50 anni di prete e di Chiesa

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Pubblichiamo questa lettera di memoria, affetti e fede che p. Angelo Cupini ha scritto agli amici per i suoi 50 anni di messa (24 settembre 2016). Missionario clarettiano, fondatore della comunità di via Gaggio (Lecco) ora Casa del Pozzo, ha dapprima lavorato con i tossicodipendenti e ora con i minori migranti e giovani in difficoltà. È stato provinciale del suo ordine e ha lavorato a lungo nel CNCA (Coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza). La sua storia di prete di strada permette di rivedere uno spaccato di Chiesa italiana e di vita civile del nostro paese.

Diventare prete

Nel “ricordo” della mia ordinazione sacerdotale, avvenuta a Roma il 24 settembre del 1966, avevo scritto: prete per il servizio degli uomini. Non immaginavo quello che la vita mi avrebbe offerto. Per trentacinque anni continui ho condiviso la vita con giovani con problemi di droga, di prostituzione, di difficoltà relazionali, abitando e lavorando con loro, assistendoli nel momento della partenza, riconciliandoci con il passato, aprendo sogni e desideri sul futuro. Le loro vite sono entrate prepotentemente nella mia; la mia umanità si è dilatata fino a diventare familiare di ognuno di loro. Mi hanno fatto passare da un sacerdozio creduto, amato e costruito secondo canoni delle spiritualità istituzionali a un processo che mi ha tolto tutto e mi ha costretto ad una rialfabetizzazione, giorno dopo giorno.

Il lavoro e l’economia, la tavola e il servizio, la morte e la vita, la fecondità e la tristezza hanno ritessuto tutta la mia vita.

Mi sono ritrovato sempre “fuori posto” secondo gli schemi offerti, sempre al confine. Mi sono impegnato a non fare del confine un luogo omologato ma uno spazio di frontiera, di passaggio, di incontro, di riconoscimento. Ho imparato a leggere i piccoli passi e i frammenti di eucaristia (raccogliete gli avanzi come ha chiesto Gesù) nel servizio di donne affaccendate attorno a tavole frequentate da figure non pratiche di culto; tavole della gioia e della speranza, della festa per un figlio che ritorna, spesso silenziose per l’attesa di chi se ne è andato.

Ho pensato, come Hetty Hillesum, che l’unica cosa che potevo fare era quella di offrirmi come «campo di battaglia» dove i problemi degli amici potessero trovare ospitalità e non pre-giudizio, un luogo fecondo dove le loro battaglie potessero placarsi; ho offerto il mio spazio interiore, senza sfuggire, sperimentando un percorso di grazia.

Fare casa

Se penso al mio sacerdozio, lo sento aperto all’amicizia con gli uomini; questa amicizia ha aperto la porta alla giusta relazione con Dio, al suo sogno di fare casa con tutti e di abitare in ognuno e di sentirsi abitato. Il testamento di don Lorenzo Milani è tutto mio: «Caro Michele, Caro Francuccio, cari ragazzi… Ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze…».

Con loro e attraverso loro ho rivissuto la riconciliazione, il perdono e l’incontro con il mistero della morte, anche con quelli che si sono tolti la vita; un’affermazione tremenda della vita stessa. Devo tutto a loro.

Oggi continuo a dividere questa avventura con adolescenti di ventisette paesi del mondo, con musulmani, con non praticanti, con difficilmente credenti.

La vita di prete è diventata ancora più essenziale, è scesa nei sotterranei dell’umanità dove tutti abbiamo le radici ma non ancora le parole per rivelarcele.

I segni sono così poveri e quotidiani da tradursi solo nel resistere contro il male, nel cercare insieme parole silenziose che nutrano. Guardo negli occhi queste nuove generazioni soggette al trasmigrare da altri mondi, che si misurano con difficoltà tremende, con fatiche, solitudini e abbandoni e penso al passaggio di grazia tra Dio e loro, tra tutti noi insieme, tra noi e Dio per riconoscerlo nei momenti difficili dove il dono reciproco si esprime nella testarda presenza fatta di fiducia, di sensibilità alla condivisione, di intelligenza dello sguardo, di umiltà della ricerca, di desiderio di un bene.

Sperimentiamo la vulnerabilità di un Dio che si è fatto carne umana. Io sono in bilico a raccogliere il mio essere prete che confessa E se Dio non mi aiuterà più, allora sarò io ad aiutare Di  (Hetty Hillesum). Su tutta la superficie terrestre si sta estendendo piano piano un unico grande campo di prigionia e non ci sarà quasi più nessuno che potrà rimanerne fuori. È una fase che dobbiamo attraversare.

