CEI-abusi: dare il giusto nome alle cose

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Sembra che la pluridecennale parabola degli abusi sessuali nella Chiesa cattolica stia tornando come a una sorta di punto zero.

Se i reportage del Boston Globe avevano aperto una falla nell’omertà, sistemica e complice, dell’istituzione ecclesiale e nell’incredulità attonita della società civile, negli anni seguenti, più costrette che per propria operosità virtuosa, tutta una serie di Chiese locali si era fatta carico di gettare una luce e di aprire indagini sugli abusi sessuali nei confronti di minori e di persone vulnerabili al loro interno. Comprendendo che, per fare questo, non potevano fare da sé.

Dapprima collaborando con commissioni pubbliche ad hoc (come la Royal Commission in Australia), poi affidando a commissioni esterne, corredate delle adeguate competenze in materia, uno scavo mirato in questo abisso oscuro della vita ecclesiale (come in Germania e Francia, solo per citare i casi più vicino a noi).

Lasciarsi dire la verità

Certo, non si è trattato di una parabola lineare: molti i tentennamenti, le inadeguatezze, e sempre forte la tentazione di fare tutto in casa – protetti da sguardi esterni, considerati inopportuni se non addirittura dannosi.

Salvo accorgersi poi che una interlocuzione e collaborazione con il mondo extra-ecclesiale era dirimente. Se non altro perché, mancando questa, iniziava a muoversi autonomamente lo stato per farsi carico di ciò che competeva anche alla Chiesa (come in Spagna).

Nonostante questo, uno sguardo diacronico può cogliere uno sviluppo che va dallo svelamento brutale a una presa in carico delle proprie responsabilità – aprendo i propri archivi e spazi a uno sguardo altro non pregiudicato.

Si è trattato di un’uscita dal segreto ecclesiale che circondava e proteggeva i crimini di abuso sessuale su minori e persone vulnerabili, validato dal fatto che esso veniva posto in mani diverse rispetto all’autorità che aveva esercitato, e continua a esercitare, la possibilità di un simile segreto. Chiese locali, queste, che lentamente apprendevano che il mondo poteva aprire loro scorci e processi evangelici che sarebbero, altrimenti, rimasti inaccessibili.

La via italiana

La posizione della CEI in materia rappresenta una cesura rispetto a questa storia: facendo la scelta di tenere saldamente nelle mani dei vescovi la barra della zattera che si muove nella tempesta degli abusi sessuali che sono accaduti e continuano ad accadere anche nella nostra Chiesa italiana.

Esercitando un potere selettivo episcopale, senza sguardo esterno di verifica, in merito alla documentazione a cui far eventualmente accedere i collaboratori chiamati a svolgere questo tipo di rilevazione interna. Anche il decantato rapporto a venire dei casi italiani giunti in sede di Dicastero per la dottrina della fede risponde a questo principio di esclusività episcopale.

Nella strutturazione della cosiddetta “via italiana”, poco ascolto si è dato a chi lavora accompagnando persone abusate nella e dalla Chiesa – e ancora meno si è ascoltata la parola spezzata delle vite segnate per sempre dalla violenza patita per mano di personale ecclesiale (preti o laici che siano).

Voci e parola che avrebbero potuto suggerire un approccio diverso, con le quali bisognava quantomeno confrontarsi e rendere ragione pubblicamente di scelte che non le seguivano. Inevitabile creare un ambiente complessivo dove risuona solo l’eco cacofonico di un monologo, in cui si crede di sentire una voce diversa che, però, non è che il ritorno lontano della propria.

Non occorre nessuna dietrologia, né tantomeno una svendita all’indole secolare del nostro tempo, per arrivare a questa conclusione.

Sono infatti le parole stesse del “Primo report della CEI sulla rete territoriale per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili” a metterlo nero su bianco: “L’obiettivo della rilevazione è stato quello di verificare lo stato dell’arte nel biennio 2020-2021 in merito all’attivazione del Servizio Diocesano o Inter-diocesano per la tutela dei minori, dei Centri di ascolto e del Servizio regionale per la tutela dei minori nelle Diocesi italiane. La presente rilevazione intende offrire uno strumento conoscitivo alla Conferenza episcopale italiana per implementare le azioni di tutela dei minori e delle persone vulnerabili nelle Diocesi italiane” (p. 4).

Committente e destinatario del Report coincidono perfettamente tra loro, indice di un circolo vizioso che rischia di tenere in scacco anche gli sforzi più sinceri dei nostri vescovi.

Che la cosa possa essere ammessa con tanto candore in un testo che dovrebbe essere la pietra miliare della “via italiana” nel farsi carico degli abusi sessuali su minori nella nostra Chiesa, rivela un “blind spot” strutturale dell’episcopato italiano in materia.

A questo si unisce un rigetto polemico di percorsi intrapresi da altre Chiese locali: “Noi non costituiremo alcuna commissione nazionale unica composta da persone che non sanno nulla della vita della Chiesa e che sono definite obiettive solo perché non sono vescovi, né preti o credenti (…). Questo metodo ha prodotto dei danni altrove e non deve essere imitato” (Mons. L. Ghizzoni).

