Simone Weil: un cristianesimo altro?

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Perché dedicare un convegno a Simone Weil[1] oggi? La risposta è dentro il nostro tempo, difficile e complesso come quello abitato da questa credente sui generis. Tre, dice Alfredo Jacopozzi[2], sono le parole-chiave al centro della sua riflessione e della sua vita: vulnerabilità, sacro, potere.

Sin da bambina Simone Weil sente la vita dominata dalla sventura in quanto esposta alla forza. Il dolore è la costante dell’esistenza e rivela la miseria della condizione umana. I ritmi inesorabili del lavoro – imposti da una logica produttivistica e del profitto -, la loro forza bruta e la guerra hanno indotto l’individuo all’inumanitas. Per sopravvivere, si reagisce “prestando attenzione ai moventi bassi” – dice Weil; ma così l’individuo diventa cosa, “un compromesso fra l’uomo e il cadavere”.

Per questo occorre rimodulare, nell’ottica della communitas, il “prestare attenzione”: ricreare l’uomo in maniera tale che egli, allorché veda lo sventurato giacere moribondo sul ciglio della strada, superando addirittura Dio, spezzi per lui il “pane” dell’aiuto[3].

Se “il volto del bisognoso ci interpella” – sottolinea Levinas -, per il fatto che è un essere umano, si ha l’obbligo morale di “esserci”. È il dovere che disinnesca la miccia del fare spazio all’io e disarma ogni aggressività; non il diritto, retaggio della romanità, che ha contrassegnato la storia attraverso la forza e il potere.

Se a plasmare le coscienze è il valore del dovere, è il linguaggio dell’amore come servizio e della giustizia ad imporsi. Il diritto, vocabolo dell’economia e del commercio, mette al centro l’individuo e impedisce ogni “penetrazione nella vulnerabilità”.

“L’uomo va a Dio nella tribolazione – dice Bonhoeffer – e lo trova povero, consunto, fragile”; solo il Cristo che muore sulla croce ha, per Weil, condiviso il dolore di tutti -cristiani e pagani: spogliandosi del suo essere personale Egli ha assunto nell’impersonalità l’universale vulnerabilità.

Non è credibile, allora, una chiesa che difende la logica di un potere autoreferenziale e che si avvale della fragilità come orpello per emergere; solo penetrando l’umano sofferente e “piantando lì la tenda” – come ha fatto Weil – si incarna nella sua radicalità il Vangelo.

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Una santità geniale è il titolo del libro che Sabina Moser [4] ha dedicato all’incontro fra san Francesco e Simone Weil. Per entrambi, è solo immergendosi nella vita profana e incarnando il dolore universale che si realizza – sine glossa – il dettato evangelico.

L’ideale per cui vivere è la ricerca del Bene, la sola che può rendere l’azione perfetta e bella come una statua greca. Esiste un’azione simile? Weil la scopre nelle fiabe dei fratelli Grimm e, in particolare, ne I sei cigni [5], dove si racconta della sorella di sei fratelli trasformati in cigni e costretta dalla matrigna a rimanere muta e a tessere sei camicie con anemoni. Neppure le accuse e il supplizio la distolgono dall’impresa.

Agire non è mai difficile − commenta Weil – agiamo sempre troppo e ci disperdiamo…cucire sei camicie con anemoni per sei anni e tacere è il solo modo per acquisire forza…un essere puro agisce col suo solo esistere… [è] il silenzio che salva… il sacrificio più che il suo risultato”.

Nulla a che vedere con il diritto, dunque, ma sono la giustizia e la misericordia, autentico accesso al soprannaturale, che vanno perseguite. Reagire all’ingiustizia, spogliati del nostro io, ci rende, nell’impersonalità dell’azione, capaci di attingere al sacro e al bene.

L’amore, vissuto impersonalmente, mette l’uomo in relazione con il divino e con il fratello sofferente. Se il diritto garantisce la persona e penalizza la relazione e l’impersonalità di un agire che nasce dall’interiorità e, se tutto ciò che è politica, in un’ottica di dominio, condanna l’uomo alla sofferenza, da criticare allora è anche una chiesa che applica gli stessi criteri.

Solo i Mistici, in quanto condividono la stessa solitudine che fu propria del Cristo come è raccontata nel Vangelo di Marco – realizzano, per Weil, il passaggio dall’io all’impersonalità e al sacro.

