
Portale in bronzo della Predigerkirche a Erfurt che ricorda il luogo di attività del teologo e filosofo Meister Eckhart
Si conclude in questi giorni l’iniziativa della Biennale di Venezia, che ha presentato, in due tornate (5-9 ed 11-15 marzo) il Progetto Speciale dell’Archivio Storico dedicato all’ Expositio sancti evangelii secundum Johannem di Meister Eckhart.
L’evento si è svolto nella splendida sede del Portego delle Colonne della Scuola Grande di San Marco, atrio del monumentale complesso cinquecentesco, conosciuto oggi come Ospedale Civile dei SS. Giovanni e Paolo. Noti attori hanno recitato brani del testo, parte in italiano ma parte anche in latino, accompagnati dai canti gregoriani del Coro della Cappella Marciana, mentre filosofi di fama europea, come il veneziano Massimo Cacciari e il tedesco Peter Sloterdjik, hanno tenuto conferenze.
Questo indica, ovviamente, che la cultura diciamo così ufficiale ha infine riconosciuto il valore filosofico e teologico di un personaggio a lungo dimenticato. Ancor più significativa è la partecipazione non solo del Patriarca di Venezia, monsignor Francesco Moraglia, ma anche del cardinale José Tolentino de Mendonça, Prefetto del Dicastero della Cultura e dell’Educazione della Santa Sede.
Ciò testimonia che la Chiesa cattolica restituisce ad Eckhart quel ruolo che i contemporanei gli avevano assegnato, chiamandolo appunto Meister, ovvero magister, Maestro.
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Circa sette secoli fa, il 27 marzo 1329, in Avignone, papa Giovanni XXII aveva infatti promulgato la Bolla In agro dominico, con la quale si condannavano come eretiche o sospette di eresia ventisei proposizioni tratte dalle opere di «un certo Eckhart, dei paesi tedeschi e, secondo quanto si dice, Dottore e Professore di Sacra Scrittura, dell’ Ordine dei Predicatori», che «ha voluto saperne più del necessario e… sedotto da quel padre della menzogna, che spesso assume le forme dell’angelo della luce… ha fatto crescere nel campo della Chiesa spine e zizzania… insegnando dottrine che oscurano la vera fede, ecc.».
La Bolla si conclude peraltro dicendo che «il sunnominato Eckhart, confessando alla fine della sua vita la fede cattolica sconfessò tutto quello che, da lui predicato o scritto, o insegnato nelle scuole, potesse indurre nell’animo dei fedeli un senso ereticale, o erroneo e contrario alla vera fede, sottomettendo sé stesso e tutti i suoi scritti e tutte le sue parole alla decisione Nostra e della Sede Apostolica».
Si chiudeva così, dopo la morte dell’imputato, un processo clamoroso, cui era stato sottoposto uno dei massimi esponenti dell’Ordine Domenicano, magister di Teologia a Parigi, così famoso che quel titolo gli è rimasto quasi come nome proprio: Meister.
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Sorvoliamo sul fatto che il papa avignonese che emise la Bolla era uno di quei “caorsini” – Jacques Duèse era appunto nativo di Cahors, nella Francia meridionale – contro cui Dante si scaglia, mettendo in bocca a san Pietro parole di fuoco a loro rivolte (cfr. Paradiso, XXVII, 58-59, e XVIII, 130-136).
Sta di fatto che la condanna ebbe l’effetto di far sparire il magistero eckhartiano dalla cultura religiosa ufficiale per secoli. In realtà però non del tutto, in quanto alcune delle principali idee del Meister continuarono a circolare, più o meno sotterraneamente, sia nei conventi della valle del Reno, dall’attuale Svizzera all’attuale Olanda, nei quali si era svolta la sua predicazione, sia anche tra i laici delle città, come Strasburgo o Colonia, ove aveva a lungo vissuto e insegnato.
Così, ad esempio, il suo confratello e discepolo strasburghese Johannes Tauler (Giovanni Taulero), difendendo apertamente il pensiero dell’«amabile maestro, che parlava dal punto di vista dell’eternità, ma veniva (mal) compreso da quello del tempo», predicò sermoni in puro spirito eckhartiano, che circolarono, prima manoscritti e poi a stampa, spargendo così semi che fruttificarono nei secoli seguenti, come ad esempio nei bellissimi versi del Pellegrino cherubico di Angelus Silesius (1624-1677).
