Una teologia «rapida»? Intanto, bisogna averla, una teologia attrezzata per attraversare il cambiamento culturale: ce l’abbiamo, secondo voi? La mia prima – rapida – reazione alla provocazione di Antonio Spadaro è questa. Per il momento, noi abbiamo una teologia attrezzata per attraversare la continuità ecclesiale, più che il cambiamento culturale. Plasmata dalle esigenze della formazione al ministero ordinato (di ieri), mantiene sostanzialmente questo assetto anche quando si assegna un compito di più esplicito dialogo culturale.
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L’inerzia è comprensibile, dato l’auto-sequestro ecclesiale della materia, nell’epoca moderna, a fronte di una certa politica di esculturazione del pensiero religioso associata alla secolarizzazione della sfera pubblica. Il gioco di azione e reazione innescato da questa pressione ideologica, ha inevitabilmente reso tempestiva (forza di reazione «rapida») l’attitudine apologetica alla difesa d’ufficio; ma ha tenuto al riparo del fermento del pensiero riflessivo e creativo (il nutriente «lievito» evangelico) l’intelligenza credente.
L’intelligenza credente, dico, ossia, non solo quella che si occupa fedelmente della dottrina «della fede», ma anche quella che abita allegramente l’umano «nella fede». La teologia si è assuefatta all’abitudine di applicare una quantità di filtri all’accesso del sapere della fede e alla sua ispirazione: ora che li passi tutti, il posto del tuo interlocutore l’hanno preso i suoi nipoti (che ragionano di tutt’altro e in tutt’altro modo).
Lo abbiamo fatto per proteggere il mistero della «fede» e, al tempo stesso, offrire garanzie di un retto esercizio alla «ragione», naturalmente. Questo apparato, certo, di «rapido» non aveva proprio niente. Soprattutto nel senso in cui, personalmente, intendo la provocazione di Spadaro (adotterei un altro linguaggio, ma non è questo che importa qui). E intendo questo (se capisco bene lo stimolo): la lingua teologica corrente non riesce ad andare direttamente alla «cosa», né alla cosa della fede né alla cosa dell’esperienza.
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La teologia non dà più questa percezione. Manca di naturalezza nell’esercizio di una giovanile agilità che non dovrebbe affatto corrispondere ai suoi anni, non irrompe con eleganza di volteggio nel bel mezzo della vanitosa assemblea dei dottori, non dissimula sorridendo il proprio sforzo di abitare creativamente inediti confini. L’immagine della tempesta sedata, tratta dalla narrazione evangelica, è ben scelta. L’affettuosa ironia di Gesù (che sta in tutto l’atteggiamento, non solo nelle parole) è un tratto evangelico pervasivo e costante (si può dire che Gesù evangelizza in questo modo).
Più che in ritardo, insomma, parlando di tempestività, siamo fuori tempo. Stiamo discutendo di riforma della Chiesa e di trasformazione dell’Europa, come se fossimo nell’imminenza della fine, da più di un paio di decenni: eppure di Chiesa e di Europa ne abbiamo sempre di meno. Intanto migliaia e migliaia di nostri fratelli e sorelle, in comunità e contesti religiosi che non hanno spazio alcuno nel nostro inventario dei problemi, vanno «rapidamente» incontro a ostilità, persecuzione, estinzione.
Possiamo dire di avere un pensiero della fede «rapido» ad intercettare la condizione cristiana reale e quella umana reale? Una teologia «rapida» – così intendo – parla molte lingue e si adatta a qualsiasi mezzo di trasporto: e perciò non teme di andare dritta al punto in qualsiasi Chiesa e in qualsiasi mondo. Non si fa intimidire, non assume posizioni isteriche. Questo obiettivo, tuttavia, da raggiungere al più presto e con adeguata ricaduta istituzionale (nella forma e nella formazione) non è a sua volta al riparo da una sua specifica insidia. Non è solo un rischio, è già un ostacolo.
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La pura ricerca della rapidità, sia pure nel senso dell’agilità di andare dritto all’appuntamento con la realtà condivisa da tutti e produrre uno choc di reazione salutare che ridesta energie non previste dagli apparati, può diventare l’incubatrice di una pigrizia letale.
L’esempio più spettacolare di questa conversione della rapidità della presa in estetica del vuoto è l’odierna pubblicità commerciale. Essa, alimentata da una fenomenologia dello spirito più raffinata di quella di Hegel, si è assicurata una copertura totale della stoffa mediatica del quotidiano: è dovunque, con l’apparente capacità di richiamare implacabilmente l’attenzione sulla vera realtà, che è quella dell’essere «godibile». Il resto della condizione umana «è noia», che possiamo riscattare con il giusto prodotto.
Di questa sofisticata antropologia culturale, che si compiace di dissimularsi nell’uso di un gergo ammiccante e popolare, la teologia non sa quasi niente. E meno sa, più è tentata di immaginare la propria rapidità di penetrazione allo stesso modo. Problema di linguaggio? Una soluzione troppo rapida di questa formulazione del problema porta allo slogan ammiccante, alla frase ad effetto: al lavoro del copy-writer, insomma, più che a quello del pensatore.
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La rapidità della pubblicità commerciale – che lavora così bene nella formazione del sensus fidelium dei suoi potenziali clienti – è una copertura estetica del nichilismo occidentale (cercato e indotto come effetto collaterale della necessità di affidarsi, in un mondo totalmente privo di certezze). Il contenitore culturale per chiunque abbia qualcosa da vendere è pronto: se ci si infila rapidamente nella sua ospitale community, il vangelo potrà essere piazzato come ogni altro giusto prodotto.