È nella condizione di totale abbandono – perfino del Padre – che solo un malfattore vede nell’”invisibile” il Giusto. La rinuncia al potere non è impotenza, ma realizzazione creativa di un dovere, espressione di un’umanità attenta all’altro, così come lo fu Alessandro Magno che, assetato, rifiutò l’acqua per condividere la sorte dei suoi soldati.

“L’atto morale non è l’atto conforme a questa o a quella regola, ma l’atto libero, imprevedibile, creazione al pari di un’opera d’arte… La felicità [di Alessandro], se avesse bevuto l’acqua, l’avrebbe separato dai suoi soldati… per lui si tratta di dichiararsi uomo come gli altri”, come fa “l’Uomo-Dio che riscatta gli uomini con la sola giustizia e senza alcuna azione politica”. La propria salvezza passa attraverso il sacrificio, accettazione del dolore e rifiuto dell’animale che è in noi.

Se l’agire bello e perfetto è, dunque, anonimo e impersonale, anche il bello artistico richiede che il suo artefice, ispirato come un santo, scompaia. Solo così egli imita l’atto creativo di Dio che, nell’abnegare sé stesso, ha consentito ad un altro essere, diverso da lui, di esistere indipendentemente. In questa rinuncia sta la pienezza che è dentro di noi, laddove, come afferma anche Platone, filosofo religioso, abita quel padre celeste che la grecità condivide con il cristianesimo.

Il cammino di conversione al cristianesimo inizia alla Porziuncola, dove Weil incontra Francesco. Il suo essersi spogliato di tutto, la mortificazione di sé, l’umiltà e la scelta di una vita povera la trafiggono e operano in lei quella rivoluzione esistenziale che la condurrà a trovare nell’essenzialità l’unica via che, sulla terra, aiuti a vivere e a comprendere che la verità della natura umana sta nell’imitare Dio nella pazienza dell’attesa. Il tempo è l’attesa di Dio che mendica il nostro amore, dice, mentre noi siamo pellegrini in viaggio verso la patria celeste.

In Francesco ella coglie il distacco stoico che, come un sole, irradia energia spirituale. La sua è una santità nuova, un’invenzione prodigiosa perché esige più genio di quanto sia occorso a Archimede per inventare la meccanica e la fisica. Ad essa tutti aspirano perché depura dalle opacità che nascondono la luce divina.

Da questo punto zero, il giovane ricco Francesco, a differenza di quello della parabola, realizza quella fraternitas, che la chiesa ha mortificato: non è dal modo in cui l’uomo parla di Dio, ma dal modo in cui parla delle cose terrestri che si può discernere se l’anima ha soggiornato nel fuoco dell’amore di Dio. Svuotando sé stesso il santo di Assisi si fa “il povero in spirito delle Beatitudini”, colui che ha conosciuto la perfetta letizia, esperienza cristiana più grande perché riempita dalla Grazia.

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Altra costante del pensiero weiliano è per Marco Vannini[6] l’universalismo mistico.

Nata da una famiglia ebraica laica e arrivata tardi alla religione in seguito all’esperienza della Porziuncola e alla conoscenza di san Giovanni della Croce, Weil, proprio in quanto libera da “precomprensioni dottrinarie”, si avvicina a tutte le religioni e ne studia i testi sacri. Impara l’ebraico e il sanscrito ed estende il suo interesse al mondo del folclore, delle fiabe, alle pratiche religiose dei nativi americani. Scopre così che è il misticismo, quale accesso al soprannaturale, a renderle quasi identiche.

Nella Grecia, per esempio, c’è già la rivelazione annunciata nel Vangelo; i suoi presupposti sono presenti in Platone e nell’Iliade, dove Omero, poeta della pietà, accomunando nel dolore vinti e vincitori, conclude il poema rendendo omaggio a Ettore con gli onori funebri.

Corrompere il Vangelo, come fa la chiesa unendo l’Antico e il Nuovo Testamento, è una “facezia atroce”: il Cristo è il soprannaturale; Javhé e Allah sono due divinità naturali. Se a dominare il mondo sono “la pesanteur e la grace” [7], solo il mistico sta nella Grazia; tutti gli altri uomini sono soggetti alla forza, anche gli dèi, come si vede nell’Iliade. Gesù potrebbe esercitare la forza del comando, come lo invita a fare il centurione di Cafarnao affinché guarisca il suo servo; Egli, invece, chiede di visitarlo e di toccarlo, dimostrando di non esserne schiavo [8]. La forza è la regola della politica ma ad essa non si deve cedere.

