Da noi il “kirpan” è proibito

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In una società multietnica, la convivenza tra soggetti di etnia diversa richiede necessariamente l’identificazione di un nucleo comune in cui immigrati e società di accoglienza si debbono riconoscere. Se l’integrazione non impone l’abbandono della cultura di origine, in consonanza con la previsione dell’articolo 2 della Costituzione che valorizza il pluralismo sociale, il limite invalicabile è costituito dal rispetto dei diritti umani e della civiltà giuridica della società ospitante.

È quindi essenziale l’obbligo per l’immigrato di conformare i propri valori a quelli del mondo occidentale, in cui ha liberamente scelto di inserirsi, e di verificare preventivamente la compatibilità dei propri comportamenti con i principi che la regolano e quindi la liceità di essi in relazione all’ordinamento giuridico che la disciplina.

La decisione di stabilirsi in una società in cui è noto, e si ha consapevolezza, che i valori di riferimento sono diversi da quella di provenienza ne impone il rispetto e non è tollerabile che l’attaccamento ai propri valori, seppure leciti secondo le leggi vigenti nel paese di provenienza, porti alla violazione cosciente di quelli della società ospitante.

La società multietnica è una necessità, ma non può portare alla formazione di arcipelaghi culturali confliggenti, a seconda delle etnie che la compongono, ostandovi l’unicità del tessuto culturale e giuridico del nostro paese che individua la sicurezza pubblica come un bene da tutelare e, a tal fine, pone il divieto del porto d’armi e di oggetti atti ad offendere…

Proprio la libertà religiosa, garantita dall’articolo 19 invocato, incontra dei limiti, stabiliti dalla legislazione in vista della tutela di altre esigenze, tra cui quelle della pacifica convivenza e della sicurezza, compendiate nella formula dell’«ordine pubblico».

È quanto affermato dalla Corte di Cassazione penale, Sez. I, con sentenza n. 24084 decisa il 31 marzo 2017 e depositata il 15 maggio 2017.

Kirpan

Il caso esaminato dalla Cassazione

C’è un nucleo comune di regole nel quale società di accoglienza e immigrati si devono poter riconoscere. Ed è costituito dal rispetto dei diritti umani e della civiltà giuridica del Paese ospitante.

La pronuncia ha così confermato la condanna a un uomo di religione Sikh, sanzionato con un’ammenda di 2.000 euro, perché «portava fuori dalla propria abitazione, senza un giustificato motivo, un coltello della lunghezza complessiva di 18,5 centimetri, idoneo all’offesa per le sue caratteristiche».

La difesa dell’imputato aveva sostenuto che il possesso del coltello era giustificato dal credo religioso. Quel particolare tipo di pugnale infatti, il kirpan, rappresenta uno dei simboli della religione monoteista Sikh e, in questo senso, a essere invocato in chiave difensiva era stato l’articolo 19 della Costituzione, sulla libertà di confessione religiosa.

Una linea bocciata dalla Cassazione, con parole nette: «In una società multietnica, la convivenza tra soggetti di etnia diversa richiede necessariamente l’identificazione di un nucleo comune in cui immigrati e società di accoglienza si debbono riconoscere».

È vero che l’integrazione non ha come conseguenza l’abbandono della cultura di origine, e su questo punto è la sentenza a valorizzare un articolo della Costituzione, il 2, che valorizza il pluralismo sociale; tuttavia, il limite non può che essere costituito dal rispetto dei diritti dell’uomo e della civiltà giuridica della società ospitante.

E allora è «essenziale l’obbligo per l’immigrato di conformare i propri valori a quelli del mondo occidentale, in cui ha liberamente scelto di inserirsi, e di verificare preventivamente la compatibilità dei propri comportamenti con i principi che la regolano e quindi della liceità di essi in relazione all’ordinamento giuridico che la disciplina».

L’immigrato – mette in evidenza la Cassazione – deve essere conseguente con la scelta fatta di stabilirsi in un altro Paese, deve avere consapevolezza che i valori di riferimento saranno diversi da quelli di provenienza e che il loro rispetto non è oggetto di scambio. Non è possibile che l’attaccamento ai propri valori di origine conduca alla trasgressione delle leggi della società in cui si è liberamente scelto di vivere.

