Le virtù del ministero /2: coraggio

di:

virtù

Il coraggio più grande, sai,
lo abbiamo all’inizio
quando nasciamo come erba
e passiamo sull’orlo
di tutte le cose
visibili
poi impariamo a parlare
a scrivere, a essere
scaltri
prudenti
a mostrarci di sasso, farci
accorti
ed è come imparare
a sognare da morti (Maurizio Mattiuzza, 1965, da Gli alberi di Argan, La vita felice, 2011).

Nella drammaticità dei tempi che viviamo assistiamo al declino progressivo del coraggio. Fu Alexsandr Solzhenitsyn a dare l’allarme, inascoltato, nel famoso discorso di Harvard del 1978, allorché attaccò le tronfie oligarchie culturali del sedicente mondo libero. “Il declino del coraggio è la caratteristica più sorprendente che un osservatore riscontra in Occidente. (…) [Esso] è particolarmente evidente tra le élites intellettuali dominanti, generando l’impressione di una perdita di coraggio dell’intera società. Vi sono ancora molte persone coraggiose, ma non hanno alcuna determinante influenza sulla vita pubblica. Funzionari politici e classi intellettuali manifestano questo declino, che si concretizza in passività e dubbi nelle loro azioni e nelle loro dichiarazioni. E ancor di più nel loro egoistico considerare razionalmente come realistico, ragionevole, intellettualmente e persino moralmente giustificato il poter basare le politiche dello Stato sul servilismo e sulla vigliaccheria”.

La viltà, l’opportunismo, la mancanza di spina dorsale, il conformismo, la passività codarda si sono impadroniti della nostra società, diventando tratto dominante.

Secondo un poeta inglese del XIX secolo, tempo in cui il coraggio godeva ancora di ottima reputazione, quasi tutti gli uomini sono dei vigliacchi e non osano agire secondo le loro convinzioni (quando le hanno). Eppure, tutto ciò che ha mandato avanti il mondo è dovuto a chi ebbe il coraggio delle sue azioni.

Il coraggio ha abbandonato anche gli uomini di fede, e persino molti presbiteri. Eppure, vi perseguiteranno nel mio nome, avvertì il Fondatore.

Fortunatamente non mancano però tanti presbiteri che semplicemente esercitano il loro ministero, sono al loro posto, e vivono il primo, fondamentale coraggio quotidiano.

La vigliaccheria è contagiosa, lo verifichiamo mille volte al giorno, ma lo è anche il coraggio; esso, inoltre, è la virtù dei giovani, poiché alberga generosità ed entusiasmo; è un inno alla vita perfino quando la mette a rischio.

Intristisce l’eccesso di cultura della cautela e delle “prudenze carnali” (don Tonino Bello) che aleggia nel mondo ecclesiastico. Intendiamoci: nessuna stupida temerità, nessuna adrenalina a ogni costo, attitudine individualista e sottilmente nichilista, ma urge mettersi alla prova, tentare strade nuove, andare oltre.

Non sappiamo se chi ha fede ha più coraggio, ma certo la fede è una componente del coraggio.  Un libro recente, del francese François Bousquet, si intitola semplicemente Coraggio![1] Datemi una leva e vi solleverò il mondo: questa leva è dentro di noi e si chiama coraggio; ecco l’incipit. Senza il coraggio, nulla di grande ha mai visto il giorno: forse per questo incombe la notte del mondo di cui parlava Heidegger.

Il coraggio, non la paura o la cautela, è la nostra patria. Per Ernst Jünger, è il vento che ci conduce alle rive più lontane. Ma l’homunculus post moderno vuole viaggiare verso qualche approdo, o si accontenta dell’immobilità, del tetto sicuro, del presente sanificato e denaturato? Non necessariamente il coraggio è ribelle, ma sempre è presente nella bisaccia di chi dissente, di chi pronuncia apertamente dei sì e dei no.

Dobbiamo riconoscere che, ancor prima che di coraggio, noi siamo esperti di paura, conosciamo tutte le paure, le nostre e anche quelle di tante sorelle e fratelli che si affacciano alla comunità cristiana portando le loro paure. Siamo esperti di debolezze, le nostre e quelle degli altri, di fragilità, e anche di viltà, di tradimenti, di pigrizie, non possiamo nasconderci che forse, ancor prima che di coraggio, siamo esperti di tutto questo.