Il mistico è colui che ha seguito l’insegnamento del Cristo e non pensa in prima persona. Decreandosi, sa fare spazio alla Grazia e rinunciare all’egoità [9]. Questa è la scelta di vita che permette di realizzare il “Cristo implicito”[10]– come lo definisce Weil – trasversale a tutte le religioni e a tutte le epoche. La lista degli uomini che lo hanno incarnato è lunga: riguarda personaggi del mito, della storia, della letteratura, del mondo delle fiabe come Prometeo, Proserpina, Attis, Adone, Antigone, Ippolito, Melchisedek, la sorella dei sette cigni … È il giusto della Repubblica di Platone. Tutti hanno sofferto, come il Cristo sulla croce. È la croce e la condizione del Christus patiens, privo dell’aspetto miracolistico della resurrezione, che possono ricreare l’uomo e guidare l’anima a Dio.

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Centrale nella riflessione di R. Celada Ballanti [11] è il dialogo interreligioso, implicito nel modo di pensare il cristianesimo, che Weil, nel 1942 nella sua Lettera VI, aveva condiviso con padre J.M. Perrin. Qui la componente religiosa è intrecciata a quella politica.

L’origine esperienziale, libera e intelligente, della sua religiosità rende problematico il suo rapporto con il mondo cattolico in quanto al centro del suo interesse c’è il dialogo interreligioso, che è questione religiosa e politica insieme. A entrambe, secondo Weil, – la cui posizione critica verso un cattolicesimo chiuso accentuavano i dubbi se ricevere o no il Battesimo – spetta il compito di ripensare e di esplicitare l’universale. Da non confondere con “universalismo”, alla maniera coloniale, ma nel senso di ospitante (kenotico) perché possa – svuotandosi – fare spazio all’altro, includerlo senza “fagocitarlo”.

In Weil c’è una logica dell’alterità diversa dall’esclusivismo/inclusivismo classico, che ha portato a guerre, scontri di religione e di civiltà. L’inclusione deve essere “rispettosa, non speculare”. In questo senso il problema è religioso e geopolitico insieme. Confrontarsi con le altre religioni, infatti, non significa trovare un denominatore comune ma, partendo dalle proprie radici, dal nostro essere storici e “gettati” dentro un “cono d’ombra”, “allargarsi all’alterità”. Questa è la prospettiva da cui partire per realizzare, nel rispetto delle differenze, l’universale.

Non si tratta di ricercare il “giusto mezzo”, ma la coincidentia oppositorum” alla maniera di Cusano, l’“armoniosa discordia” di Democrito e “il medesimo” di Heidegger. “Inabissandoci nella pluralità” e facendoci kenosis, come ha fatto Cristo sulla croce, ci si apre all’altro, realizzando de facto la coincidenza degli opposti.

La verità è incavata; senza un vuoto e il silenzio nessuna verità è possibile. Il Cristo è il mistico senza nome, che incavandosi, si è disseminato sotto altri nomi. È il seme che deve morire per risorgere. È lo “sciame di possibili che la Grazia sparge nel mondo”.

Originata da un atto libero, non fondata sulla forza ma sulla debolezza, la trascendenza di Dio procede attraverso la disseminazione della grazia: così l’universale, non imperialistico, né missionario, può diventare espansivo e incontrare l’altro nell’“ineffabile”.

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L’atteggiamento critico di Weil nei confronti della Chiesa interpreta, secondo Beatrice Iacopini[12], la corrente teologica del post-teismo, che si va diffondendo all’interno del mondo cattolico, i cui aderenti sono teologi come J. Arregi, P. Gamberini e P. Squizzato.

Presentando il Deus duepuntozero, Gamberini ritiene che sia necessario superare l’idea teista di un Dio supremo, dai poteri soprannaturali, distinto dal mondo e capace di intervenire in esso trasgredendo le leggi della natura, poiché non più credibile oggi e coerente con la cultura del tempo.

I dati sulla partecipazione religiosa sono allarmanti e la causa è questa interpretazione teista. Anche il termine teologia è superato: su Dio sarebbe meglio tacere o sostituirvi le espressioni “speleologia del cuore umano” o “sociologia della coscienza”. L’esistenza di Dio non è un “a priori”, perché si può cogliere solo alla fine di un percorso. Il teismo, inoltre, non rende ragione della tradizione cristiana e delle altre religioni; “è sottosviluppo del Cristianesimo” e “proiezione dei bisogni umani”.

