Tra Summorum pontificum e Kreuzweg

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Dopo gli eventi di fine giugno e primi luglio – intervista dei lefebvriani che chiudono a Francesco, conferenza a Londra del Card. Sarah e comunicato della Sala stampa della Santa Sede sul tema, con la esplicita richiesta di «non usare più l’espressione “Riforma della riforma”» – il segretario della Commissione “Ecclesia Dei” ha rilasciato a fine luglio un’intervista ad una rivista tedesca dalla quale emergono con evidenza una serie di questioni che meritano attenzione.

Il Concilio Vaticano non è un superdogma pastorale

Nella sua intervista, mons. Pozzo, di fronte alla difficoltà di un’accettazione del Concilio Vaticano II da parte della Fraternità San Pio X (FSPX) afferma: «Il Concilio non è un superdogma pastorale, ma fa parte dell’intera tradizione e dei suoi insegnamenti permanenti. […] Mentre la tradizione della Chiesa continua ad evolversi, non è mai nel senso dell’innovazione, che sarebbe in contrasto con quello che esiste già, ma piuttosto verso una comprensione più profonda del depositum fidei, il patrimonio autentico della fede. Tutti i documenti della Chiesa vanno interpretati in questo senso, inclusi quelli del Concilio. Questa premessa, assieme all’impegno per la professione di fede, il riconoscimento dei sacramenti e la supremazia papale formano la base per la dichiarazione dottrinale che sarà sottoposta alla Fraternità per la firma. Sono questi i requisiti con i quali un cattolico può essere in piena comunione con la Chiesa cattolica».

Dopo questa risposta nasce, evidentemente, la curiosità di sapere meglio che cosa intenda mons. Pozzo. Alla domanda se la Fraternità non debba più recepire tutte le dichiarazioni conciliari, inclusi i testi riguardanti l’ecumenismo e il dialogo inter-religioso, l’arcivescovo ha risposto: «La Fraternità si impegna alle dottrine definite e alle verità cattoliche che sono state confermate dai documenti conciliari». Porta come esempio la «natura sacramentale dell’episcopato (…) oltre alla supremazia papale e del collegio dei vescovi assieme al loro presidente, così come fu stabilito nella costituzione dogmatica Lumen gentium e interpretato nella Nota explicativa prævia, richiesta dalla massima autorità».

«La Fraternità considera problematici vari aspetti di Nostra ætate, riguardanti il dialogo inter-religioso; la dichiarazione Unitatis redintegratio riguardante l’ecumenismo; Dignitatis humanæ, la Dichiarazione sulla libertà religiosa; oltre a varie questioni che riguardano il rapporto del cristianesimo con la modernità», ha aggiunto.

Pozzo ha ribadito che i diversi documenti del Vaticano II hanno un peso dottrinale differente. «Tuttavia, queste non sono dottrine della fede», ha specificato, «e non sono neanche affermazioni definitive. Sono piuttosto dei suggerimenti, delle istruzioni, delle linee guida orientative per la pratica pastorale. Questi aspetti pastorali possono essere discussi per ulteriori chiarimenti dopo il riconoscimento canonico».

A mons. Pozzo è stato domandato poi: «Come è arrivato il Vaticano alla decisione che i diversi documenti del Concilio abbiano diversi valori dogmatici?».

La sua risposta: «Non è stata una conclusione nostra, ma era un fatto già inequivocabile all’epoca del Concilio. Il 16 novembre 1964 il segretario generale del Concilio, cardinale Pericle Felici, dichiarò: “Questo Santo sinodo definisce vincolante per la Chiesa solo quel che è specificatamente dichiarato tale in termini di fede e di morale”. Solo i testi che sono stati specificatamente dichiarati vincolanti dai padri conciliari lo sono. Non è “il Vaticano” che lo ha deciso, è scritto negli Atti del Vaticano II».