Essere creatura

Sento di essere nell’ultima stagione della vita. Ho sempre più vivo dentro di me il frammento del salmo 37 (36): «Sta’ in silenzio davanti a Dio e spera in lui». Il gesuita Pio Parisi dice che questo è il versetto con maggior carica rivoluzionaria che esista. Sto provando a capire questa carica; quello che ho afferrato è il legame con la mia creaturalità, sperimentata come unico spazio di dialogo e di relazione.

Mi pongo frequentemente le domande: chi sto diventando attraverso le tante cose vissute? e che cosa ci sono stato a fare al mondo? La risposta dice di una ricerca di senso attraverso l’esperienza del limite, della vulnerabilità.

La domanda di autorealizzazione chi sono? da molto tempo è stata sostituita da cosa devo fare? Rispondere all’imperativo tu devi fa riscoprire qualche frammento sul chi sono.

È radicata in me la coscienza di essere in debito con tutti.

Da questa condizione di creatura, che si sente carica del male, prorompe il grido, inizio della salvezza, perché Dio ascolta il grido degli oppressi, come documenta la Bibbia.

La passione per Dio e per gli uomini

La passione per l’umanità mi fa sperimentare un’appartenenza alla radice da permettere di superare i confini delle culture e delle diversità.

Mi riscopro a contemplare l’umanità nel suo quotidiano, nelle storie di fatiche e di gioia; mi sento di poter fare casa con tutti, parte di uno stesso popolo. Questo riconoscimento sottolinea la vicinanza con gli altri, oltrepassando le differenze.

Il compito che sento più profondamente mio in questo tempo è quello di aiutare Dio a mettersi fuori dal recinto delle appartenenze.

Le religioni, come la vita di ognuno di noi, falliscono quando pensano di avere in mano il libretto di istruzioni per conquistare Dio e il divino o semplicemente l’altro che è di fronte a noi. La conquista di Dio, della sua protezione o lo scambio contrattuale con lui per avere un ricambio protettivo non ha nulla di religioso, tanto meno della sorpresa del Dio di Gesù Cristo. Spesso è un contratto sottilmente mafioso, che si esprime nel potere sull’altro. Conquistare – lo usiamo nel linguaggio delle relazioni umane – è fare dell’altro l’oggetto per un nostro possesso.

L’elemento che sento prioritario in me è quello di lasciarmi sorprendere dall’altro, da Dio, misterioso pellegrino o mendicante della nostra umanità.

Questa chiave esistenziale è la fonte dalla quale esce l’acqua che disseta il cuore e ci porta nella magia della nostalgia e ci svela il più profondo e misterioso di noi.

Spiritualità e politica

Nello stare in silenzio di fronte a Dio sento accentuata la solitudine e la fatica di rinnovare uno sguardo collettivo che coniughi spiritualità e politica; sento che la vita si deve rigenerare in una condizione di ascolto “autorevole”, cioè fondante. Per essere adulti, sia come persone sia come associazioni, dobbiamo maturare la capacità di interrogarci, di lasciarci interrogare e di offrire risposte.

Dove sono ora

Ritorno per un momento al tema del silenzio e del tempo che sto vivendo; definisco la mia posizione come quella di chi c’è perché gli altri possano esserci e fare.

Mi sono chiesto quale sia la vitalità di questo momento, cioè quale sia la capacità di essere custodi del passato e generatori del futuro; penso quando sappiamo far abitare la vita nell’anima e nel corpo e ci lasciamo toccare dalla vulnerabilità collettiva (abbiamo la vocazione di guaritori con la coscienza e la sofferenza delle proprie ferite) e, al tempo stesso, sappiamo attingere al pozzo della bellezza e dell’attesa.

Penso allora che la mia missione educativa (di trasmettere quanto ho ricevuto) e pedagogica sia quella di rintracciare tra le pieghe delle fatiche della gente – le tante persone che incontro – le tracce di una fede elementare, quella che Gesù dichiarava nelle persone che chiedevano aiuto: «Donna, la tua fede ti ha salvata» (Mc 5,34).

Persona e/o ruolo

Dentro questo processo mi è capitato di essere eletto superiore provinciale del mio Istituto, quindi ho anche sperimentato la responsabilità di gestione e il ruolo di autorità. Ci vuole sempre molta simpatica autoironia per pensare che non si viene eletti per meriti e competenze (un saggio confratello alla notizia della mia elezione ha esclamato: mai caduti così in basso!).