“Oggetto della ricerca non è il divino ma il mondo” – sostiene il teologo spagnolo J. Arregi. “Nulla si può dire sul soprannaturale; l’attesa è priva di oggetto e neppure si può sperare che Dio ci raggiunga. Occorre prepararlo pensando che non esiste e attendere un assente”.

Per Gregorio di Nissa ogni figura di Dio è un “idolo” e per R. Panikkar “Dio è luce paterna”, non qualcuno che c’è – come afferma anche sant’Agostino. Per Weil il contatto con Dio è attraverso l’assenza e lo svuotamento mistico. Solo i grandi mistici come Giovanni della Croce, maestro Eckhart, Margherita Porete possono guidarci a riscoprire la verità del Cristianesimo.

Il teismo non dice la profondità di Dio e non sviluppa una spiritualità profonda e matura. È una “sottomissione dell’intelligenza”, che non si accetta più nell’età adulta dell’umanità, in quanto propone una visione autoritaria del divino che occorre ristrutturare per poterlo vivere in maniera profonda. Quanto hanno fatto Hillesum e Weil che, proprio perché prive di precomprensioni religiose, sono diventate le antesignane di una nuova spiritualità.

“Il cosmo si è spostato al cuore” dice Hillesum: quando, cioè, “Dio non è più stato solo un problema intellettuale”, ma da Lui si è sentita toccata, è iniziata la sua vera vita. Non si può cercare Dio fuori di sé, in cielo; chi lo cerca lì, trova il vuoto. È nell’intimità – come dice san Agostino – che va cercata questa “corrente sotterranea di acqua viva”. Tutto il resto è mito e credenza.

Dio non interviene nella storia: la Provvidenza è accettare ciò che avviene. Egli non può salvare noi, ma noi possiamo salvare Lui. Questo è il monachesimo di Weil e Hillesum: le loro celle sono interiori e le loro navate sono quelle del mondo.

***

Il rapporto di Simone Weil con Gesù è inesistente- dice Vito Mancuso [13]; intenso è, invece, il suo rapporto con il Cristo. Del Gesù terreno non avrebbe gradito gli atteggiamenti: basta pensare all’episodio dell’incontro con la sirofenicia [14], dove Gesù si rifiuta di guarire la figlia malata in quanto non ebrea. Gesù è ebreo osservante e i suoi miracoli sono compiuti attraverso il contatto: toccare una non ebrea, era impuro.

L’interesse di Mancuso per la pensatrice francese inizia in età giovanile; di lei apprezza la profondità di pensiero e quella “musica interiore” con cui esprime sé stessa. Tuttavia – sottolinea il teologo – alcune idee sono inaccettabili perché l’Itinerarium in Deum non è solo dell’anima ma anche del corpo.

Non si può fare della sventura la chiave del cristianesimo e della realtà. La chiave della realtà è la vita che contiene anche la “bona ventura”. Lo slancio vitale può essere una “menzogna”, come dice Bergson, ma essa non lo abita del tutto. Per questo è necessario ricreare, non decreare. Inaccettabile affermare “la lebbra sono io”; “tutto ciò che faccio è cattivo” e solo “sparire permette Dio”. Ci si deve, invece, purificare e diventare capaci di giustizia. Per Weil il cuore del cristianesimo è il peccato ed esso ne spiega la croce.

Mancuso, a differenza di Weil che si dichiara cristiana, è, invece, attratto da Gesù: il motore del suo agire non è la sventura, ma la ricerca della giustizia e del Regno di Dio e l’ortoprassi, sotto la guida del libero arbitrio, è il metodo per realizzare entrambi.

“C’è una nobiltà originaria dell’uomo di gestire la libertà in modo giusto” [15] e questo pensiero riecheggia nei Greci, in Buddha e Confucio. Se è vero, come dice Kant, che c’è del male nell’essere umano, al fondo esiste “un germoglio di bene”, che va curato perché da lì scaturisca la giustizia. Servono “ottimismo antropologico”, disciplina, rigore, creatività. Socrate, Aristotele e Seneca nutrivano stima per la libertà umana e, in questo senso, anche la romanità, che lei disprezzava, ci dà luminosi esempi.