Il 4 agosto 2019, papa Francesco in occasione del 160° anniversario della morte del santo Curato d’Ars (4 agosto 1859) invitava tutti i presbiteri a “rinnovare il coraggio vocazionale del ministero presbiterale, frutto soprattutto dell’azione dello Spirito Santo nelle nostre vite”.

È altresì è significativa l’esortazione al coraggio che ci proviene dall’esortazione apostolica Evangelii gaudium, che ci invita con forza a considerare «i mali del nostro mondo – e quelli della Chiesa – come sfide per crescere» e non come «scuse per ridurre il nostro impegno e il nostro fervore» (EG 84)[2].

Disamina del pensiero classico

Cosa è il coraggio? Intanto è una virtù, questo lo aveva già chiarito Aristotele e ancor prima Platone, mettendolo tra le quattro virtù etiche. Ovvero, per dirla come Cicerone (85 a.C.), molti secoli prima e sinteticamente, «affrontare deliberatamente i pericoli e sostenerne la fatica»[3].

«Deliberatamente» non è un termine casuale perché l’atto coraggioso implica la volontà di agire in tale senso. Questa volontà è, a sua volta, collegata, per quanto umanamente possibile, alla conoscenza della situazione di partenza e delle implicazioni che l’atto coraggioso comporterà[4].

Esiste quindi un nesso molto stretto tra conoscenza e coraggio: si teme quel che si ignora, si affronta a viso aperto ciò che si esamina attentamente; l’atto coraggioso è il frutto di un’accurata riflessione fondata sulle proprie esperienze e conoscenze (discernimento).

Platone (V sec. a.C.) definisce l’anima come composto da tre parti nobili, che sono: ragione, coraggio e istinto, tra loro connessi con questo meccanismo: l’istinto deve essere guidato dal coraggio che a sua volta è guidato dalla ragione[5].

Emerge così la connessione stretta tra coraggio e conoscenza: se tu conosci non temi. Questa è la vera discriminante tra coraggio e temerarietà, che si fonda invece sulla sconsideratezza, a sua volta frutto dell’ignoranza, cioè di una inadeguata riflessione e conoscenza di se stessi e di quel che succede intorno[6]. Il secondo concetto cui Platone àncora il coraggio è quello della responsabilità sociale e del rispetto di norme trasparenti cui tutti devono far riferimento.

Aristotele (IV sec. a.C.), in coerenza con la lezione di Platone, inserirà il coraggio tra le virtù morali fondamentali, che sono: prudenza, coraggio, temperanza e giustizia, e definisce il coraggio come un «giusto mezzo» tra paura e temerarietà. Un eccesso di paura porta alla codardia, un eccesso di audacia porta all’avventatezza[7].

Questi concetti che vengono dal mondo classico antico verranno ripresi e impreziositi dal pensiero cristiano massimamente e magistralmente da san Tommaso D’Aquino (XIII sec. d.C.), il quale darà nuovi impulsi al concetto di coraggio illuminandolo della luce della fede cristiana.

Sarà san Tommaso, nella rilettura cristiana del concetto aristotelico di coraggio, secoli più tardi, che chiamerà il coraggio «fortezza, che non recede dalla giustizia a causa delle avversità»[8] e definisce il coraggio come la «virtù della forza» che si esprime sia attraverso la «resistenza» sia attraverso l’«attacco»[9].

Un primo aspetto affrontato da Tommaso D’Aquino, è la durata dell’atto coraggioso. Ecco il suo legame con il tempo (perseveranza). Si potrebbe pensare che il coraggio sia sic et simpliciter una virtù del presente. In realtà non si può far prescindere il coraggio da una sua concreta collocazione spazio-temporale. La virtù del coraggio, infatti, si compone di due anime diverse ma complementari: da una parte, la fermezza d’animo da cui discende l’iniziativa ideomotoria (decidi e agisci con coraggio al presente); dall’altra, la perseveranza a perseguire con pazienza l’obiettivo. In altre parole, è importante decidere l’atto coraggioso, iniziarlo ma anche proseguirlo per tutto il tempo necessario. In questo è rilevante la pazienza.

Ne ricaviamo che il coraggio è una virtù che guarda sempre al futuro. E questo è molto importante: non basta aver coraggio all’inizio dell’azione coraggiosa ma bisogna perseverare nel tempo, restare fedeli all’azione.