A prescindere dal fatto che questa è una caricatura anche della stessa Commissione Ciase francese, non vi è proprio nulla da imparare dalle esperienze precedenti portate avanti dalle Chiese in altri paesi? E poi: quali sono i danni creati che la Chiesa italiana vuole evitare? E la preoccupazione per questi eventuali danni che una Chiesa può subire non dovrebbe passare in secondo piano rispetto al danno irreparabile che essa ha prodotto nei corpi e negli animi delle vittime di abuso?

Alcuni mesi fa, sempre il responsabile del Servizio nazionale della CEI per la tutela dei minori aveva detto, in un’intervista a La Croix, che “le cifre ci interessano poco, se non per fare della prevenzione. Vogliamo un’analisi qualitativa e non quantitativa, per conoscere le nostre forze e le nostre debolezze”.

Il Primo Report CEI

Al momento questa prospettiva rimane un desiderata, visto che il Primo Report è sostanzialmente una raccolta di dati statistici – dal quale, certo, si possono evincere punti di forza e punti deboli del sistema ecclesiale italiano di prevenzione e tutela, rimanendo però al momento esattamente su quel piano quantitativo che si afferma essere secondario.

Se tra i punti di forza possiamo trovare l’impegno formativo, soprattutto in ambiti pastorali, e quello di sensibilizzazione sul tema degli abusi sui minori, come le competenze professionali dei referenti e delle equipe diocesane, tra quelli deboli va segnalata soprattutto la carenza a livello dei “rapporti con associazioni non cattoliche, enti locali, associazioni e altri rappresentanti della società civile, sia dal punto di vista della comunicazione che organizzativo” (p. 25).

Insomma, si lavora e interagisce poco con lo spazio pubblico e le sue istituzioni – quasi che la autoreferenzialità dei vertici episcopali ricada, inevitabilmente, sulle stesse prassi sul campo.

Sempre a livello quantitativo, emerge dal Report anche un difetto di interlocuzione e collaborazione dei vari settori diocesani di tutela dei minori con i movimenti e le associazioni cattoliche, da un lato, e con la vita religiosa, dall’altro.

Soprattutto per quanto riguarda una progettualità comune e forme di intervento condivise fra dimensione diocesana e vita religiosa, la Chiesa italiana avrebbe molto da imparare da altre esperienze fatte all’estero – in primis da quella Francia che, con la sua Commissione Ciase, viene vista come il fumo negli occhi dalla CEI.

Se i Servizi diocesani e inter-diocesani attivati coprono tutto il territorio ecclesiastico nazionale, si contano a tutt’oggi 90 Centri di ascolto – che sono il luogo di incontro con le vittime e di possibile raccolta delle eventuali denunce all’autorità ecclesiastica.

A differenza dei Servizi, la sede della maggioranza dei Centri (74,4%) non è presso la Curia diocesana e la figura del responsabile è ricoperta da una laica/o (70 centri su 90, di cui 60 sono donne) – con competenze prevalenti in ambito psicologico, educativo e giuridico. L’83,3% dei Centri di ascolto è coadiuvato da una equipe con varie competenze professionali legate al tema degli abusi e della loro prevenzione.

“Nel biennio in esame il totale dei contatti registrati dai Centri di ascolto è stato pari a 86, di cui 38 contatti nel 2020 e 48 nel 2021” (p. 30). La maggioranza dei primi contatti avviene per telefono (55,2%) e tramite email (28,1%) – su questo bisogna tenere conto che si trattava di un periodo ancora segnato dalle restrizioni a causa della pandemia.

I motivi prevalenti di questi contatti sono stati: denuncia all’autorità ecclesiastica (51 casi); richiesta di informazioni (20 casi) e di consulenza (15 casi); sospetti (10 casi). Il numero di “presunte vittime” (cf. pp. 32-33) per il biennio 2020-2021 è di 89 persone (73 tra i 5 e 18 anni, 16 con età superiore).

Per quanto riguarda la “tipologia del presunte reato di abuso segnalato” (p. 32), si riportano comportamenti e linguaggi inappropriati (30,4%), toccamenti (26,6%), molestie sessuali (16,5%), rapporti sessuali (11,4%). “I presunti reati segnalati fanno riferimento soprattutto a casi recenti e/o attuali (52,8%) e, per la differenza, a casi del passato (47,2%)”. Di questi ultimi, che sono comunque quasi la metà delle segnalazioni, non si dà alcuna indicazione temporale rispetto al momento in cui sarebbe avvenuto l’abuso.

Per quanto riguarda il “profilo dei presunti autori di reato [si tratta di] soggetti di età compresa tra i 40 e i 60 anni, in oltre la metà dei casi” (p. 33) – una seconda coorte di un certo rilievo è quella che va da 18 ai 40 anni (27,9%). Nel complesso, la maggioranza è composta da chierici (44,1% dei casi), seguiti da laici (33,8%) e religiosi (22,1%). Anche in questo caso non è possibile risalire a dati informativi che riguardano casi di abuso avvenuti nel passato.

