Borsellino, cosa ne è stato?

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Nel giorno del ricordo, 31 anni e infinite e giuste commemorazioni dopo, un bilancio – anche storico – diventa inevitabile quando si ripensa all’eredità morale dei tanti caduti su campi che definire “di guerra” non è affatto esagerato. Come via D’Amelio a Palermo, il 19 luglio del 1992. È di domenica. Il tritolo delle cosche si porta via il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.

Basta poco a capire: come già qualche settimana prima a Capaci con Giovanni Falcone, l’ala stragista di Cosa Nostra fa sfoggio di un grande spiegamento di mezzi per mostrare un’inquietante capacità militare, eliminare nemici scomodi e mandare messaggi ad uno Stato che si vorrebbe tenere sotto schiaffo per ottenere vantaggi e privilegi.

Eppure, qualcosa di diverso avviene. In quel sangue di innocenti germoglia il seme di un’idea diversa, quella che poco tempo dopo – nel maggio del 1993 – troverà voce con Giovanni Paolo II.

Nei confronti della mafia, fino ad allora era rimasto prevalente, anche negli uomini di Chiesa, il linguaggio della denuncia civile, lo stesso parlato dalla società civile siciliana in risposta all’immagine feroce della mafia.

Nella Valle dei Templi, dopo la lettera inviata al Santo Padre proprio dalla moglie di Borsellino e in coda alla visita del Pontefice agli anziani genitori del giovane magistrato Rosario Livatino, egli pure vittima di mafia, il registro cambia. «Adesso – ricordava Cataldo Naro, all’epoca arcivescovo di Monreale – il Papa offriva alla Chiesa un linguaggio specificamente cristiano per tale rigetto. Dotava il discorso ecclesiale sulla mafia di categorie attinte alla grande tradizione cristiana».

Il segno di una svolta che non fu solo ecclesiale, ma anche civile e culturale, che rende gli uomini del disonore visibili in tutto il loro orrore, squarciando ogni velo di finzione

Oggi non c’è più dubbio: Cosa Nostra ha la forza di una religione, sebbene devota alle divinità del potere e del denaro e, per questo, in grado di nascondere dietro una cortina quasi mitologica la sua reale essenza e di attirare per questo a sé nuovi adepti, specie giovanissimi.

Le immagini sacre e le Bibbie trovate nei covi di latitanza, le processioni con gli inchini davanti alle case dei mammasantissima, persino i rituali di iniziazione, non sono più un paravento credibile. Al contrario, sono finalmente il segno evidente della finzione a lungo praticata per ottenere, con l’inganno, consenso sociale.

Certo: di fronte a tanti tentennamenti, a qualche calo di tensione, a volte anche davanti al materializzarsi di strade che sembrano portare in direzione quasi ostinata e opposta a quella tracciata col sangue, diventa scontato chiedersi cosa sia stato e cosa sia rimasto di quella stagione, e se ne sia valsa la pena.

Sorregge e conforta, però, l’esempio ancor vivo di tanti testimoni senza macchia. Il sacrificio di tanti servitori dello Stato, o il martirio di fulgide figure come padre Pino Puglisi, lasciano il re nudo: le innumerevoli strade e piazze trasformate in cimitero di innocenti sono, sotto diversi aspetti, il moderno scenario in cui, secoli addietro, si consumavano le esistenze dei cristiani vessati dai tiranni sordi alla Parola di Dio.

Per questo anche Falcone e Borsellino non possono essere considerati i protagonisti sfortunati d’una battaglia persa: le loro idee, la radicalità del loro impegno civile, la passione dell’agire e l’adesione agli ideali professati non sono stati cancellati neppure dalle bombe.

I due giudici siciliani, insieme a tanti altri esempi, restano dunque i modelli attuali di un servizio reso allo Stato, alla comunità e alle generazioni future, per la costruzione di città giuste, accoglienti, capaci di tutelare i deboli e di garantire il futuro ai figli. Un servizio reso nella libertà, al prezzo della vita: a noi come a quelli che verranno è richiesto di continuare a coltivare il terreno nel quale il buon seme è stato messo a dimora. Perché in fondo, come affermava proprio Borsellino, «la lotta alla mafia, il primo problema da risolvere nella nostra terra bellissima e disgraziata, non deve essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un momento culturale e morale, che coinvolga tutti e specialmente le giovani generazioni, fino a far rifiutare il puzzo del compromesso morale. Dell’indifferenza, della contiguità e, quindi, della complicità».

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