Il Cristo che guarisce – afferma nei suoi Cahiers – rappresenta la parte meno nobile della sua missione; la parte più alta è il sangue. Ma Pindaro, Aristotele e Socrate non avrebbero detto che la pienezza del divino sta nella sconfitta. Divino è essere privo di dolore (apathiens) e impertubabile, come dicono gli stoici.

Il Cristo, tormentato di Cimabue sulla croce, non è pienezza. Per Weil solo la sventura estrema è redentrice. E’ necessaria la sofferenza per decrearsi e poi risorgere. Unico atto libero è la distruzione dell’io [16].

Ma “come fare spazio all’amicizia, all’amore” si chiede Mancuso, “se non partendo dall’io?”. Il male non è la forma che Dio assume nella vita, perché la materia, in quanto mater, è un bene.

Anche Gesù non voleva essere sacrificato tant’è che sulla croce grida “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?”. La preghiera ebraica del Padre nostro con la sua offerta di perdono – “rimettiamo i nostri debiti” – è la chiave del riscatto, come dice Tertulliano. Anche Matteo, nel versetto “In base alle tue parole sarai giustificat o[17]”, esprime il suo inno alla libertà, conclude Mancuso.


[1] «Simone Weil: un cristianesimo altro?» è il titolo dell’interessante Convegno tenutosi a Badia di Passignano nei giorni 23-25 maggio 2025. Relatori: Roberto Celada Ballanti, Beatrice Iacopini, Alfredo Jacopozzi, Vito Mancuso, Sabina Moser, Marco Vannini.

[2] A. Jacopozzi è docente di Storia delle religioni e di Filosofia delle religioni alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale, direttore dell’Ufficio Cultura e Università della diocesi di Firenze e direttore dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Firenze. È, inoltre, referente della Comunità mondiale per la meditazione cristiana per Firenze e Direttore della rivista Vivens Homo e di Mistica e filosofia.

[3] S. Weil, La persona e il sacro; Adelphi, 2014

[4] S. Moser, studiosa del pensiero weiliano, ha dedicato numerose opere alla pensatrice francese. L’ultimo suo studio è Una santità geniale- Simone Weil in dialogo con san Francesco ( Le Lettere, 2024).

[5] Fratelli Grimm, Fiabe del focolare; n. 49.

[6] Marco Vannini ha riportato alla luce molti importanti autori antichi, medievali e moderni, di storia della mistica ed ha pubblicato numerosi libri dedicati alla riflessione teorica sul rapporto fra religione-mistica-filosofia.

[7] S. Weil, L’ombra e la grazia ( titolo in italiano de La pesantuer e la grace), Ed. Comunità, Milano, 2021.

[8] Mt 8,5-13

[9] Margherita Porete, Lo specchio delle anime semplici, San Paolo, 2010.

[10]  L’espressione «Cristo implicito» fu coniata nel ‘500, nel mezzo delle guerre di religione, dall’umanista tedesco  Sebastian Franck che ne avvertiva spiritualmente la presenza anche nei turchi, nei pagani, negli ebrei e in tutti gli uomini di fede sincera; un Cristo che, per contro, può essere del tutto assente dall’anima di tanti sedicenti cristiani.

[11] R. Celada Ballanti, professore ordinario di Filosofia morale e Filosofia della Religione all’Università di Genova, ha pubblicato numerosi libri sul dialogo interreligioso.

[12] Beatrice Iacopini, laureata in Filosofia e in Scienze religiose e insegnante di religione al Liceo Amedeo di Savoia di Pistoia, ha studiato per diversi anni gli scritti di Etty Hillesum e alla giovane olandese, morta ad Auschwitz, ha dedicato con S. Moser il saggio Uno sguardo nuovo. Il problema del male in Etty Hillesum e Simone Weil (San Paolo, 2009 ) e Etty Hillesum, vivere e respirare con l’anima. La scommessa di una spiritualità laica ( Gabrielli, 2025).

[13] Vito Mancuso, teologo e filosofo, attualmente docente del master di Meditazione e Neuroscienze dell’Università degli Studi di Udine, ha fondato e dirige presso il MAST di Bologna il “Laboratorio di Etica”. E’ autore di numerosi di argomento teologico, filosofico ed etico.

[14] Mc 7,23-30; Mt 15, 21-28

[15] V. Mancuso, L’anima e il suo destino; Raffaello Cortina Ed., 2007

[16] S. Weil, La pesanteur e la grace, op.cit.

[17] Mt 12,37

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Un commento

  1. Pietro 19 giugno 2025

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