Sulla polverosa strada verso Emmaus, un paesino a pochi chilometri da Gerusalemme, due uomini parlano animatamente, quando un solitario viandante li affianca incuriosito: «Che sono questi discorsi che state facendo fra voi durante il cammino?». Hanno il volto triste, e uno di loro gli risponde tra lo stupito e l’ironico: «Tu solo sei così forestiero in Gerusalemme da non sapere ciò che vi è accaduto in questi giorni?». Il viandante chiede: «Che cosa?». I due riassumono i fatti: avevano sperato che Gesù di Nazareth fosse il Messia e ne erano diventati discepoli, ma era stato brutalmente crocifisso e il suo corpo era sparito dal sepolcro.
Il XXIV esimo e ultimo capitolo del Vangelo di Luca, che ho riletto in questi giorni di Quaresima, spiazza ogni aspettativa del lettore, credente o meno. Il viandante che si fa dare dell’ignorante è proprio quell’uomo: «Ma i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo». Il mistero è doppio: un uomo morto cammina con i suoi amici che, benché siano in grado di percepirne la presenza, non lo riconoscono. Percepire e riconoscere sono qui posti su due livelli diversi e, pare, incompatibili. Il testo e il mistero che contiene mi hanno sempre intrigata.
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Il lettore si aspetterebbe adesso la grande luce del lieto fine: lo straniero si rivela e li annichilisce. Ma è già successo in tutte le storie in cui la realtà viene ribaltata con la forza, dai poemi omerici in poi. Qui no, la rivoluzione accade in modo inatteso: lo straniero, invece di rivelarsi apertamente, continua il cammino con loro, perché sono loro a dover rivoluzionare un punto di vista inadeguato.
I due infatti speravano in un posto nel regno del Messia, ma «ai loro occhi» Gesù si era dimostrato un sognatore, e così se ne tornano alla solita vita di prima, senza gusto. Il gusto che si perde quando si è malati: tra i cinque sensi è infatti quello che usiamo come metafora per la qualità della vita. Una vita «senza sapore» è priva di «senso»: prova gusto solo chi sa percepire e riconoscere il valore di qualcosa. Per questo il viandante spiega «in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui», e raddrizza le loro aspettative accecate dal desiderio ristretto di auto-affermazione. Così cura la loro delusione: è inevitabile che tutto ciò da cui speriamo di ricevere senso, se è finito, ci deluda, perché il desiderio umano è infinito per definizione e nessun «finito» potrà mai bastargli.
Ma è proprio in situazioni in cui perdiamo le nostre finite o finte certezze che ci disponiamo a riconoscere l’infinito. Lo straniero ripara la loro «svista»: non è la quantità di potere a dare senso alla vita bensì quella di amore. Non possono riconoscerlo perché lui è venuto a servire, non a dominare. Loro si aspettavano il trionfo (che scendesse dalla croce e sbaragliasse i nemici), ma l’amore non domina, si dà e lascia liberi, non vince ma avvince e convince. Spesso cerchiamo di nascondere la povertà di amore ricevuto e dato con maschere auto-rassicuranti. Ma quando cadono le maschere, chi siamo?
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«Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: “Resta con noi perché si fa sera”. Egli entrò per rimanere con loro. Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista». Cresce il mistero: quando lo vedono non lo riconoscono, quando lo riconoscono sparisce.
Riconoscere non è dato agli occhi, ma allo spirito. Capita anche a noi di dire a chi amiamo: non ti riconosco più! L’altro è sparito alla nostra vista, perché dobbiamo ritrovarlo più in profondità. Infatti la delusione dei due, frutto di false aspettative, viene curata («Non ci ardeva il cuore mentre conversava con noi lungo il cammino?») e trasformata in desiderio: gli chiedono di rimanere a cena. Ed è allora che lo riconoscono. Il luogo in cui c’è «gusto» è nelle cose quotidiane, vissute con l’apertura e la cura di chi invita un amico a cena. I due infatti ripartono subito verso Gerusalemme per raccontare tutto agli altri.
Dovrebbero essere ancora più tristi perché l’hanno perso di nuovo, e invece hanno scoperto che è ovunque, a loro disposizione («Io sono con voi, tutti i giorni, fino alla fine del mondo»), perché la resurrezione è una rivoluzione da ricevere non da fare («Io sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e apre la porta, io entrerò da lui e cenerò con lui ed egli con me»).
Quando umano e divino cenano alla stessa tavola, allora l’ordinario diventa straordinario. Risorgere è la ricetta per dare infinito gusto alla vita, perché permette di riconoscere la vita nascosta in ogni cosa: a casa, a lavoro, nel dolore, nella fatica, nelle relazioni, nella luce sulle foglie… in tutto, perché solo ciò che viene fatto con e per amore diventa vivo. Così la «vita di sempre» diventa la «vita per sempre».
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Un esempio di «Dio è amore, ma non secondo la modalità nostra» è nel Simposio di Platone. «Ehi, voi due, cos’è che volete l’uno dall’altro? Desiderate congiungervi indissolubilmente in una sola cosa, così da non lasciarvi né di giorno né di notte?» chiede il dio Efesto a due amanti. «Non è il solo piacere erotico lo scopo per cui se ne stanno stretti con tale intensità. No: l’anima di ciascuno vuole un’altra cosa che non sa esprimere, ma che intuisce e manifesta con simboli». Per Platone, carezze e abbracci sono tentativi di afferrare qualcosa che nell’altro si manifesta, ma che sempre sfugge. Gli amanti sono due metà di una sfera spezzata, alla ricerca dell’unità perduta. Il dio fabbro propone allora di fonderli per sempre. Ma la fusione erotica non basta: lenisce, non guarisce. Il miracolo promesso dall’eros resta irraggiungibile.
Il Cantico dei Cantici mette in scena lo stesso desiderio attraverso l’eros di un ragazzo e una ragazza. Ma qui tutto è pieno di fughe, attese, assenze. Il loro amore è fatto di promesse e mancanze, ed è proprio questa apertura che lo rende pronto al miracolo. Non è la chiusura perfetta della sfera platonica, ma la frantumazione del guscio della solitudine: «Mi alzerò e farò il giro della città, voglio cercare l’amore dell’anima mia» (3,2). I due si cercano, ma si perdono: «Ho aperto allora all’amato mio, ma l’amato mio era scomparso. L’ho cercato, ma non l’ho trovato, l’ho chiamato ma non mi ha risposto» (5,6). Il desiderio diventa una breccia, unire le debolezze lascia entrare l’infinito. Il Cantico è un inno a «fare spazio all’Amore». Per questo è il libro più commentato della storia cristiana: basti pensare che Dante sceglie un suo verso per presentare Beatrice («Vieni, o sposa, dal Libano», Purg. XXX, 11).
I due amanti del Simposio cercano l’eterno, ma non lo raggiungono; quelli del Cantico sanno che l’altro non può guarire del tutto la ferita della finitezza. Ma se la medicano a vicenda. Chi cerca eternità nell’altro finirà col rimanere deluso. L’amore umano, anche se felice, manca sempre di qualcosa: il miracolo dell’eternità. L’eros, nel Cantico, non è il fine, ma il desiderio del senza fine, la danza dell’«ancora, ancora», che proprio perché finisce, chiede l’eterno: «Dov’è andato il tuo amato, bellissima tra le donne, perché lo cerchiamo con te?» (6,1). Tutti vogliono l’amore che non muore mai: «forte come la morte è l’amore» (8,6).