Manicomi: prima e dopo Basaglia

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Intervista a Gianna Gemelli, dal 1959 al 1978 infermiera e capo reparto nell’Ospedale Psichiatrico di Mantova. La signora Gianna ha vissuto lo storico passaggio dalla realtà manicomiale alla psichiatria del territorio introdotta con la legge Basaglia del maggio del 1978, 45 anni fa. Andrea Cappelletti − insegnante di religione − ha personalmente raccolto la sua testimonianza poco prima della sua scomparsa, avvenuta, a quasi 91 anni, il 2 giugno scorso.

  • Gianna, ci vuole raccontare in breve la sua vita?

Sono nata nel 1932 a Sustinente, piccolo paese del mantovano in riva al Po. Dopo la licenza elementare, ho iniziato a lavorare in campagna per dare una mano alla famiglia e avere qualche soldino in tasca per me: vendemmiavo, portavo il latte al caseificio e il grano al mulino; facevo un po’ di tutto, insomma, anche perché ero fisicamente robusta e fare fatica non mi faceva paura. Mi spostavo sempre in bicicletta; anche in seguito, la mia preziosa bici è stata per me l’unico mezzo di locomozione della vita; non ho mai voluto prendere la patente di guida, neppure quando mi sarebbe stata utile. Come si diceva: avanti e pedalare!

Giovanissima mi sono sposata e mi sono trasferita in città, in un quartiere edificato dal regime fascista per le giovani famiglie negli anni Trenta: abitavamo in una casetta con due stanze, senza acqua corrente. Una volta nata mia figlia Maria Rita, abbiamo preso un appartamento in centro città.

Nel 1959 sono stata assunta come infermiera generica presso l’ospedale cittadino, il Carlo Poma: un giorno mi imbattei in un avviso con cui si cercava un’infermiera per lo Psichiatrico e ne fui attratta, anche se non sapevo bene il perché. I miei superiori dell’Ospedale Civile mi sconsigliarono di cambiare lavoro dopo solo un anno, ma dentro di me qualcosa mi diceva di andare là, allo Psichiatrico. A quei tempi era importante il lavoro fisso e, poiché l’Ospedale mi dava comunque questa garanzia, non ci pensai due volte e, dopo un breve corso di tre mesi, fui assunta.

***

  • Come è stato il suo primo impatto con quella realtà?

Ricordo il primo giorno di servizio: all’entrata il portinaio mi dette un gran mazzo di chiavi e disse di rivolgermi alla Superiora, una suora che dirigeva il reparto femminile: questa mi accompagnò in dormitorio dove conobbi le infermiere del reparto.

Fui subito colpita dal rapporto distaccato e assai poco rispettoso che esisteva tra il personale e le donne ricoverate. A quei tempi si imparava il mestiere dall’infermiera più anziana: le regole si possono riassumere in tante costrizioni – tanti no! – per ogni cosa. Io ci stavo malissimo: per lungo tempo, appena a casa, mi mettevo a piangere dal dispiacere.

Dopo qualche mese, decisi di cambiare allora, io, radicalmente, il modo di fare: cercai di tenere sempre più un atteggiamento amichevole verso le ammalate, contravvenendo così alle ferree norme contenitive che, di fatto, costituivano l’essenza di tutto il lavoro.

Nel mio reparto erano ricoverate sessanta donne: mi misi semplicemente a parlare con loro, ad ascoltare le loro storie di dolore, solitudine e abbandono. Cominciarono allora le discussioni, a volte accese, con i miei superiori: io non accettavo che l’ammalata fosse l’ultima delle preoccupazioni e che venisse dopo il regolamento. Con le ammalate non facevo nulla di straordinario, se non parlare del più e del meno, cercando di dare loro quell’affetto che lì veniva loro sistematicamente negato.

Vi erano pur sempre persone sensibili, sia tra le suore che tra le infermiere laiche e tra i medici. Regnava, tuttavia, il terrore della trasgressione delle regole, per cui la norma prevalente era quella di tacere e di rigare dritto.

Io non potevo sopportare certe incombenze quotidiane, ossessive. Ad esempio, a fine turno, c’era il controllo del numero delle posate: se ne fosse mancata una – soprattutto un coltello – non si sarebbe potuto andare a casa, sino al rinvenimento. In dormitorio si controllavano regolarmente le gambette, ossia i legacci per il fissaggio delle gambe delle pazienti ai letti, con i corpetti di contenzione e i cinturoni che le immobilizzavano.