Per san Tommaso l’uomo è virtuoso solo se agisce in vista del bene proprio e degli altri. Solo così il coraggio diventa una virtù morale e razionale. Se ciò non accade, il coraggio degenera nella sua forma perversa che è l’audacia del temerario (che è il coraggio irrazionale, quindi non legato alla ricerca del bene secondo ragione).

Per essere coraggiosi non basta essere forti di fronte alla sofferenza e alla sopportazione: ciò che conta è anzitutto il bene (come fine ultimo) in vista del quale si è disposti ad affrontare queste sofferenze. La fortezza di cui parla Tommaso è vero coraggio solo se permeata di forza morale.

Ne discende la necessità che il coraggio si accompagni alle altre tre virtù cardinali, addirittura con valenza unificante per tutte loro. Scrive Tommaso: il coraggio «è condizione di tutte le altre virtù»[10]. Il nesso tra il coraggio e le altre virtù è biunivoco: da una parte, il vero coraggio (cioè moralmente determinato) esiste solo in presenza delle altre virtù; dall’altra parte però, le altre virtù, a loro volta, per essere operative, necessitano di quella iniziativa ideo-motoria dell’inizio dell’agire virtuoso che solo il coraggio ti dà.

Sappiamo che le virtù cardinali di Tommaso sono le classiche quattro virtù umane fondamentali di Aristotele. Per Tommaso il coraggio, nell’etica cristiana, sta al terzo posto nel percorso dell’agire virtuoso. Quindi, al primo posto non a caso ci sta la prudenza, che coincide con la ragione; al secondo posto, la giustizia che rappresenta il senso di equilibrio discendente dalla ragione. Se non esistessero a monte queste due virtù, l’agire coraggioso non sarebbe prudente e giusto e dunque autenticamente coraggioso, cioè orientato al bene, ma rischierebbe al contrario di essere solo fine a se stesso o, peggio, indirizzato addirittura al male. Il coraggio è coraggio autentico solo se prudente e giusto. Ecco il nesso tra coraggio e conoscenza. Ritorna alla ribalta quanto già affermava Cicerone, come prima ricordato a proposito di «affrontare deliberatamente i pericoli».

Il vizio principale che si oppone al coraggio è la vigliaccheria, che è quando permetti alle tue paure di dominarti ed eviti ogni rischio di dolore e rinunci a fare ciò che è giusto.

È anche vero che il coraggio può anche andare troppo lontano e cadere nei vizi dell’imprudenza, dell’avventatezza, della sconsideratezza e dell’incoscienza. Questo accade quando non si ha sufficiente paura delle cose che si dovrebbero temere.

Coraggio e paura

Coraggio e paura infatti non sono opposti (come siamo soliti pensare) ma piuttosto due lati della stessa medaglia. “L’importante non è stabilire se uno ha paura o meno, è saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa. Ecco, il coraggio è questo, altrimenti non è più coraggio ma incoscienza” (Giovanni Falcone).

Così parlava il giudice Giovanni Falcone, uomo che di coraggio ne ha avuto molto. Il coraggio non è quindi l’assenza di paura (incoscienza), ma piuttosto la capacità di saper accoglierla e di continuare lo stesso.

La primissima cosa, quindi, è accettare le tua paura! Paura e coraggio non sono contrapposti, ma si intrecciano tra loro. Il coraggio è quella forza che ci spinge ad agire (ad avere cuore). La paura, invece, è l’emozione che ci evita di diventare incoscienti. Non è lì per bloccarci (quello sarebbe il terrore), ma solo per ricordarci di stare attenti, così, anche se cadiamo, non ci facciamo troppo male!

Avere coraggio non significa non avere paura. La mancanza di paura è una malattia o, nel caso migliore, un eccesso di sicurezza. Il coraggio è una gestione funzionale della paura, che permette di superarla e sublimarla.

Essere coraggiosi significa agire, proseguire… nonostante la paura. Significa accettare quel tremolio nelle gambe, quei brividi dietro la nuca, quelle scariche di adrenalina che vorrebbero portarti via da dove stai, ma senza scappare. Significa accettare la sfida e affrontarla di petto, al meglio delle nostre capacità. Ma la paura è sorella maggiore del coraggio: senza di lei, non esiste coraggio.

