiesa delle origini abbia saputo affrontare sfide nuove e complesse. All’epoca si trovò davanti a una questione delicata: anche i non ebrei che si convertivano al cristianesimo dovevano sottoporsi alla circoncisione, segno dell’alleanza? Le leggi ebraiche non davano una risposta chiara, perché la circoncisione era tradizionalmente richiesta solo agli ebrei come segno distintivo. Dopo lunghe e accese discussioni, gli apostoli presero una decisione coraggiosa: non imposero più la circoncisione ai cristiani provenienti dal paganesimo. In questo modo, la Chiesa diede un segnale forte di apertura e di capacità di rileggere le antiche tradizioni alla luce di nuove situazioni. Trovo interessante notare che, in tutto questo dibattito, il fatto che Gesù stesso fosse stato circonciso non fu mai preso in considerazione.
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- Non ci sono state anche altre traduzioni del Kerigma – ad esempio nella gnosi o nei vangeli apocrifi?
Assolutamente, questo è un punto davvero importante. Proprio l’idea di un’ermeneutica «epidigmatica» ci aiuta a riconoscere il valore anche delle cosiddette tradizioni extra-canoniche. Non è mai esistito un unico modo di esprimere il Kerigma – cioè il messaggio centrale su Cristo Gesù, Figlio di Dio, morto e risorto per la salvezza del mondo. Al contrario, sono nate nel tempo interpretazioni e traduzioni diverse, in cui teoria e prassi sono sempre andate di pari passo. Basti pensare, per esempio, ad Ario che, per diffondere la sua teologia, compose dei canti sulle melodie popolari dell’epoca. Così anche contadini, marinai e mugnai poterono conoscere l’arianesimo.
- Questa tensione tra ermeneutica «epidigmatica» e «paradigmatica» attraversa tutto il suo libro.
Sì, da una parte c’è l’ermeneutica «epidigmatica», che permette sempre nuove esperienze di significato e nuove forme di espressione. Dall’altra, c’è l’ermeneutica «paradigmatica». Quest’ultima garantisce, attraverso la selezione, la delimitazione e talvolta anche la censura da parte della comunità di fede che si riconosce come «apostolica», una semantica precisa e un’appartenenza interpretativa ben definita. Si può pensare così: ciò che i primi cristiani hanno vissuto, celebrato e creduto nelle loro comunità si è sviluppato in modo epidigmatico – e così anche il Nuovo Testamento. Dal punto di vista interno al cristianesimo, in questo processo si riconosce l’azione dello Spirito Santo. Solo più tardi, con la canonizzazione degli scritti e il linguaggio dogmatico dei primi concili ecumenici, la Chiesa ha fissato in modo «paradigmatico» – anche attraverso l’elaborazione di passaggi argomentativi intermedi – ciò che nelle comunità apostoliche era emerso in modo epidigmatico. Ció che la chiesa ha qui definito in modo paradigmatico, può solo essere «retro-tradotto».
- È possibile che la Chiesa non solo «retro-traduca» la sua dottrina di fede, ma anche – come lei scrive – che la «traduca di nuovo»?
Quando parlo di «nuove traduzioni» (Neu-Übersetzung), mi riferisco a quei giudizi e applicazioni che il magistero cattolico ha elaborato nel tempo in modo induttivo. La storia ne offre moltissimi esempi: il Magistero romano ha rivisto posizioni fondamentali come la concezione della libertà religiosa, il giudizio sulla schiavitù, il ruolo dello Stato nelle questioni religiose, l’atteggiamento verso la democrazia, la pena di morte e il pluralismo religioso. Queste «nuove traduzioni» non sono semplici aggiustamenti, ma veri e propri spostamenti di prospettiva o di accento che hanno permesso una crescita nella comprensione del nucleo della tradizione, ovvero del Vangelo. La storia ci insegna che le autentiche «nuove traduzioni» della disciplina o della dottrina ecclesiastica, così come i veri progressi nella conoscenza, avvengono sempre quando la Chiesa sa rispondere in modo proattivo alle nuove sfide, con apertura critica e riflessione teologica. È proprio questo atteggiamento che ha aperto, più volte, nuove prospettive per la Chiesa: basti pensare al dialogo con le scienze naturali, all’interpretazione della Bibbia o al confronto ecumenico. Pensare che tutto sia già stato detto e che tutte le risposte siano già pronte nel passato significa non cogliere la tradizione nella sua vera natura: un processo vivo e dinamico di traduzione.
- Può fare un esempio concreto – ad esempio riguardo alla discussione sui ministeri femminili nella Chiesa cattolica?
È vero che nella lunga storia della Chiesa i ministeri maschili hanno avuto un ruolo dominante, ma questa non è tutta la verità. Esistono infatti opzioni che, pur avendo avuto meno successo e visibilità nel corso dei secoli, restano comunque significative: basti pensare al ministero delle diaconesse nella Chiesa antica o all’antico rito della consacrazione delle badesse. Questi precedenti storici dimostrano che le donne erano già coinvolte nei ministeri ecclesiastici. Se consideriamo la tradizione non solo come un insieme di regole fisse, ma come principio della conoscenza teologica e come un processo vivo di apprendimento della Parola di Dio, allora per la comunità dei credenti si apre la possibilità di dare vita a nuove attualizzazioni «epidigmatiche» della stessa fede. Chi può dirlo? Forse tra duecento anni, cattoliche e cattolici guarderanno alla attuale ricerca sinodale di «nuove traduzioni» e la riconosceranno come un’eredità preziosa, ispirata dallo Spirito.
Gianluca De Candia, teologo e filosofo, è professore ordinario di Filosofia e dialogo con la cultura contemporanea presso la Kölner Hochschule für Katholische Theologie (KHKT). Il suo nuovo libro è uscito il 10 giugno per l’editore Herder. L’edizione italiana è prevista per il 2026 con l’editrice Queriniana di Brescia, mentre nello stesso anno uscirà anche la traduzione spagnola, pubblicata dall’editore Sal Terrae del «Grupo de Comunicación Loyola» di Madrid.