Spotlight: la vergogna e la speranza

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Al comando della polizia di Boston il vescovo, il card. Law, cerca di convincere una madre divorziata di 4 figli a non denunciare il prete che ha violentato i suoi bambini. Ne andrebbero di mezzo le buone opere della diocesi per tante persone che, come lei, nel disagio. È un ritornello frequente, come la promessa di immediato allontanamento dalla parrocchia dove il presbitero ha commesso gli abusi. Il colloquio si esaurisce lì e il pastore se ne va a casa con la sua pecorella smarrita.

È in questo incipit tutto votato al cinema classico – il regista Thomas McCarthy accenna in conferenza stampa all’influenza del cinema di Sidney Lumet – la cifra di Spotlight, film fuori concorso a Venezia alla 72ª Mostra internazionale d’arte cinematografica.

Una ricostruzione, rigorosa nelle informazioni e soffocata nell’acredine, delle indagini curate dal team omonimo del Boston Globe dal 2001 sulle molestie ripetute e diffuse perpetrate da una parte, vertiginosa nel numero, del clero locale. Fatti accertati, che hanno sconvolto il mondo e l’intera comunità cattolica e di cui l’attuale papato continua a farsi carico con le parole e i fatti nella consapevolezza che c’è una giustizia che non può mai essere disattesa e che, al contempo, la sofferenza dell’anima e del corpo ha bisogno di essere accudita anche da parole oneste, imploranti ed empatiche.

Anche Spotlight abbraccia questa doppia via, forse l’unica, per accostarsi a tanta ferocità senza rimanere inghiottiti da rabbia e delusione. Per decenni numerose persone, al tempo bambini, non hanno avuto giustizia vivendo l’ulteriore tortura dell’insabbiamenti dei fatti; altre hanno contato su patteggiamenti privati tra l’istituzione e le vittime con un esile risarcimento economico.

L’arrivo del nuovo direttore, Marty Baron, giornalista ebreo che si trasferisce da Miami – perché ci vuole l’outsider come ricorda Staley Tuccy nella parte dell’avvocato difensore delle vittime – apre una nuova stagione per il giornalismo locale ma anche per la città di Boston.

Ben diretto e altrettanto bene interpretato, il film non si accontenta di calcare la mano sull’orrore in termini giudiziari dei reati commessi ma – come fece il team di giornalisti – illumina senza sconti le complicità trasversali createsi attorno alla vicenda.

Il verdetto è indigesto: le comunità sociali sapevano. Da quella scolastica alle forze di polizia, dalla comunità religiosa alle famiglie, dagli organismi di giustizia fino alla comunicazione. Perfino il Boston Globe fa ammenda per non esserci arrivato prima di allora, confermando l’esistenza di un sistema panoramico che ha reso possibile un silenzio così protratto.

L’omertà a fin di bene – quel male subdolo che corrode l’istituzione – è quella che viene incastrata da Spotlight, quella che sfugge ai documenti, alle prove, alla dimensione pubblica, nutrendosi di dinamiche diaboliche che creano un sistema duramente scalfibile. Ad esse il film dedica una ghigliottina – quella su cui ritorna puntualmente papa Francesco – fatta di un incedere chiaro e serrato che supera senza eluderla la colpa del singolo carnefice (vennero raccolte dal pool di giornalisti prove su 87 preti).

La raffinatezza spirituale di Spotlight, cara al regista e al cast in molta parte con un’educazione cattolica alle spalle, impone di riflettere su quanto la pedofilia abbia messo in ginocchio non tanto e non solo l’immagine della Chiesa, quanto piuttosto, oltre al feroce abuso alle vittime, sia stata rubata anche la possibilità di una vita nella fede. Anche di questo bisognerà rispondere: una necessità sacra che emerge dal film e che allontana ogni polemica da Venezia lasciandoci concentrati sugli allora bambini, oggi adulti sofferti, irrisolti e soprattutto sopravvissuti.

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