La paura è l’emozione che più di altre ci sta segnando in profondità in questo tempo di pandemia: ci toglie il respiro, ci costringe sulla difensiva e, al contempo, ci rende istintivamente più aggressivi. Ma avere paura suggerisce, non è sempre un’esperienza totalmente negativa e, nelle situazioni estreme, sa far emergere con più chiarezza la verità su noi stessi: è solo infatti quando realizziamo di essere incatenati che possiamo intraprendere il percorso verso l’autentica libertà.

Il contatto con il pericolo può farci comprendere chi siamo: una mente impaurita, senza dubbio, ma in potenza anche un cuore che supera il timore, ed è capace di conoscere e poi sconfiggere con il coraggio i pericoli della realtà. Noi siamo paura, ma possiamo diventare coraggio e riuscire così a essere migliori.

Dimensioni e potenzialità del coraggio

Altro punto fermo riguarda le dimensioni del coraggio. Se ne identificano tre fondamentali:

  • Fisica (coraggio fisico): si manifesta nell’affrontare la sofferenza fisica o la morte fisica per salvare gli altri o se stessi;
  • Psicologica (coraggio psicologico): si manifesta nel fronteggiare qualunque evento drammatico (ad esempio, un fallimento, un lutto, una malattia debilitante, una pandemia ecc.).
  • Morale (coraggio morale): mantenere la propria integrità morale e attenersi a principi etici di comportamento. La dimensione morale del coraggio è la forza di mantenere la propria integrità etico-morale e si riflette su pensieri, motivazioni, e alla fine, sulle scelte fatte da un individuo (osservabili). In proposito, in più studi si rimarca la relazione positiva tra questo coraggio di essere se stessi, sulla base dei propri principi, e la reputazione di cui si vuole godere presso gli altri (ad esempio, Harbour e Kisfalvi, 2014).

Il coraggio, dunque. è un unicum fatto di queste tre dimensioni che coesistono e si esprime in una vita interiore (le emozioni) e una esteriore relazionale, attraverso atti osservabili (le azioni).

Ci sono poi quattro potenzialità della persona coraggiosa:

  • Audacia (valore): include naturalmente l’audacia fisica ma non si limita necessariamente ad essa;
  • Persistenza (perseveranza, laboriosità, pazienza): la forza di portare a compimento ciò che si è iniziato;
  • Integrità (autenticità, onestà): la forza di essere trasparenti e sinceri, ma più in generale sapersi assumere la responsabilità di pensiero e di azione;
  • Vitalità (entusiasmo, vigore, energia, generosità): approcciare la vita con passione ed energia, non fare né cose a metà, né con superficialità o con poco cuore; sentirsi vivi e sempre attivi.

Il coraggio implica integrità, perseveranza e dunque volontà di affrontare rischi, minacce, paure, ma anche di curare i propri punti di debolezza (Escrivà, 1994, p. 259). È importante soffermarci sull’audacia, che «non è imprudenza, né ardimento né semplice coraggio» (Ivi, p. 271). È il coraggio che permette di affrontare situazioni difficili anche drammatiche, in cui è in discussione la stessa sopravvivenza e quindi non si ha altra scelta. In questo senso, è anche una virtù che ha in nuce il sentimento della speranza: nessuno rischia o mette in gioco persino la propria vita se non nutre speranze di un futuro migliore grazie al proprio atto di coraggio.

Ogni volta che una persona si batte per un’idea, agisce nell’intento di migliorare la situazione degli altri, o si scaglia contro un’ingiustizia, mette inmoto sottili rivoli di speranza che, convergendo da mille sorgenti di energia e di coraggio, vanno a formare una corrente in grado di travolgere il più poderoso muro di oppressione e resistenza». (Robert Kennedy).

Il coraggio implica anche vitalità, entusiasmo. L’entusiasmo è energia, slancio, fede, potenzialità fondamentali della persona coraggiosa.

Tipi di coraggio
  1. Coraggio del “vino nuovo”

È il coraggio di muoversi nell’ignoto provando qualcosa di nuovo, cercando nuovi spazi e opportunità agendo proattivamente anziché reattivamente. È il tipo di coraggio che richiede più capacità di gestire l’errore.

Questo tipo di coraggio si manifesta in alcuni comportamenti quali: lanciare un nuovo progetto, presentare qualcosa di nuovo, offrirsi volontari per cambiare ruolo o per un progetto, effettuare una riorganizzazione, fare un cambio di vita.