  • Chi erano le persone ricoverate e come erano giunte a tal punto?

Spesso le donne ricoverate scontavano semplicemente un “colpo di testa”, una scenata, un generico errore di comportamento commesso una sola volta: bastava per restare recluse anche decine di anni. Oppure – realtà ancor più tragica – vi erano ricoverate persone che non erano neppure propriamente malate: venivano sbrigativamente segregate in Manicomio perché non gradite alle famiglie di origine, o affette da qualche lieve disturbo o, ancora, per quei tempi, ritenute troppo disinvolte sul piano della vita sentimentale e sessuale.

Eppure, erano state buone lavoratrici ed erano ancora sicuramente in grado di prestare molti servizi, in una vita “normale”. Io, perciò, cercavo di coinvolgerle, in tutti i modi, ad esempio in lavoretti di pulizia e di sartoria. Per loro, poter svolgere anche umili mansioni, rappresentava una liberazione: sentirsi utili le riempiva di gioia.

Una paziente che ricordo bene, pur di lavorare su mio invito – alquanto rischioso perché era proibito prendere tali iniziative – si alzava alle cinque del mattino, anziché alle sette, per controllare la biancheria e smistarla eventualmente alla lavanderia. Questa stessa paziente era solita avere crisi di pianto e veniva considerata pericolosa per sé e per le altre – formula comune per giustificare la contenzione – ragion per cui io avrei dovuto legarla al letto per tutta la notte, tutte le notti: non lo facevo mai, perché con lei bastava ascoltarla, parlarle, consolarla… e tutto si sistemava.

  • Qual era la condizione del personale addetto?

I nostri turni di lavoro erano normalmente di 24 ore: massacranti. Solo nel 1968 ottenemmo di poter lavorare le canoniche 8 ore giornaliere. Abbiamo dovuto lottare per ottenere quel risultato, con tre giorni di sciopero a muso duro.

Da quel momento, tutto il personale, medici compresi, cominciò a respirare aria di cambiamento. Questa stessa aria nuova poterono respirarla anche le ricoverate: se qualcuna avesse voluto andare dalla parrucchiera, in chiesa, a trovare qualche amica in un altro reparto, le sarebbe stato possibile. Quando io stessa chiedevo questi permessi per le pazienti, il Primario non mi ha mai ostacolata. Mi diceva: «Vedrai Gianna, qualcosa cambierà, bisogna solo avere pazienza». Ma io, di pazienza, ne avevo poca, per cui quando mi misi in testa di portare un televisore in reparto, mi toccò andare addirittura a discutere in Provincia, con l’assessore, per poterlo ottenere.

Organizzai, insieme al Primario e al Cappellano – un sant’uomo – una breve vacanza al mare con pernottamento in albergo: che emozione! Molte di quelle donne non avevano mai visto il mare in vita loro e, appena giunte in spiaggia, non esitarono ad entrare in acqua con indosso persino le calze.

Andammo una volta in gita a Venezia. Provavo un’emozione immensa nello scrutare la gioia negli occhi di queste povere donne. Che avventure! Certo le resistenze ad abbandonare il vecchio modello non mancavano affatto: le novità cozzavano, infatti, contro una mentalità consolidata da anni, che vedeva nel Manicomio un luogo di reclusione e di pena, rassicurante sia per chi vi operava all’interno, così come per il mondo esterno. Certamente, molta gente era del tutto ignara delle condizioni in cui vivevano le persone ricoverate: c’era comunque una concezione del malato mentale sicuramente approvata e condivisa a livello sociale.

  • C’erano, dunque, suore nel reparto?

Sì, avevano un ruolo importante nella conduzione dell’Ospedale. Erano molto schierate sull’intangibilità del regolamento. Istintivamente, non trovavo quell’atteggiamento molto conforme all’abito religioso. Ma ora mi rendo ben conto che è troppo facile giudicare gli atteggiamenti e i comportamenti di allora.

Con alcune suore ho poi instaurato rapporti di grande stima e fiducia. Sono sicura che gran parte di loro rendesse il servizio in quel posto con senso di grande umanità, cercando di interpretare al meglio la fede e la testimonianza cristiana.

***

  • Come cambiò la concezione della malattia mentale con la legge Basaglia?

Qualcosa ho già detto, ma vi furono altre novità, di una certa importanza: furono, ad esempio, col tempo, introdotte le assistenti sociali, una per ogni reparto: figure che prima non erano assolutamente previste. Certo, la breccia decisiva nel muro della chiusura fu l’approvazione della legge Basaglia, nel 1978, la famosa “180”, che decretò la chiusura dei manicomi e la cura dei malati nei cosiddetti servizi di igiene mentale territoriali. Finalmente!