Insegnare ad afferrare il passaggio del regno di Dio, «la priorità assoluta», è l’impresa della rapidità alla quale dobbiamo essere pronti (e insegnare a farlo). Perché «rapido», all’origine, è proprio quel passaggio del regno («come un lampo»). La riproduzione e l’ampliamento della Chiesa sono al servizio di questa fondamentale rapidità: ma non la possono sostituire, né passare al primo posto.
La rapidità nell’intercettare il regno di Dio, che viene dove e quando non lo aspetti, per aprirne i segni e i prodigi ai non ecclesiastici, a mio parere, è l’impegno – culturale, non catechistico – sostanzialmente inevaso anche dalla nuova teologia. Dovremo diventare più rapidi, in questo.
- Pubblicato su L’Osservatore Romano, 2 aprile 2025
Forse,la “RAPIDITÀ”è una tentazione diabolica.Fatta ,come tutte le seduzioni,per confondere.Gesù,il Figlio di Dio,l’Eterno,fuori dal tempo con il Suo messaggio contiene tutto il rempo,tutte le azioni.
Conoscere il “volto di Gesù”,quindi camminare ,accedere a Dio,forse vuol dire “uscire” da parametri mondani.O almeno starne il più possibile indipendenti,distaccati.
Il “Regno” di Gesù non è di questo mondo.I suoi valori,eterni,non sono alla moda,suscettibili al tempo.Ciò per quanto ne capisco e in base all’esperienza piccola mia.Ma ovviamente posso sbagliarmi.
Grazie per queste stimolanti riflessioni.
Pure noi cattolici abbiamo bravissimi predicatori, persone tecnologicamente ben preparate e pastori del gregge di Dio, capaci di restituire freschezza all’Evangelo, parlando la lingua di tutti i giorni.
Diciamo che i canti meravigliosi che Sequeri ha scritto e hanno accompagnato la nostra vita, hanno aiutato di più la chiesa di tutta la sua produzione teologica. Non ce lo fa un altro album in tarda età? A quanto pare il cantico dei cantici l’ha scritto un vecchio ed è meglio di quello scritto da un giovane.
IN quei canti c’è freschezza e testi originali che trasmettono il suo sincero amore per Dio.
E’ una emozione, qualcosa che ti tocca e ti affascina.
E’ proprio lì il problema della teologia e del magistero. Non tanto se è rapida o lenta. La chiesa con i suoi abiti rituali, le solenni dichiarazioni magisteriali, il palazzo del vescovo ecc…veicola l’idea di una tremenda pesantezza, cerebrale e colta, sempre con quella vena da bacchettona.
La chiesa deve essere una bella ragazza, attraente, fresca, giovane e un pò matta, alla mano, un pò ribelle, un pò di facili costumi anche (così giudicata dagli altri). E’ la sposa di Gesù non dei dottori della legge.
Ma una parola di freschezza può sortire dalla bocca di chi vive ed è circondato da un ambiente formale e così istituzionalizzato, super strutturato, che ha confuso il dogma con la sostanza ed è perfino colluso con i poteri forti sotto pretesto del bene delle anime?
Ciò non toglie che anche gli alti prelati possano essere sinceri nella esperienza di fede, ma l’ambiente ti ammazza e ti condiziona. Rovesciare il banco dei cambiavalute è l’unica opzione rimasta
Istintivamente concordo.
Ma perché questo “rovesciamento del banco” non può essere anche pensato, argomentato, fondato e scelto con la ragione oltre che con il sentimento?
Istintivamente d’accordo con te Giuseppe. Quando però cominci ad avere una certa età e, a fronte di decine di convegni, evidenze e proclami, nulla è mai veramente cambiato e non si intravede neppure la speranza di un cambiamento sostanziale nei prossimi decenni, perfino con un papa che è falsamente ritenuto progressista, una delle vie percorribili è una rottura. Anche perchè la maggioranza del giovane clero è tradizionalista…Chi ha subito gravi ingiustizie in ambito ecclesiastico percepisce la chiesa come un luogo fondamentalista e pericoloso per sè ed i propri cari. Il bambino non viene gettato via con l’acqua sporca se in quell’acqua già non respira più e se il bambino può vivere tranquillamente anche in un’altra placenta. Allontanarsi è il male minore, soprattutto se si ha già una esperienza spirituale forte la relazione con Dio non cambia, anzi può anche migliorare, te lo dico per esperienza. Chi si sente a proprio agio e condivide le modalità di azione e governo di questa istituzione fa bene a restare nella chiesa, ma non per tutti è così. Per alcuni i mali ecclesiastici sono le rughe di una madre che va comunque amata, per altri sono invece ferite ricevute da una madre snaturata, divenute così profonde da dover scappare per proteggersi e non perdere la fede in Dio.
Oggi non esiste piu’ una teologia, ovvero un “discorso su Dio ” ne’ rapida ne’ lenta ,esiste solo una antropologia della religione , ossia il trattare la fede religiosa come un qualsiasi altro fenomeno umano .
Il teologo si sprofonda nella trascendenza di Dio per poi riuscire a parlarne in termini umani . Gli odierni sedicenti teologi galleggiano alla superficie dei fenomeni storici contingenti , si limitano a descrivere come si comportano e cosa vogliono gli uomini che si dicono religiosi .
Punto per Sequeri: chapeau
Sono sempre più dell’idea che la teologia non sia la cosa più utile oggi a livello comunicativo. Serve una mistica sostenuta da una teologia solida e semplice ma che non abbia la presunzione di primeggiare. Occorre entrare dal cuore e non dal cervello. Gli ortodossi hanno parecchio da insegnare al riguardo.