Dalla Pacem in terris alle sfide di oggi

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Intervento del presidente della COMECE, mons. Mariano Crociata, al seminario di studio dei docenti di teologia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore “Artefici e custodi della pace. Alla luce della Pacem in terris di san Giovanni XXIII” (Bergamo 11-14 settembre).

La lettera enciclica Pacem in terris (11 aprile 1963) di Giovanni XXIII spicca nel panorama del magistero pontificio del Novecento e continua ancora oggi a costituire un punto di riferimento dentro e oltre i confini ecclesiali.

Tra altri aspetti e caratteristiche che meritano di essere messi in luce, di sicuro si segnala l’invito al disarmo come l’unico modo per scongiurare una corsa agli armamenti destinata a rendere sempre più esposta al pericolo la vita dell’uomo sulla terra; ma soprattutto propone una visione della pace di ampio respiro, che guarda ai suoi fondamenti e a tutte le sue dimensioni, centrata come è sul primato e sulla dignità della persona umana, attorno alla quale prendono forma tutte le relazioni sociali e politiche, nazionali e internazionali.

Scenari

Su questa linea papa Francesco nell’enciclica Laudato si’ dice che papa Giovanni «non si limitò solamente a respingere la guerra, bensì volle trasmettere una proposta di pace». E sottolinea: «diresse il suo messaggio Pacem in terris a tutto il “mondo cattolico”, ma aggiungeva “nonché a tutti gli uomini di buona volontà”» (n. 3). Si tratta di una apertura che è stata universalmente apprezzata e che ha consentito alla voce della Chiesa dentro il cammino dell’umanità di essere sempre meglio riconosciuta e ascoltata.

Già Giovanni Paolo II aveva voluto richiamare l’importanza della Pacem in terris dedicandole un Giornata Mondiale della Pace nel 2003, quarantesimo dell’enciclica, nel cui titolo associa l’idea di un impegno permanente che da essa scaturisce. L’enciclica mostra come Giovanni XXIII «era persona che non temeva il futuro»; da lui promana un senso di «fiducia negli uomini e nelle donne» del nostro tempo come condizione per «costruire un mondo di pace sulla terra».

Cogliamo in questo modo la prospettiva indicata dalla Pacem in terris, la quale mentre non manca di insegnare come debbano essere improntate le relazioni tra le persone, tra le comunità e le nazioni, basandole sui principi di verità, giustizia, amore e libertà, ricorda che sono le persone a creare le condizioni per realizzare la pace, e precisamente tutte le persone di buona volontà.

Il dialogo aperto e una collaborazione senza barriere diventano il tema e lo stile non solo della ricerca della pace ma prima ancora di ogni forma di convivenza. In questo senso l’enciclica introduce una distinzione, che all’epoca suscitò qualche malumore, ponendo, accanto alla distinzione tra errore ed errante, quella tra ideologie e movimenti storico-sociali. Come a dire che l’incontro e il dialogo non possono trovare nessuna preclusione di fronte all’essere umano, chiunque e dovunque egli sia.

In questi ultimi anni, nonostante l’accresciuta comunicazione tra le persone e i popoli, assecondata da quella che è stata e in parte è ancora la globalizzazione, rafforzata da una mobilità e da un movimento migratorio che non si prevede conoscano a breve alcuna forma di arresto, abbiamo visto crescere sempre di più divisioni e ostilità e formarsi blocchi contrapposti. Il compito della pace è diventato allo stesso tempo più pressante ma anche più arduo che mai.

In questo clima, una riflessione che guardi all’Europa viene suggerita da una affermazione dell’enciclica là dove, al n. 67, dice: «riesce quasi impossibile pensare che nell’era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia».

A distanza di sessant’anni constatiamo che ciò che doveva rimanere impossibile da pensare è diventato in qualche modo realtà, non solo per gli innumerevoli conflitti che in questi decenni sono stati combattuti nelle zone più disparate del pianeta, ma perché da più di un anno e mezzo la guerra è tornata su suolo europeo. In realtà la guerra ha già visitato negli anni novanta i Paesi balcanici, anche lì con una crudeltà senza pari, ma quella di oggi presenta fattori di pericolosità di ben altra portata per i Paesi coinvolti e per le alleanze che vede profilarsi.

Il desiderio e la speranza che tutti nutriamo cercano di indovinare dove e quando arriveranno i segnali di una tregua, ma finora non sembrano vedersene. Non mancano iniziative diplomatiche, come quelle messe in campo dal Papa, che non si stanca di levare la sua voce per invocare e spingere alla pace. Vogliamo credere che anche altri si stiano adoperando allo stesso scopo. Non mancano poi nell’opinione pubblica voci e manifestazioni che chiedono la fine della guerra, per non parlare della macchina della solidarietà mobilitata fin da subito e sempre molto attiva.

L’Unione europea e la pace

Insieme a tutto questo c’è bisogno di uno sguardo che vada oltre le pur imprescindibili drammatiche urgenze. E la nostra attenzione deve andare innanzitutto all’Europa unita come progetto che nasce dalla convinzione maturata dai padri fondatori che l’unità sia la condizione imprescindibile per una pace duratura.

Troviamo tale convinzione formulata in maniera particolarmente efficace da Robert Schuman nella dichiarazione del 9 maggio 1950, che ha dato origine al cammino europeo. In quel già breve testo egli affermava: «L’Europa non è stata fatta: abbiamo avuto la guerra». Egli si riferiva alla seconda guerra mondiale, ma la sua affermazione ha un amaro sapore di verità di nuovo oggi.