Ogni tipo di coraggio ha i suoi rischi connessi (altrimenti non parleremmo di coraggio) che genera resistenza all’agire. Per quanto riguarda questo primo tipo, il rischio è farci del male sbagliando, o ferire chi ci è vicino.

«Osare è perdere solo momentaneamente la propria strada. Non osare è perdere se stessi» (Kierkegaard). Ecco che il coraggio sprona a mettersi in viaggio, senza scansare le zone d’ombra e la fatica. Senza coraggio non c’è cambiamento, non si cresce.

  1. Coraggio di affidarsi

Mentre il primo tipo di coraggio è di tipo “attivo”, questo ha una componente “passiva”. Il coraggio di avere fiducia, infatti, richiede la capacità di mettersi nelle mani degli altri, accettando l’incertezza che deriva dalla perdita di controllo.

In questo tipo di coraggio rientrano alcuni comportamenti quali delegare a qualcuno un compito importante, cedere una posizione di leadership, assumere le buone intenzioni da parte delle persone attorno a noi, affidarci alle informazioni e alle esperienze di qualcun altro.

Il rischio collegato a questo secondo tipo di coraggio non è quello di fare male agli altri, ma che, nel concedere fiducia, gli altri ci facciano del male. Dando fiducia agli altri, offriamo il fianco e ci rendiamo vulnerabili.

  1. Coraggio di parlare

Il coraggio della parola è quello di far sentire la nostra voce per quanto la verità possa essere dura per gli altri, e a volte anche per noi stessi. È il coraggio di non mordersi la lingua quando crediamo fortemente in qualcosa. Dire qualcosa per compiacere gli altri, o parlare alle spalle degli altri, sono manifestazioni di un basso grado di questa tipologia di coraggio. Il coraggio è combattere per ciò in cui si crede. «Di’ quello che pensi, anche se la tua voce trema» (Maggie Kuhn).

Questo tipo di coraggio è messo in luce da alcuni comportamenti come sostenere le proprie ragioni quando si crede davvero in qualcosa, dire la verità ed esprimere il proprio pensiero indipendentemente dal livello gerarchico o sociale dell’interlocutore, dare un feedback trasparente sia verso l’alto (il proprio capo) che verso il basso.

Il rischio connesso a questo tipo di coraggio ha spesso a che fare con la paura di offendere gli altri o di non essere accettati all’interno di un gruppo e di essere tacciati (dai capi di turno) di rompere la comunione, come se la comunione fosse sinonimo di omologazione, tentazione ricorrente in ogni istituzione, anche ecclesiastica.

Il coraggio è un elemento decisivo della crescita umana e si configura come coraggio di essere se stessi. Questo comporta il coraggio di pensare con la propria testa, certamente confrontandosi e dialogando con altri, passando al vaglio le proprie idee e posizioni, ma osando esprimere la propria opinione anche se minoritaria o disprezzata da altri. Il coraggio di essere se stessi implica la capacità di “dire di no”, fuggendo le tentazioni di compiacere altri e di adulare chi è più forte e potente di noi.

Così il coraggio diviene capacità critica, attitudine di chi non si rende dipendente dagli altri e subordinato a loro, ma osa se stesso, la propria parola, il proprio pensiero, disposto sempre a correggersi e a riconoscere gli eventuali errori. Niente di peggio che abdicare a se stessi per timore del giudizio altrui, per timidezza, per paura di sbagliare. Questo atteggiamento, infatti, ci lascia nell’amarezza di aver compiuto un tradimento nei confronti di noi stessi. Essere se stessi implica anche il coraggio di cantare fuori dal coro e dunque il coraggio della solitudine.

Per paura di restare “tagliati fuori”, di essere esclusi dal gruppo, di ritrovarsi emarginati, si può finire con l’adeguarsi e l’omologarsi al linguaggio, agli atteggiamenti e al pensiero dominanti. Si finisce con il fare come fanno tutti solo per pavidità, tiepidezza, convenienza, vigliaccheria. La verità è che il coraggio implica un certo grado di divergenza dalle opinioni correnti, di contrapposizione all’andazzo dominante, di oppositività. Occorre il coraggio di parole scomode[11].