Posso dire di essere stata una “basagliana” ancor prima di sapere chi fosse Basaglia. Avevo studiato poco – non ero e non sono colta – non ho ideologie particolari: una sola cosa mi premeva, ovvero il bene delle malate. Io le baciavo, le toccavo, le abbracciavo: come potevo “starmene impalata” a vedere quei visi sofferenti e quegli occhi imploranti senza fare nulla? Per me, dunque, si trattava prima in ogni cosa di avere amore e umanità. Con spontaneità.

Ho parlato due o tre volte con Basaglia, personalmente: lui era solito, infatti, visitare gli Ospedali Psichiatrici per vedere i risultati della legge che portava il suo nome e per verificare come questa fosse stata accettata e messa in pratica dagli operatori sanitari. Era un uomo semplice e molto sensibile. Io condividevo appieno la sua riforma, soprattutto per l’apertura di quei cancelli chiusi che troppa sofferenza avevano causato.

Non ero tuttavia così ingenua da sottovalutare a quale tipo di difficoltà saremmo andati incontro: in primo luogo, la reazione dell’opinione pubblica, che temeva il confronto con la malattia mentale; in secondo luogo, la difficoltà di concretizzare, in maniera seria e convinta, i nuovi criteri e i nuovi servizi, cosa certamente non semplice. Occorreva molta pazienza e costanza, poiché certi cambiamenti non si potevano realizzare dalla sera alla mattina.

Io non sono in grado di fare un bilancio, ad oggi, della situazione complessiva della cura della malattia mentale in Italia, ma direi che i timori da me paventati, purtroppo, in molti casi si sono avverati. Sono poi convinta che le riforme e il cambiamento delle strutture, per quanto giuste e doverose, non possono mai essere staccate da un cuore che batte vicino ai malati, dal desiderio di stare con loro, dall’attitudine ad ascoltarli nel profondo. Ho sempre visto nei miei “matti” – capitemi! – una purezza e un’ingenuità quasi angeliche. E non esagero. Per me sono stati tutta la mia vita.

  • Gianna, come ha vissuto il pensionamento e quindi il distacco da quel mondo, che è stato il “suo” per gran parte della vita?

Sono sincera: andare in pensione, dopo trent’anni di lavoro in Manicomio, dopo battaglie, incomprensioni, tanta fatica fisica e psicologica, ma anche soddisfazioni e gioie immense, ha costituito per me un grande dolore, benché un passo necessario. Naturalmente, nessuno di noi è insostituibile, ed è stato giusto lasciare ad altri il testimone.

Ripensando ora alla mia vita, ammetto di non aver avuto un bel carattere; mi rendo conto, nell’ambiente, di aver spesso esagerato, di essere stata talvolta aggressiva, per non dire maleducata, coi superiori, coi medici e con le colleghe. Ma ero e sono fatta così e il Signore mi prenderà come sono.

Peraltro, ho continuato, anche da pensionata, a lavorare come volontaria presso il CPS, Centro Psico Sociale di Mantova, che è proprio qui vicino a casa mia. In un certo senso ho ripreso il filo del mio vecchio lavoro.

Anche in questa sede ci sono state tante riunioni, baruffe, iniziative condivise e/o osteggiate, pure tante cose belle e, soprattutto, ho avuto la possibilità di re-incontrare o conoscere tanti malati a cui ho voluto bene: oggi mi telefonano o mi vengono a trovare. Ho visto nascere e ho aderito all’Associazione Oltre la siepe, nata nel 1996, costituita da familiari di donne e di uomini affetti da disturbi mentali, con volontari che si impegnano a proseguire il cammino intrapreso dalla legge 180.

Sono stata costretta ad interrompere l’attività qualche anno fa, quando le gambe non mi hanno retto più e la mia malattia ha cominciato a farsi sentire duramente. Ho quasi novantun anni e penso che la forza per arrivare sino a qui me l’abbia data il Signore. Ho sempre pregato e sono una devota di due santi per me speciali e cari: santa Rita da Cascia e san Padre Pio da Pietralcina. Adesso sono pronta ad andare. Ho tanta voglia di rivedere mio marito Ivo e mia figlia Maria Rita.

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2 Commenti

  1. Anna Maria ferretti 24 agosto 2023
  2. Marco Ansalone 22 agosto 2023

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