Un motivo di riflessione non proprio ozioso dovrebbe essere quello imposto dalla domanda su quanto la lentezza nel processo di unificazione europea sia parte in causa nella guerra in corso in Ucraina. Di essa dobbiamo dire che c’è una complessa e intricata serie di fattori a originarla e alimentarla, soprattutto un intreccio geopolitico che vede allinearsi in un modo o in un altro tutte le maggiori potenze e varie nazioni cosiddette emergenti. Di essa soprattutto va tenuta ferma l’evidenza che c’è un aggressore e un aggredito, in clamoroso spregio del diritto internazionale e dell’intangibilità dei confini di ogni nazione, con la conseguente attivazione del diritto di difesa dell’aggredito.

Nondimeno, insieme alla responsabilità, in nessun modo attenuabile, di chi ha voluto e iniziato questa guerra, ci sono processi che hanno potuto favorire o meno l’esito che conosciamo. Su questo una riflessione andrà condotta. Constatare, come abbiamo accennato, la difficoltà di immaginare il superamento della guerra e l’avvio di un processo di pace, comporta anche l’onesta constatazione che l’Unione Europea sconta una debolezza derivata proprio dalla mancanza di una unità e di una compattezza adeguate. Non parliamo dell’unità di fatto che l’Unione ha mantenuto da quando è scoppiata la guerra, ma di una unità che nasca dalla condivisione di un proprio progetto, e prima ancora di una visione, circa il futuro della convivenza tra i Paesi del vecchio continente.

Unione europea: verso dove?

L’unione economica ha fatto segnare grandi progressi negli scorsi decenni, pur attraverso crisi come quelle che si vanno succedendo nell’economia mondiale, ma essa da sola non è stata e non è in grado di produrre il protagonista continentale a cui legittimamente l’Unione poteva e può ancora aspirare a diventare, poiché le risorse di ricchezza, di tecnica, di cultura per tanti versi uniche di cui l’Europa dispone, hanno bisogno di un progetto politico capace di trovare una unità di visione, di indirizzo e di decisione, nella quale tutti i Paesi che ne fanno parte trovino qualcosa delle proprie aspirazioni e lo spazio per dare il proprio contributo.

In questo quadro si intrecciano due tipi di ostacoli nel cammino verso una maggiore unità. Lo ha detto con chiarezza papa Francesco nel suo primo discorso al parlamento europeo di Strasburgo, il 25 novembre 2014: «accanto al processo di allargamento dell’Unione Europea, è andata crescendo la sfiducia da parte dei cittadini», perché «i grandi ideali che hanno ispirato l’Europa sembrano aver perso forza attrattiva, in favore dei tecnicismi burocratici delle sue istituzioni». E in occasione del 60° anniversario della firma dei Trattati di Roma, il 24 marzo 2017, dichiarava: «occorre ricominciare a pensare in modo europeo, per scongiurare il pericolo opposto di una grigia uniformità, ovvero il trionfo dei particolarismi» o, in altre parole, lo «“scollamento affettivo” fra i cittadini e le Istituzioni europee».

Le tentazioni che continuamente emergono di far prevalere una uniformazione burocratica o, all’opposto, l’irrigidimento particolaristico di un singolo Paese, o di un gruppetto di Paesi, vengono vinte dalla ricerca di un equilibrio dinamico sempre nuovo, che non mortifichi né le esigenze di un progetto comune condiviso né l’originalità e la dignità di ogni singolo attore dell’Unione. È un lavoro eminentemente politico e culturale, ed è anche un compito istituzionale che deve allargare l’Unione Europea a sempre nuovi Paesi che chiedono di entrare a farne parte.

A queste considerazioni bisogna aggiungere che tutte le energie della società devono essere attivate in questo processo che vuole vedere crescere la coscienza della necessità dell’Unione Europea e l’azione corrispondente perché l’unificazione crescente avvenga in maniera equilibrata e organica. Non c’è dubbio, per esempio, che un ruolo cruciale deve essere svolto da tutto l’ambito educativo, non ultimo le università.

L’esperienza dello scambio di studenti e di docenti tra i vari Paesi ormai da anni crea una cultura condivisa che fa sentire, senza perdite e senza complessi, insieme europei e cittadini della propria nazione. In questa prospettiva la rete delle università cattoliche ha un contributo specifico da dare. Nella stessa linea si pongono altre esperienze, come la Cittadella della pace del dott. Franco Vaccari, qui presente, che vedono l’incontro e la condivisione di esperienze nazionali e culturali diverse per una crescita della capacità di stare insieme e di costruire un’Europa e un mondo migliori. Opinione pubblica e cultura diffusa non possono rimanere spettatrici passive di questo processo.

Mi sembra doveroso concludere richiamando il servizio che la Commissione degli episcopati dell’Unione Europea (COMECE), l’organismo che qui rappresento, conduce. Essa intende dare voce, attraverso i vescovi delegati, agli episcopati e ai cattolici dei Paesi dell’Unione, in un dialogo, peraltro istituzionalmente definito «aperto, trasparente e regolare» nell’articolo 17 del Trattato UE, che consenta di tenere vivo un confronto che trasmetta le nostre preoccupazioni ma faccia anche giungere i nostri contributi nel trattare le materie di cui l’Unione si occupa. In un rapporto di intesa e di collaborazione costante con la Santa Sede, il nostro è un servizio che cerca di dare espressione e rappresentanza alle preoccupazioni e alle attenzioni a cui ho fatto cenno, con l’unico obiettivo di vedere crescere l’Unione Europea, e in essa tutti noi.

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