  1. Coraggio di amare

Il coraggio di amare è il coraggio di donare agli altri in maniera incondizionata, senza pensare al ritorno che possiamo ottenere dalle nostre azioni. Questo tipo di coraggio è il cemento delle relazioni ed è diametralmente opposto al comportamento di coloro che danno solo quando pianificano strategicamente un ritorno o di coloro che accentrano tutto su di loro prendendo e basta.

Questa tipologia di coraggio porta a mettere i propri interessi in secondo piano rispetto a quelli degli altri e, nella sua forma più alta, mira a creare circoli virtuosi in cui le persone aiutandosi ottengono di più di quanto potrebbero fare se agissero individualmente. Lo scopo del dare non è quello di ottenere in maniera diretta da colui il quale si è dato ma creare un ambiente in cui le persone, aiutandosi, ne escano arricchite sia individualmente che come gruppo.

Il coraggio ci chiede dunque che cosa amiamo a tal punto da osare andare oltre e anche contro il nostro tornaconto nell’agire, nel parlare, nel vivere. Sì, il coraggio si nutre di orizzonti vasti ed estesi, che superino l’asfittico individualismo e colgano il valore grande del bene comune, del bene dell’altro. Il coraggio ci libera dalla tirannia del detestabile ego. Ovvero, il coraggio si radica nell’amore.

“L’amore è intrepido” dice il cardinal Federigo Borromeo al pavido don Abbondio che, minacciato, aveva rifiutato di celebrare il matrimonio di Renzo e Lucia, e aveva avanzato come misera scusante il fatto che “il coraggio, uno non se lo può dare”. Mancare di coraggio, di “cuore”, è mancare di amore. L’amore è coraggioso: per amore io posso intraprendere azioni o sopportare situazioni dure e difficili. Ma tutto in vista di ciò che amo: lo sguardo coraggioso è vinto dall’oggetto amato più che dalla constatazione dei rischi. Ha scritto Agostino di Ippona: “Il coraggio è un amore che sopporta facilmente ogni cosa in vista di ciò che ama” (I costumi della Chiesa cattolica I,15,25).

Il coraggio non è una virtù innata, la si apprende praticandola giorno dopo giorno. È un’intelligenza del cuore che ci fa guardare con lucidità le situazioni di paura per vincerle, ci spinge a cercare quello che innalza e migliora la nostra vita. Se la paura ci rende schiavi, il coraggio può renderci liberi.

Nell’azione coraggiosa l’uomo emerge nella sua compiutezza umana: nella sua unicità, non intaccata dalla tentazione di compiacere altri; nella sua libertà, non incrinata dal piegarsi servilmente al volere altrui; nella sua irripetibilità, non compromessa dal rimandare a un ipotetico domani ciò che è richiesto hic et nunc, qui e ora; nella sua dignità, non corrotta dall’adulazione del potente di turno.

Gesù maestro di coraggio

Nel romanzo di Manzoni, la ritorsione del cattivo e potente don Rodrigo colpisce il coraggioso fra’ Cristoforo, che verrà poi trasferito in un lontano convento. Il pavido don Abbondio, invece, non subirà vendette e potrà tranquillamente continuare le sue letture serali sui libri che parlano di Carneade.

«Il nostro Don Abbondio, non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno, si era dunque accorto d’essere in quella società come un vaso di terracotta costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro». E De Sanctis scrive: «Come in Don Rodrigo, così in Don Abbondio il senso del bene e del male è oscurato e il mondo è guardato, giudicato attraverso un’atmosfera viziata. Il demonio del potente Rodrigo è l’orgoglio, il demonio di Don Abbondio è la paura».

È proprio questo che porta i molti don Abbondio contemporanei a non esprimere mai una propria opinione, ovvero il frutto di una convinzione generata da un loro intimo ragionamento su una data questione, bensì, si riducono a mugugnatori solitari e così, frequentemente, i don Abbondio subiscono anche un’involuzione genetica che li porta ad associare alla viltà un’altra caratteristica caratteriale non certo meritevole di lode, l’ipocrisia.

Impariamo la lezione dal Maestro di Nazaret. Gesù non si lascia intimorire dalle autorità religiose, dagli scribi, e dice il proprio pensiero e la propria comprensione del mistero di Dio osando la propria originalità. E non esita a usare toni aspri contro chi fa della propria posizione di autorità uno strumento di potere (cf. Mt 23).