Tre domande al segretario mons. Pozzo

La sequenza delle affermazioni, così come riportate dalla stampa, suscitano non solo perplessità, ma un’evidente preoccupazione. Se colui che dirige questi incontri non ha chiare alcune delle acquisizioni fondamentali del Concilio Vaticano II, come potrà condurre adeguatamente la trattativa? Per questo considero utile sollevare tre questioni.

a) Utilizzando una dichiarazione secondaria del segretario del Concilio del 1964, mons. Pozzo pensa di poter scavalcare i discorsi inaugurali e conclusivi del Concilio, dove ben due papi diversi – Giovanni XXIII e Paolo VI – affermano inequivocabilmente che non si può trattare il Concilio Vaticano II con lo stesso metro dei concili precedenti. Poiché la sua “natura pastorale” impone di leggere la sua autorità con criteri diversi da ciò che è “definito dogmaticamente” e quindi vincolante secondo la logica del dogma. Se mons. Pozzo imponesse al Concilio il criterio di “autorità” della tradizione pre-conciliare, cadrebbe immediatamente nella logica di Marcel Lefebvre, che fin dall’inizio ha voluto considerare il Concilio Vaticano II come “non vincolante” sul piano liturgico, ecclesiologico, biblico, giuridico, spirituale, ministeriale, nel rapporto con il mondo e con la tradizione. Con questo errato “strumento di mediazione” si lascia semplicemente definire la questione alla controparte. Si accetta che la controparte imponga le sue categorie. Non si dovrebbe, invece, essere convinti della “novità conciliare”, piuttosto che “negarla a priori”, come fa Pozzo?

b) La distinzione che viene proposta tra contenuto dogmatico impegnativo e forma pastorale non impegnativa dimentica che tutto il Concilio si colloca sul secondo livello ma con una diversa pretesa di autorità. Questa impostazione, se non anticonciliare, è già di per sé preterconciliare. Rende una “quantité negligeable” non solo la riforma liturgica ma l’intero Concilio. Se nel Concilio Vaticano II io dimentico il “metodo pastorale”, lo tradisco profondamente e lo sfiguro, rendendolo semplicemente “accessorio”. Se per il riconoscimento canonico faccio scivolare tutte le questioni “pastorali” in secondo piano, posso concedere il riconoscimento indipendentemente dal Concilio. E questo, francamente, appare non solo paradossale, ma pericoloso. Non perché si “ceda” all’esterno, ma perché si “compromette” l’interno.

c) In terzo luogo, non vorrei neppure che si chiedesse ai lefebvriani più di quello che sono disposti a concedere gli stessi membri della commissione Ecclesia Dei. Tanta insistenza sul riconoscimento della autorità del papa non è una affermazione troppo rischiosa? Quanti membri di Ecclesia Dei difenderebbero, ad esempio, Amoris lætitia? E Evangelii gaudium? E Laudato si’? Essi considerano questi documenti come magistero vincolante? O pensano che possa essere sufficiente citarne una frase in quaresima per essere “cattolici”? La questione, in questo caso, non mi sembra il riconoscimento canonico della FSSPX ma la rappresentatività ecclesiale e magisteriale della Commissione Ecclesia Dei. In altri termini: vorrei dire che in rapporto al riconoscimento dell’autorità suprema del papa non mi sentirei troppo sicuro nello stabilire da quale lato del tavolo si incontri il problema più grave.

Un esempio liturgico, per spiegarmi meglio

Nella discussione sulle posizioni espresse da mons. Pozzo emerge, con pieno diritto, la preoccupazione per un riconoscimento che non assumesse Nostra ætate e Dignitatis humanæ come criteri per la riconciliazione. Se i fratelli giudei potessero essere ancora definiti “perfidi” e se la libertà di coscienza potesse ancora essere definita una “perversione”, quale comunione cattolica avremmo realizzato? Ma vorrei ora spostare l’attenzione su qualcosa di più ordinario e consueto nella esperienza cattolica, ossia sulla messa. Un lettore distratto della tradizione conciliare che leggesse Sacrosanctum concilium solo con gli occhiali della vecchia dogmatica potrebbe trascurare con disinvoltura – quasi stendendo le gambe sotto la scrivania e fumando tranquillamente il suo sigaro – tutta la riforma liturgica. Ma in SC tutto ciò che deve diventare oggetto di conversione pastorale è la ricchezza biblica, l’omelia, la preghiera dei fedeli, l’unità delle due mense, la lingua volgare, la concelebrazione e la comunione sotto le due specie. Con il criterio di mons. Pozzo tutto questo diventa trascurabile, e conta solo ciò che il Concilio Vaticano II semplicemente presuppone come orizzonte acquisito e su cui non c’è problema.

