Quaresima /2: parole che ci chiamano

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prova

Iniziamo la quaresima 2021 tutti provati per l’enorme coacervo di difficoltà legate alla pandemia; e con la Quaresima registriamo un anno con cui sempre meno attoniti e sempre più preoccupati e stanchi affrontiamo il Covid-19.

Di fronte alle parole che connotano questo tempo forte, credo sia importante dar voce a tutti i sentimenti negativi che faticano ad accogliere con determinazione l’invito che l’anno liturgico propone. Senza questo esercizio di verità l’appello quaresimale si riduce a rituali, comunitari o personali, che sanno sfuggire alla domanda di senso.

Non abbiamo già fatiche, non siamo già impegnati nell’ascolto di una parola che illumini il senso e la direzione, e che al contempo consoli?

Non stiamo già digiunando da molte dimensioni importanti della vita?

Nell’immobilità di vario tenore cui ci costringe la situazione come possiamo parlare di cammino spirituale?

Per fiducia nel Signore e nella Chiesa che non smette di riprendere la Quaresima, quale che sia la situazione, possiamo provare a chinarci sulle parole che la sostanziano. Un poco trascinati, come capita al popolo di Israele uscendo dall’Egitto.

Le parole, a loro volta però, non sono semplici, perché hanno tutte più versanti di significato.

Il deserto, l’ascolto  e il silenzio: sono il luogo della fatica.  Il silenzio-deserto porta con sé l’apparire delle bestie selvatiche, come direbbe il Vangelo. La preghiera e l’ascolto sono il momento in cui la spada a due tagli della parola separa anima e corpo, come dice la lettera agli Ebrei.

Eppure il deserto è anche il luogo in cui la sposa sarà portata per tornare alla tenerezza del fidanzamento.

Poi il tema della preghiera, dell’ascolto della Parola appunto indicato come momento in cui la spada a due tagli separa noi da noi stessi. Ancora è necessario disporsi e acconsentire ad  essere espropriati del nostro discorso su di noi e il mondo. Ma nella fatica del ruminare la Parola, nella fatica di approfondire il senso del testo d’improvviso il Dio lontano si presenta vicino, presente nella profondità del nostro cuore, dove troviamo noi stessi e una luce della storia che non sospettavamo.

Infine il digiuno, pratica di cui abbiamo ben presente la formalità, che ci impegniamo ad aggiornare alla nostra esistenza, ma sempre a rischio di quietarci la coscienza. Tuttavia il digiuno nel dono dei beni – segno della disponibilità a donare se stessi – diventa una gioia condivisa.

Il cammino quaresimale, in che direzione deve andare?  In un tempo in cui siamo costretti a stare il più possibile con noi stessi, comprendiamo che l’uscita non può che essere insieme, anche spiritualmente. Per questo, nella diversità degli accenti, non vogliamo scegliere per noi stessi, ma desideriamo camminare con gli altri.

Si percorre il deserto perché si esce dall’Egitto, e perché si vuole uscire dal deserto stesso, per approdare alla terra.  I padri e le madri delle origini avevano già vagato molto in quella terra, prima che essa diventasse il luogo della promessa. E anche per loro sempre come per Abramo: esci e vai.

Questa tensione di fondo è la parola quaresimale che mi sembra interpellarci non solo perché tutti volgiamo “uscire” dalla pandemia e da tutto ciò che comporta, ma perché  sappiamo che questo non accadrà se non a patto di uscire da molte altre schiavitù, o da molte altre terre in cui ci sentiamo a casa.

Dall’inizio del suo pontificato Francesco ci ha parlato di Chiesa in uscita. Suggerire che non per forza dobbiamo raggiungere fisicamente le periferie, non è solo ridimensionare la provocazione;  è piuttosto comprendere che siamo chiamati a collocarci nelle periferie, siamo chiamati a pensare il mondo e vivere il Vangelo ponendoci con la testa e il cuore, alla periferia.

Ogni cristiano e ogni comunità discernerà quale sia il cammino che il Signore chiede, però tutti siamo invitati ad accettare questa chiamata: uscire dalla propria comodità e avere il coraggio di raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno della luce del Vangelo (EG 20).

La Chiesa “in uscita” è la comunità di discepoli missionari che prendono l’iniziativa, che si coinvolgono, che accompagnano, che fruttificano e festeggiano. “Primerear – prendere l’iniziativa”: vogliate scusarmi per questo neologismo (EG 24).

E le altre parole saranno tutte lì a chiamarci fuori e farci vivere la gioia di un approdo, che non può diventare terra posseduta,  e che sarà sempre ai margini.

E torneremo a ridurre a tre le parole diserto/preghiera/digiuno  perché sono come tornanti del medesimo cammino.

Nel silenzio potremo ascoltare tutte le nostre resistenze verso le periferie, quali esse siano.  Ma potremo anche comprendere con intelligenza nuova le voci che da esse  ci giungono, e coglieremmo i fermenti di vita, veri e propri fiori del deserto.

La preghiera diventa così luogo per  disporsi a collocarsi nella periferia, ci darà le parole quando il nostro dire non sa spiegare e non sa illuminare.  Andare verso le periferie ci farà cercare il setaccio per distinguere il grano dalla pula della nostra fede.

E il digiuno, impegno e condivisione, sarà il modo per allontanare il rischio di chinarci sulla periferia, piuttosto che di parteciparvi.

E ancora il camminare ci farà andare da un polo all’altro perché “tout se tient” e perché solo così lasciamo e andiamo verso. E solo per questa via ci disponiamo alla dinamica pasquale. La certezza del suo dono ci illumina e sostiene, proprio nel disporci a vivere i quaranta giorni, a testimonianza della sua verità e del nostro desiderio di fedeltà.

Sono giorni che passeranno afflitti dai numeri della pandemia, e attraversati dai discorsi di sempre, ben poco varierà, se non la nostra disposizione di cuore. E l’obbligata rarefazione di iniziative comunitarie non ci aiuterà  nel vivere quell’oggettività che è riservata al tempo forte dell’anno liturgico. Situazione questa che certo non inizia quest’anno e che dovrà interpellare liturgisti per farci cambiare vocabolario e approccio.

Ma intanto siamo qui con il desiderio di vivere il tempo che ci separa dalla Pasqua in modo adeguato, se può mai essere possibile, ma l’enfasi ecclesiale svanisce giù sul sagrato della chiesa dove si inizia a riprendere la ferialità.

Noi siamo tempo, ma non lo costituiamo noi,  e ancora fa capolino la solitudine, personale o di gruppo e ci pesa perché sembra che la quaresima sia tempo da noi costituito.

Dimentichi di un passato in cui, formalmente o no, era quaresima per tutti, oggi ogni giorno, ogni mese è importante per qualche gruppo religioso, ma alla fine non è importante per nessuno. Deserto di significato. Forse pensando che tutte le altre persone credenti di altre religioni vivono la stessa cosa, con l’aggiunta di essere  minoranza siamo in buona compagnia.

Così nel tempo che ci avvicina alla celebrazione tutta cristiana della morte e resurrezione di Gesù, ci troviamo a condividere il viaggio con altri, che in mesi diversi vivono come noi un tempo forte non riconosciuto.

Ritrovare l’oggettività dei quaranta giorni, condivisa anche da Gesù, sarà custodia della ricerca dello Spirito, che Dio ha donato per renderci umani.

E non vivere di solo pane sarà vivere la comunione con il Dio di Gesù Cristo, che ci dona salvezza. A cominciare dall’offrirci parole che ci aprono gli occhi e il cuore per riconoscerci fratelli e sorelle di tutti.

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