Gesù è esempio di una parola audace, libera, coraggiosa. Il suo parlare esprime quella parresia che è essenziale alla testimonianza cristiana e che caratterizzerà la predicazione degli apostoli nella chiesa primitiva (cf. At 2-5). Predicazione che trova nell’affermazione di Pietro: “Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini” (At 5,29) la fonte del suo carattere impavido.

Di Gesù si dice: “Mai un uomo ha parlato così” (Gv 7,46). E le sue parole sono un perenne insegnamento: la parola dev’essere libera e coraggiosa, veritiera, deve rispettare l’interlocutore, deve farsi dialogo per gettare ponti di comprensione tra le genti, deve fuggire la viltà della menzogna, deve all’occorrenza farsi urlo e gridare lo scandalo dell’ingiustizia, deve denunciare i comportamenti di chi fa il male, non deve temere le conseguenze a cui si espone. La parola è luogo privilegiato di manifestazione del coraggio.

Ma anche i gesti di Gesù osano sfidare gli assetti costituiti e le tradizioni consolidate. La cacciata dei cambiavalute e dei venditori di animali per i sacrifici dal tempio è un gesto profetico, scandaloso e audace che nasce dalla passione di Gesù per la verità e per Dio stesso (cf. Mc 11,15-19). Gesù non teme di crearsi dei nemici: la verità cui deve e vuole obbedire è rigorosa e lo conduce a scontrarsi con chi ha il potere di condannarlo e metterlo a morte. E proprio di fronte alla morte Gesù svela ancora una volta il suo coraggio e la sua libertà. Gesù è coraggioso perché è libero.

La prospettiva della sua morte gli incute timore, lo fa vacillare, lo getta nell’angoscia (cf. Mc 14,33), ma la preghiera (cf. Mc 14,32-42) e il silenzio (cf. Mc 15,4-5) con cui custodisce la sua relazione con il Signore e la sua convinzione di fare la volontà di Dio non la propria (cf. Mc 14,36), lo custodiscono nella determinazione di andare fino in fondo al suo cammino[12]. In un atto di estremo e coraggioso abbandono in Dio. Sia così anche per i noi presbiteri ai quali dedico i versi che chiudono questo mio contributo.

Dammi il supremo coraggio dell’Amore,
questa è la mia preghiera,
coraggio di parlare,
di agire, di soffrire,
di lasciare tutte le cose,
o di essere lasciato solo.
Temperami con incarichi rischiosi,
onorami con il dolore,
e aiutami ad alzarmi ogni volta che cadrò.
Dammi la suprema certezza nell’amore,
e dell’amore,
questa è la mia preghiera,
la certezza che appartiene alla vita nella morte,
alla vittoria nella sconfitta,
alla potenza nascosta nella più fragile bellezza,
a quella dignità nel dolore,
che accetta l’offesa,
ma disdegna di ripagarla con l’offesa.
Dammi la forza di amare
sempre
e ad ogni costo (Kahlil Gibran).


[1] F. Bousquet, Coraggio. Manuale di guerriglia culturale, Paesaggio del Bosco, 2021.

[2] Il termine “coraggio” ricorre tredici volte nell’esortazione Evangelii gaudium, in riferimento a diversi ambiti.

[3] Cicerone, De inventione, II.LIV.163.

[4] Cf. P. Paniccia, La virtù del coraggio nell’imprenditorialità: dal concetto etico cristiano al concetto imprenditoriale di coraggio, in F. D’Ascenzo – G. Ferri – M. Risso (a cura), L’umanesimo nell’economia globalizzata, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2015, pp. pp. 125-155,

[5] Platone, La Repubblica, VI, 502d; 504a -504d.

[6] Platone, Lachete, 192d.

[7] Aristotele, Etica Nicomachea, II, 1104a; 1107a, 34; III, 1115b, 21;1116a, 35.

[8] Tommaso, Summa Theologiae, I, art. 4. q. 227, 477.

[9] Tommaso, Summa Theologiae, II-II, q.123, a.6.

[10]Tommaso, Summa Theologiae, II-II.q.123.a.2.

[11] A. Bello, Non c’è fedeltà senza rischio. Per una coraggiosa presenza cristiana, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2000, pp. 79-81.

[12] Cf. L. Manicardi, Coraggio, non temere, Qiqajon, Magnano (Biella), 2013.

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