Un maestro di teologia oltre che di vita, Carlo Molari, mi ha offerto gli indicatori per vivere questo rapporto tra ruolo e persona nella logica evangelica richiamandosi al compimento della nostra vita.

Cosa ci chiederà la morte?

– aver consolidato la propria identità al punto da saper abitare il proprio nome senza dover ricorrere a riferimenti esteriori;

– aver imparato ad amare in modo autentico, così da interiorizzare gli altri senza possederli;

– e in modo oblativo da sapersi donare interamente senza rimpianti;

– aver acquisito un distacco tale dalle cose da saper partire senza portare nulla con sé;

– infine, di avere imparato a fidarsi così della vita da saperla perdere per ritrovarla (Carlo Molari, La vita del credente, LDC, Torino 1996, pp. 81-82).

La conclusione l’ho tradotta per me in abitare il proprio nome e non la carica che si ricopre.

Essere sale e lievito

Per contaminazione si vive o, come dice Martini, per fermentazione si cresce e ci si trasforma.

Il ruolo personale, delle comunità, di un istituto non è legato tanto alle proprie definizioni ma alla crescita e sviluppo della coscienza collettiva che si interroga su cosa ci stiamo a fare in un territorio; forse solo a far crescere amicizia, come ci ha consegnato una sera padre Gilles, il parroco del monastero di Tibhirine, dicendoci il senso profondo della piccolissima Chiesa cattolica algerina: amicizia come fine e non come mezzo.

Chi stiamo diventando, abitando e vivendo in questo contesto, in questo tempo, in queste difficoltà?

Forse allora, più che avere una grammatica o una regola, bisogna diventare noi grammatica e regola, misura per il tempo che si vive.

Se siamo sale o lievito, il nostro destino vocazionale è quello di scomparire. La funzione del sale è dare sapore, quella del lievito far fermentare: non importa molto (e non lo si è fatto per millenni) descrivere la loro specifica identità (chimica), interessa il compito che svolgono, la parabola che disegnano mescolandosi e dissolvendosi in altro. Quel che conta è la funzione svolta, nella logica del gettarsi e scomparire.

Quando diventiamo parabole saranno i contesti in cui si opera a riconoscere e descrivere, non l’identità ma il preciso ruolo svolto.

Come istituti o piccole realtà dovremmo preoccuparci di far fermentare i tempi che viviamo, di insaporire il quotidiano di molti e non preoccuparci della propria perfetta definizione.

Solo dopo, quando l’evento ci ha preceduto e lì ci siamo giocati come parabole, ci sarà dato di intravedere un contorno di identità, solo di spalle e in controluce (Es 33,18-23), perché lo sguardo faccia a faccia con l’identità ci abbaglia, lo confondiamo con lo splendore – che invece dà giusta luce alle persone e alle cose – e non vediamo nient’altro.

Compagni di vita

La mia generazione che frequentava le aule universitarie durante il Concilio sta ritrovando in questi ultimi tre anni le connessioni con quanto avevamo ascoltato incantati da Giovanni XXIII: i poveri. Abbiamo vissuto cinquant’anni spesso al buio, testardamente aggrappati alla fiducia, sempre con la richiesta a doverci dichiarare di fronte alle scelte che andavamo compiendo; spesso siamo stati vissuti con sospetto. Ora nel raccogliere i giorni della fatica siamo inondati da una grande pace e da una grande speranza; siamo in un tempo inedito ma di questo tempo conosciamo la fragilità, la durezza e il desiderio; una stupenda e drammatica scena temporale e terrena come ha scritto nel suo testamento Paolo VI.

Nessuno di noi osava sperare il tempo che stiamo vivendo oggi con papa Francesco.

La venuta di papa Francesco ha permesso al nostro fiume carsico di rompere la crosta delle strutture e di far uscire la polla d’acqua. Acqua per la sete del popolo che si è sentito riconosciuto come soggetto, come terminale della Parola e della spiritualità della re-esistenza.

Il travaglio delle nostre vite ha trovato una dichiarazione di riconoscimento; le parole che ascoltiamo ci sono familiari perché masticate nello scorrere dei giorni divisi con il popolo; un linguaggio che sta diventando ecclesiale, perché nasce dal cuore della gente.

In questi quarant’anni ci sono state profezie dette da donne e uomini, ma soprattutto da piccoli collettivi di persone che, nelle varie esperienze, hanno anticipato pensieri e prassi; hanno aperto una tradizione e un magistero, quello di restare… di lasciarsi sciogliere come il sale prima di dare sapore di vita.

