I cattolici e la politica /2

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Su Domani del 4 luglio Marco Damilano ha presentato una ricostruzione di alcuni passaggi della storia dell’impegno politico dei cattolici italiani che, a suo avviso, sarebbe da riprendere in questo momento critico come contributo del cattolicesimo odierno al paese. Dopo un nostro editoriale, interviene Franco Monaco.

Damilano è un brillante opinionista. Allievo di Pietro Scoppola e cultore della vicenda del movimento politico dei cattolici, poi approdato al giornalismo. Del suo meditato articolo, alcune tesi mi convincono, altre meno.

Tra le prime:

1) L’apprezzamento per le virtù e i meriti di quel mix di spiritualità, cultura e politica che va sotto il nome di «cattolicesimo democratico» e che, nel primo tempo della Repubblica, attraversava e trascendeva i confini della DC (spesso scontando una condizione minoritaria in essa): la cura per la distinzione tra Chiesa e politica, la cultura della mediazione tra principi etici e prassi politica, il senso/valore delle istituzioni come casa comune, l’attitudine al dialogo culturale e politico.

L’opposto del paradigma della «religione civile» e tanto più della miscela esplosiva di cristianesimo e nazionalismo della destra americana, dei partiti al governo in Ungheria e Polonia, nonché di qualche emulo della destra nostrana che ama esibire rosari e santini.

2) La memoria del disagio da esso patito nella non breve stagione della Chiesa italiana che ha conosciuto una regressione rispetto all’aggiornamento conciliare. Un tempo politicamente segnato dal paradigma dei «principi non negoziabili», cari al cardinal Ruini, con la conseguente mortificazione dell’autonomia laicale, la negoziazione non più mediata tra vertici ecclesiastici e vertici politici, l’avallo al protagonismo di movimenti presenzialisti che amavano «contarsi per contare», movimenti congeniali a quella visione del rapporto tra Chiesa, società e politica.

3) La scommessa sulle opportunità dischiuse dalla presidenza della CEI affidata al cardinale Zuppi, di cui sarebbero un primo segnale un sostegno aperto, non più timido, allo ius scholae e una reazione misurata e prudente alla sentenza della Corte suprema degli USA in tema di aborto. Così da scongiurare laceranti guerre politico-religiose sull’asse laici-cattolici.

Tuttavia ho qualche esitazione a spingermi sino a sottoscrivere la tesi centrale di Damilano, ovvero quella di una nuova promettente stagione dei cattolici quali attori-protagonisti nel campo dell’estensione dei diritti. Tesi apologetica, a mio avviso, un tantino esagerata.

Solo tre rilievi:

1) Merita intendersi sul concetto di «cattolicesimo democratico»: esso non è il tutto ma solo una parte del cattolicesimo politico che conosce molte altre varianti. È, segnatamente, quella parte che non si risolve (non si dovrebbe risolvere) nella mediazione, né nella semplice attitudine a stare con decoro dentro le istituzioni, ma che è (dovrebbe essere) connotata anche dalla tensione al cambiamento e persino da una ben intesa radicalità.

Custodendo e testimoniando una visibile (anche in politica) «differenza cristiana». Specie nella direzione di un di più di giustizia e di lotta alle disuguaglianze. Non aveva torto Ruini a rappresentare (dal suo punto di vista, criticamente) il cosiddetto cattolicesimo democratico come orientato a sinistra. Sotto questo profilo non mi pare che esso oggi sia adeguatamente rappresentato in sede politica. Il bilancio della sua attuale fecondità politica mi pare meno brillante di quanto non lo consideri Damilano, cui forse fa velo l’amicizia che lo lega a vari esponenti di quella tradizione da lui menzionati nel suo scritto. Per altro molto diversi tra loro.

Non ci si può contentare di uomini e partiti organici all’establishment. Né ci si può rassegnare all’enfasi sui diritti civili (individuali) a discapito di quelli sociali e del lavoro e di una visione dell’ordine mondiale non dogmaticamente occidentalista. Qui rilevo più insufficienze che non eccellenze.

2) È ragionevole scommettere sulla novità rappresentata dalla presidenza Zuppi, ma forse è prematuro interpretarla come una sicura svolta per il collettivo dell’episcopato italiano, che sin qui ha mostrato di faticare a tenere il passo di papa Francesco. Come in più circostanze ha fatto intendere lo stesso pontefice, con parole non sempre diplomatiche. E comunque i riflessi sulla politica interverrebbero semmai a valle di orientamenti pastorali sui quali più propriamente si producessero innovazioni. Diamo tempo al tempo. Ma capisco: il giornalista cerca la notizia e magari la confeziona in anticipo.

3) Non mi pare che nella cruciale riflessione sulla guerra il cattolicesimo democratico abbia mostrato un maturo discernimento, né una sostanziale unità. Semmai il contrario. Esso si è diviso tra posizioni acriticamente «americane» e posizioni ispirate a ingenuo pacifismo.

Le prime largamente dominanti tra chi riveste responsabilità politico-istituzionali; le seconde dentro la società e l’associazionismo d’ispirazione cristiana. Le prime sostanzialmente sorde ai moniti di Francesco (spesso liquidati con la nota formula esorcistica secondo la quale egli farebbe… il suo mestiere di papa, ma la politica è un’altra cosa); le seconde inclini contentarsi di fargli il verso.

Senza appunto quella mediazione politica che un po’ troppo generosamente Damilano accredita loro. O, forse, dando mostra di apprezzare la prima in un ottica un po’ troppo romana.

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2 Commenti

  1. Fabio Cittadini 12 luglio 2022
  2. Nino Labate 11 luglio 2022

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