Con l’età moderna, poi, il romanticismo e l’idealismo tedesco riscoprirono quei tesori della loro lingua e cultura rimasti a lungo semisepolti, tanto che furono riportate per la prima volta alla luce intere opere di Eckhart, come appunto la Expositio sancti evangelii secundum Johannem, che è la più rilevante di quelle sue in latino, destinate all’Università.
Molto lenta e faticosa è comunque stata la loro diffusione, perché da un lato la “mistica” era invisa alla cultura laica – positivista, marxista ecc. – e, dall’altro, Eckhart era pur sempre un autore sospetto, che proprio nel Commento al vangelo di Giovanni espone alcune delle sue principali tesi incriminate.
In effetti l’opera – che lo scrivente tradusse in italiano già nel 1992, poi ripresentò in nuova edizione, con testo a fronte, nel 2017 – più di ogni altra evidenzia il pensiero eckhartiano, anche perché il Quarto Vangelo è l’unico a proclamare la divinità del Cristo, lógos eterno, che era in principio e che si è fatto carne. Ed è infatti proprio al Prologo giovanneo e alla spiegazione del concetto di Lógos/Verbum che Eckhart dedica buona parte del suo Commento.
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È ancora nel Quarto Vangelo, che Gesù, parlando con la samaritana al pozzo di Giacobbe, afferma la realtà di Dio come Spirito, che non si adora né sul monte né nel tempio, ma solo in spirito e verità (cfr. Gv 4, 21-24) e promette che lo Spirito verrà, dopo che Gesù stesso se ne sarà andato, a condurre a tutta la verità (cfr. Gv 16, 7-13). Possiamo dire, in sintesi, che per Eckhart il vangelo di Giovanni è il vangelo della ragione (lógos) che si fa spirito (pneûma), il che significa testo in cui la grande eredità filosofica classica si incontra armonicamente col messaggio evangelico.
Proprio come il suo contemporaneo Dante, il Meister domenicano nutre infatti grande fiducia nella capacità della ragione umana, scintilla divina presente in ogni uomo: per cui si esprime sempre con espressioni di altissima stima nei confronti dei “maestri pagani”, fino al punto di dire, proprio nel Commento al vangelo di Giovanni, n. 185, che la Sacra Scrittura si accorda con ciò che i filosofi hanno scritto, dato che «Mosè, il Filosofo (ovvero Aristotele) e Cristo insegnano la stessa cosa, che differisce soltanto nel modo, cioè in quanto credibile, dimostrabile o verisimile, e verità».
Non a caso sono tratte dal Commento al vangelo di Giovanni alcune delle proposizioni censurate ad Avignone, come ad esempio che «tutto quello che la Sacra Scrittura dice di Cristo si verifica totalmente anche in ogni uomo buono e divino, dal momento che l’uomo buono, l’uomo nobile, è l’unigenito Figlio di Dio, generato dal Padre dall’eternità, e non ha niente di meno di quello che il Padre ha dato al Figlio suo unigenito».
Alla natura spirituale di Dio corrisponde la natura spirituale dell’uomo, che è unus spiritus, un solo spirito, con quello di Dio, ed ha la stessa natura del Cristo. Non v’è dubbio che queste affermazioni potessero suonare scandalose, tanto più che sono connesse con l’etica dell’“uomo nobile”, ovvero dell’uomo completamente distaccato, libero da ogni legame, anche da quelli di tipo religioso.
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Ben nota è infatti la preghiera di Eckhart: «Prego Dio che mi liberi di Dio» – davvero paradossale, se non si comprende che si sta dicendo che, per trovare il Dio vero, l’anima deve andare oltre ogni immagine esteriore di Dio, sempre condizionata dai luoghi, dai tempi, dalle circostanze che noi chiameremmo storico-sociali.
L’invito davvero fondamentale del Meister è infatti quello a trovare, al «fondo dell’anima», la nostra essenza spirituale, ben distinta da quella psicologica, mutevole ed accidentale.
Non meraviglia perciò che oggi, in un momento di grande, generalizzato disagio esistenziale, che le mille “scuole” psicologiche non riescono a combattere – anzi, sotto un certo profilo contribuiscono esse stesse ad alimentare – da più parti si riscopra il senso dell’insegnamento di quello che fu davvero, come dice Heidegger, non solo Lese-meister, ma anche e soprattutto Lebe-meister, ovvero maestro di vita, ben più che soltanto professore.