Lo stile con il quale vivere l’oggi

Lo stile lo ha proposto ancora papa Francesco quando, scrivendo sulle omelie, ha detto che dobbiamo contemplare la Parola e il popolo. Il popolo viene salutato, abbracciato, sostenuto, riconosciuto come presenza e fonte evangelica. Gli si augura il buongiorno e la buona sera, il buon pranzo; un’accoglienza cordiale e normale.

Lo stile nasce da una vita contemplativa e creativa attraverso la quale incontriamo gli impoveriti e il popolo, sapendo guardare, ascoltare e rispondere impegnativamente. Matura così uno sguardo critico che analizza le cause e le conseguenze, si lascia coinvolgere (toccare) dalla vita della gente, e interrogare dalla realtà.

È un ascolto attivo ed empatico; un ascolto mite. Cito un pensiero di Martini che è stato il padre che ha nutrito il mio/nostro cammino: «Credo che la chiesa debba farsi comprendere, innanzitutto ascoltando la gente, le sue sofferenze, le sue necessità, i problemi, lasciando che le parole rimbalzino nel cuore, lasciando che queste sofferenze della gente risuonino nelle nostre parole» (dalle dichiarazioni del card. C.M. Martini, riferite all’omelia tenuta a Betlemme il 15.3.07).

Il rapporto con la Parola

La mia famiglia clarettiana ha così sintetizzato il riferimento alla Parola. Testimoni profetici attraversati da un amore che convoca e mobilita con passione e coraggio per il Regno; che incide per uno stile di vita nella fraternità, semplicità e sobrietà.

La missione è di Dio, noi siamo i servitori e mediatori della sua missione. Questo esige un discepolato intelligente della sua Parola alla quale dedichiamo la vita. Una Parola che deve essere accolta e abitata dal silenzio; questo ci permette di sentire le dimensioni più profonde della storia degli altri, della nostra storia.

Il processo come criterio

Il criterio dei processi e non tanto quello dei luoghi o delle iniziative è quanto abbiamo imparato a vivere assieme alla necessità di uscire sempre più dall’autoreferenzialità per giocare un intreccio a rete delle varie esperienze, comprese quelle di un’economia che abbia conto dei poveri.

È vitale l’affido reciproco, espressione di una fiducia che ci viene donata e per la quale stiamo in piedi, per costruire una rete che promuova una fermentazione personale e collettiva.

Il verbo fermentarsi è un verbo aggressivo, di contagio, di tramutazioni, di perdita e di spaesamento; richiede il riconoscersi e l’entrare in gioco di due soggetti che si “toccano” e ne accettano il rischio. Sottolineo che possiamo essere due soggetti stranieri gli uni agli altri, chiamati a superare le barriere delle paure per vivere rapporti di conoscenza, di curiosità, di interesse reciproco per arrivare ad una possibile amicizia che è strada verso la fraternità.

Credo che questa sia la questione più seria di questo nostro tempo: renderci conto che siamo chiamati a entrare in un processo di cambiamento, dal singolo, alla rete, all’umanità.

Cambiare è ritmo difficile. Il cammino della nostra libertà si è nutrito della sapienza e del sapore delle persone incontrate. Siamo cresciuti assieme agli altri, ma ci è stato chiesto di perdere qualcosa di noi, e che non abbiamo timore di sprecare, in tempi di crisi, il meglio di noi per offrire sementi per il futuro.

La notte imminente ci chiede di vigilare, vegliare; non tanto per la paura del male dal quale difenderci ma per l’arrivo del Signore, che ci sorprenderà con la sua abbondanza di vita.

Care amiche e amici che leggete

Un saluto e un augurio per la vostra vita personale e per quella delle persone con le quali vivete.

Grazie per la vostra amicizia e fiducia con la quale avete sostenuto il mio servizio e mi avete rivelato con la vostra vicinanza l’amore di Dio.

Grazie alla mia famiglia missionaria, i clarettiani, che hanno accompagnato tutta la mia vita, per il dono della Parola e della fraternità.

Grazie alle donne e uomini che, nell’esperienza di via Gaggio, del CNCA, dei vari servizi svolti negli anni, hanno segnato i miei passi.

Grazie al piccolo nucleo della mia famiglia: i miei genitori che mi hanno trasmesso la serietà e la fatica di vivere, la fiducia negli altri che ho diviso con mia sorella e le sue figlie e con quanti ho incontrato nella vita.

angelo@comunitagaggio.it

Agosto 2016

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