È evidente come il criterio presentato da mons. Pozzo garantisca solo chi non vuole accettare il Concilio Vaticano II, e per questo deve essere apertamente messo da parte. Non è strumento per favorire la riconciliazione, ma per procurare da un lato un “accordo formale” all’esterno, e dall’altro per promuovere una “riforma della riforma” all’interno. Non produce pace, ma guerra.

La pretesa di usare “Summorum Pontificum”
come criterio per interpretare il Vaticano II

In realtà dobbiamo ricondurre anche le parole di mons. Pozzo alla “inerzia curiale” di un teorema che dal 2007 è entrato in alcuni ambienti ecclesiali, ha guadagnato qualche consenso e ha alimentato anche qualche piccola illusione. Perché questa idea di una “riduzione del Vaticano II” ad un “concilio minore”, ad una sperimentazione per elites, ad una palestra di teologi senza popolo, si è alimentata con il motu proprio Summorum pontificum che, secondo alcuni, introduceva una “relativizzazione del Vaticano II”, rimettendo in vigore tutto il vecchio, come se nulla fosse stato. L’idea che questo si potesse fare non solo con la liturgia, ma anche con l’ecclesiologia, con l’esegesi, con la spiritualità, con la formazione dei preti, con la considerazione per i laici, con il ruolo delle donne, con il rapporto con il mondo, ha preso qualche respiro e si è fatta sentire. A dire il vero non ha mai saputo prendere figura culturale seria e forte. Ma nella chiacchiera di curia e nell’autoritarismo di qualche profeta di sventura non ha risparmiato colpi. Ora pretenderebbe di essere anche “criterio” di riconciliazione con la FSSPX. Bisogna invece ribadire, secondo le intenzioni esplicite – anche se forse troppo ingenue – di Benedetto XVI, che Summorum pontificum non è una nuova regola per intendere il Concilio, ma solo un’eccezione per favorire la riconciliazione con alcuni. Un rito straordinario che non sostituisce l’ordinario e che non fonda alcuna “riforma della riforma”.

Un piccolo consiglio: guardare con attenzione
il film Kreuzweg di D. Brueggemann

Nel viaggio di ritorno da Cracovia, papa Francesco, rispondendo ad una domanda sul “terrorismo”, ha ricordato che il fondamentalismo è presente anche «tra di noi». Il fondamentalismo lefebvriano resta motivo di “afflizione” per la Chiesa. La Commissione stessa che se ne occupa si intitola Ecclesia Dei adflicta! L’afflizione, però, non è il Concilio riformatore, ma lo scisma tradizionalista! Per questo credo che farebbe bene alla Commissione che se ne occupa alzare lo sguardo dalle carte e dai documenti predisposti per una intesa, e guardare alla realtà. Anche a quella realtà che ci viene restituita con tanta forza dai film. Papa Francesco ha detto tante volte di aver imparato molte cose al cinema. Per questo vorrei suggerire ai membri della Commissione Ecclesia Dei, e anzitutto al suo segretario, di guardare il film Kreuzweg, di D. Brueggemann. È la storia del dramma di una famiglia lefebvriana. Storia di una ragazza, dei suoi genitori e del suo parroco, tutti rigorosamente tradizionalisti. Nel film si vedono tante cose impressionanti: un’agghiacciante lezione di catechismo, un’allucinante penitenza sacramentale, una cresima con svenimento, una spiritualità disumana, una rigidità senza limiti, un disprezzo per la Chiesa conciliare e per la realtà “altra”… Ecco, forse guardando quel film i membri della Commissione potrebbero comprendere meglio la questione che cercano di risolvere e la delicatezza delle questioni in gioco. E non è neppure detto che qualcuno, immergendosi nelle sequenze eleganti del film, non possa scoprire, con una certa sorpresa, che su quel film sta scritto, con lettere di fuoco: “de te fabula narratur”.

Pubblicato il 1 agosto 2016 nel blog: Come se non

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