Di un certo rilievo è la percentuale dei laici coinvolti – apparentemente maggiore rispetto a quella censita in altri paesi (fatto dovuto, probabilmente, sia alla particolarità italiana dell’ampiezza di servizio dei laici nelle attività pastorali, sia al fatto che si tratta di attività di volontariato e, quindi, i soggetti coinvolti non ricadono sotto la categoria generica di “personale ecclesiale” usata in altri rapporti).

Per quanto riguarda l’accompagnamento delle vittime, i Centri di ascolto, “sulla base dei bisogni espressi da esse” (p. 35), hanno offerto le seguenti possibilità: informazioni e aggiornamenti sull’iter della pratica (43,9% dei casi); incontro con l’Ordinario (24,6%); percorso di sostegni psicoterapeutico (14%); accompagnamento spirituale (12,3%).

“Servizi di accompagnamento specialistico sono stati proposti anche agli autori dei presunti reati di abuso, a partire dall’inserimento in comunità di accoglienza (7 casi su 21), e da un percorso di accompagnamento psicoterapeutico (8 casi)” (p. 36) – nulla viene detto sui rimanenti 6 casi.

Per quanto doveroso possa essere questo servizio di sostegno nei confronti degli abusatori, stupisce il parallelismo di offerta di accompagnamento che accomuna tra loro vittime e predatori – e la mancanza di ogni indicazione di contatto con le autorità giudiziarie.

Quello che manca

È con questi dati quantitativi e statistici che si chiude sostanzialmente il Primo Report della CEI. All’onestà del suo titolo (che ha per oggetto la rete territoriale per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili), non corrisponde una veicolazione pubblica e mediatica ecclesiale che ha mirato invece a farlo passare come un Rapporto sugli abusi nella Chiesa italiana. Questo soprattutto se comparato a quanto prodotto fino a ora da altre Chiese locali in Europa e nel mondo.

Troppe le mancanze per fare di questo testo un vero e proprio rapporto. In primo luogo manca la voce e l’esperienza delle vittime. Un rapporto sugli abusi sessuali nella Chiesa italiana non si può costruire solo sui “dati di fatto reali” (Ghizzoni), ma deve includere, come struttura narrativa di fondo, anche i vissuti delle persone colpite dalla violenza degli abusi nella Chiesa e da quella della Chiesa nella sua gestione di essi fino a oggi.

Manca, poi, la storia – tutto schiacciato come è sul presente, considerato quasi come unica chiave di volta in vista di buone prassi di prevenzione –, e quindi ogni possibilità di periodizzazione del fenomeno degli abusi sessuali nella Chiesa italiana.

Mancando la storia, manca una lettura delle cause strutturali, delle mentalità congenite, delle prassi ecclesiastiche, che hanno reso possibili gli abusi, il loro occultamento, la complicità dell’istituzione con atti che sono reati – e, quindi, non possono essere limitati unicamente alla giurisdizione ecclesiastica.

Difficile immaginare una prevenzione efficace senza questa intelligenza della propria storia di colpa (anche penale), senza qualcuno che la metta di fronte alla CEI e a tutta la Chiesa italiana.

Chi accompagna persone vittime di abusi, e ancor più coloro che di essi hanno fatto esperienza nella Chiesa cattolica, sanno fin troppo bene della farraginosità e dei meccanismi di auto-tutela che proteggono l’istituzione, fino a legittimarla nella creazione dal nulla del falso quale affermazione della verità. Il rischio della Chiesa italiana è quella di raccontarsi una bella storia di assunzione di responsabilità, che però poco o nulla ha a che fare con i vissuti delle vittime.

Manca anche una percezione della ricaduta sulle vittime quando una Chiesa locale non dà il giusto nome alle cose: ossia, il patire una ulteriore e più drammatica violenza. Esattamente perché non le si è ascoltate nel costruire l’architettura della “via italiana” agli abusi nella Chiesa.

Che un report possa essere definito come insoddisfacente o insufficiente, fa parte del gioco delle cose – a cui si può mettere mano per migliorare procedure e prassi. Ma quando un Report viene sentito dalle vittime come una violenza reiterata, ci troviamo allora sulla soglia di un punto di non ritorno.

Davanti a tutto questo, la mancanza del presidente della CEI alla presentazione di un rapporto il cui destinatario è la stessa CEI, non è stata che contraddizione rivelatrice di un percorso avviatosi con troppo ritardo e che, per il momento, sembra aggrapparsi ai numeri per dire della singolarità del caso italiano rispetto alle altre Chiese che hanno intrapreso questo cammino.

Non resta che rimanere in attesa di qualcosa che meriti veramente il nome di “analisi qualitativa” – possibile solo a partire dalla narrazione dei vissuti delle vittime e da una seria indagine di tipo storico, giuridico e teologico.

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2 Commenti

  1. Lorenzo M. 28 novembre 2022
  2. Don Fabio Bellentani 26 novembre 2022

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