Trento: Covid, una lettera e le sue sfide

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La pandemia, che non è ancora alle nostre spalle, è un ammasso di eventi, tragedie, generosità, sospensioni mai sperimentate. Saranno i narratori a darle un significato e un senso. A questo compito, decisivo in ordine al futuro, partecipano molti.

Fra questi i pastori e i vescovi. Un esempio è la lettera pastorale di mons. Lauro Tisi, arcivescovo di Trento, pubblicata il 26 giugno e dal titolo: Occhi. Le mascherine hanno coperto i volti. Sono rimasti solo gli occhi.

Immaginare la ripartenza

Davanti agli interventi episcopali sarebbe interessante mettere a confronto le molte parole di questi mesi: dei politici, degli operatori ospedalieri, dei tecnici, dei giornali, della gente comune e, in genere, delle classi dirigenti. E cercare chi di loro, secondo le proprie responsabilità, fornisce l’interpretazione più convincente, più inclusiva e più creativa rispetto alla ripresa che tutti attendono. Senza restare vittime di chi tenta di rimuovere l’accaduto, di chi utilizza gli eventi per riprodurre il proprio potere, di chi vuole godere della valanga di soldi in arrivo, di chi rinuncia al proprio compito e dovere.

Con un linguaggio sobrio e compatto il vescovo di Trento scandisce il suo messaggio secondo alcune parole: ricucire; cibo; morire; inquieti; opportunità; sguardi. I punti focali della quindicina di paginette mi sembrano essere da una lato il morire (a cui risponde la risurrezione di Gesù) e dall’altro l’impotenza e le ferite subite dalle generazioni più giovani (a cui risponde la ricerca sinodale delle comunità cristiane in ordine al bene comune).

«Il progressivo ritorno alla normalità non riduca la pandemia a una pagina sgualcita nel libro delle nostre vite. Non lo possiamo fare per il rispetto e l’onore che merita chi, giunto a quella pagina, si è trovato ad interrompere la propria narrazione. Un lungo elenco di storie, recise in modo brusco: in Trentino il Covid si è portato via tante esistenze quanto un intero paese di medie dimensioni delle nostre vallate».

L’angoscia, la solitudine, la disperazione erano alleviate solo dagli occhi partecipi e stanchi dei sanitari. Le parole della Chiesa sono arrivate fioche, senza il vigore della vittoria sulla morte esperita dalla risurrezione di Gesù. «Il morire di Gesù è carico di una vita “altra”, della vita stessa di Dio, dove vivere è ospitare, fare spazio, includere l’altro». Solo così la morte può essere “sorella” secondo l’immagine francescana.

Le conseguenze sui più giovani

«I giovani continuano a pagare in modo drammatico, ma per lo più nascosto, le conseguenze della pandemia. Nelle indagine statistiche gli adolescenti dicono di sentirsi stanchi, incerti, preoccupati, irritabili, disorientati, apatici. Sono stati additati come i primi possibili untori. Saranno gli ultimi a trovare la garanzia di un vaccino».

«Quale opportunità stiamo lasciando alla loro conoscenza, alla loro creatività, al loro diritto di provare e anche di sbagliare? L’occupazione degli spazi è lo sport preferito dagli adulti. Pensano di essere insostituibili, non accettano di farsi da parte. Sono l’altra faccia del narcisismo diffuso». Se le comunità cristiane accetteranno il vento dello Spirito, se la ricerca sinodale non affonderà nella difesa dello status quo e delle istituzioni, se si accetteranno gli inevitabili momenti di tensione propri di ogni discernimento comunitario, esse, le comunità cristiane, porteranno fatti di Vangelo dentro il cammino dell’intera comunità civile.

Profumano di risurrezione le parole di Antonio Megalizzi, il giovane giornalista trentino, ucciso nell’attentato terroristico di Strasburgo (11 dicembre 2018): «Il tempo è troppo prezioso per passarlo da soli. La vita troppo breve per non donarla a chi ami. Il cielo troppo azzurro per guardarlo senza nessuno a fianco. Nulla muore e tutto dura in eterno».

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