Società multietnica non significa arcipelaghi culturali confliggenti

Sostieni SettimanaNews.it«La società multietnica è una necessità – affermano ancora i giudici –, ma non può portare alla formazione di arcipelaghi culturali confliggenti, a seconda delle etnie che la compongono, ostandovi l’unicità del tessuto culturale e giuridico del nostro Paese che individua la sicurezza pubblica come un bene da tutelare e, a tal fine, pone il divieto del porto d’armi e di oggetti atti ad offendere».

Non vengono, in questo modo, posti ostacoli alla libertà di religione. A confermarlo è proprio una corretta lettura dell’articolo 19 della Costituzione che prevede la legittimità di limiti, per esempio, per ragioni di ordine pubblico.

Coerente è anche il riferimento giuridico a quanto avviene all’estero.

La Convenzione dei diritti dell’uomo ammette limiti, oltre che per ordine pubblico, anche per la salute e la morale. L’art. 9 recita testualmente: «La libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo può essere oggetto di quelle sole restrizioni che, stabilite per legge, costituiscono misure necessarie in una società democratica, per la protezione dell’ordine pubblico, della salute o della morale pubblica, o per la protezione dei diritti e della libertà altrui».

La giurisprudenza della Corte di giustizia europea si muove anch’essa su questa linea, ammettendo, nel caso del velo islamico, una compressione della libertà di manifestazione religiosa, se l’uso di quella libertà va a confliggere con altri diritti.

Sbarramento invalicabile per i reati ad alta offensività

Quanto affermato dalla Suprema Corte, con riferimento alla usanza Sikh di portare il kirpan, non costituisce una novità, soprattutto in presenza di reati culturalmente motivati a più alta offensività.[1] Cioè di quei reati che configgono irrimediabilmente con i principi cardine del nostro ordinamento, come la garanzia dei diritti inviolabili dell’essere umano, la pari dignità sociale e l’eguaglianza senza distinzione di sesso, razza, lingua, religioni, condizioni personali e sociali, la tutela dell’integrità psico-fisica e il pieno sviluppo della persona umana, la dignità della persona anche nella sua dimensione sessuale.

Non vi è ombra di dubbio che rientrano tra i reati culturalmente motivati a più alta offensività quelli riconducibili alle seguenti categorie delittuose: violenze in famiglia, in particolare maltrattamenti, realizzati in contesti culturali caratterizzati da una concezione patriarcale dei rapporti familiari in totale distonia con quella diffusa in Italia, che è, al contrario, fondata sulla parità giuridica e morale dei coniugi e dei figli; reati a difesa dell’onore, commessi in quelle comunità in cui il concetto dell’onore, personale, familiare o di gruppo è così vividamente sentito da spingere a vendicare «col sangue» un’offesa subita (vedi i casi in cui uomini musulmani hanno ucciso le proprie mogli o le proprie figlie dopo averne scoperto, rispettivamente, il tradimento o una relazione ritenuta indegna di approvazione ai sensi della legge islamica); reati di riduzione in schiavitù a danno di minori, commessi da soggetti che invocano a propria scusa e/o giustificazione le loro ataviche consuetudini concernenti i rapporti adulti-minori; reati contro la libertà sessuale, le cui vittime sono le donne di quelle comunità islamiche alle quali la cultura d’origine – per il solo fatto di essere donne – non riconosce una piena libertà di autodeterminazione in ambito sessuale e spesso impone loro di subire rapporti sessuali senza consenso; mutilazioni genitali femminili, ovvero pratiche ablatorie ammesse o addirittura imposte dalle proprie convenzioni sociali o tradizioni culturali.

Rispetto a questi reati, si registra un orientamento della giurisprudenza di legittimità, decisamente consolidato, che considera l’assoluta irrilevanza del retaggio culturale di un soggetto nel caso in cui ci si trovi di fronte a condotte contrarie ai principi cardine del nostro ordinamento. Tale principio costituisce uno sbarramento invalicabile contro l’introduzione, di diritto e di fatto, nella società civile, di consuetudini, prassi, costumi che si propongono come antistorici a fronte dei risultati ottenuti, nel corso dei secoli, per realizzare l’affermazione dei diritti inviolabili della persona.

La novità della sentenza del 15 maggio sembra essere costituita dall’affermazione secondo la quale tra gli interessi di rango costituzionale da tenere in adeguata considerazione in un contesto di società multietnica nonché multireligiosa vanno annoverati anche quelli relativi alla sicurezza, all’ordine pubblico e alla pacifica convivenza.


[1] Cf. SettimanaNews.it 30/1/2017.

 

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