Un’Europa da riscoprire

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L’Europa nacque bagnata. Pioveva infatti a Roma quel pomeriggio del 25 marzo 1957 quando in Campidoglio, nella sala degli Orazi e Curiazi, si firmarono i trattati istitutivi della Comunità Economica Europea. C’è un detto popolare: «Sposa bagnata, sposa fortunata». La gente sotto gli ombrelli coltivava una grande speranza.

trattati istitutivi della Comunità Economica Europea

Roma, 25 marzo 1957. Firma del Trattato che istituisce la Comunità Economica Europea

Nei documenti erano contenuti pochi concetti essenziali: l’unione doganale basata sulla diminuzione progressiva dei dazi tra i paesi membri fino a realizzare una tariffa unica verso l’esterno; la libera circolazione della merci e delle persone, l’istituzione di una banca per aiutare le aree svantaggiate. Inoltre, si costituì l’Euratom, un’agenzia per lo sviluppo dell’energia atomica a scopi pacifici.

La prima ritirata

La solennità della cerimonia romana non poteva trarre in inganno. I contenuti dell’intesa, che allora impegnava soltanto Germania, Francia, Italia e i tre paesi del Benelux, registravano già allora una riduzione delle ambizioni del disegno europeista.

Esso aveva preso corpo subito dopo la fine della seconda guerra mondiale con la costituzione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca) e doveva proseguire con il decollo della CED, la Comunità europea di difesa. Che però non era riuscita a sopravvivere, nel 1954, alla stretta del nazionalismo francese.

Può sembrare un paradosso, ma non è inesatto affermare che l’avanzata dell’Europa comincia con una ritirata. E questa sarà, nel tempo, una costante dell’intero processo comunitario che riuscirà sempre a codificare meno di quel che si era immaginato come necessario

Con questa chiave di lettura è possibile cogliere, nella trafila degli eventi degli ultimi sessant’anni, tre linee essenziali che corrispondono ad altrettante posizioni politiche: la linea unionista, la linea integrazionista e la linea sovranista. Che sono rimaste vitali all’interno dei compromessi di volta in volta realizzati.

La linea unionista

La linea unionista è quella dell’intuizione originaria riassunta nella formula degli Stati Uniti d’Europa. Pensata a Ventotene da Altiero Spinelli e da Ernesto Rossi nel vivo della tragedia della seconda guerra mondiale, tendeva a costituire una struttura unitaria, rispettosa della molteplicità delle culture, in grado di assumere in prima persona, come uno stato federale, le funzioni essenziali della sovranità: le relazioni internazionali, la difesa, la moneta.

Questa visione – gli Stati Uniti d’Europa – è rimasta intatta come riferimento ideale ed è tutt’ora coltivata dai movimenti federalisti che operano sul continente, ma non ha mai avuto una presa politica estesa e profonda nei comportamenti dei governi.

Forse il punto più vicino alle aspirazioni federaliste fu quello in cui si scelse di procedere, a fine anni Settanta, all’elezione popolare diretta del Parlamento europeo. Si immaginò, infatti, che i rappresentanti dei popoli europei avrebbero rovesciato il nazionalismo dei governi e impresso una spinta risolutiva alla vera unificazione del continente. Ma così non avvenne.

Tantomeno ci si avvicinò alla soluzione federale quando, all’inizio di questo secolo, si giunse a firmare, sempre a Roma un Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa. Esso venne bloccato dal voto francese, ma non aveva neppure la parvenza di una costituzione. Era infatti un testo di quasi 500 pagine che riproduceva l’intero acquis (il complesso delle direttive) degli organismi comunitari.

Chi si è lamentato della sciatteria redazionale delle più recenti proposte di riforma costituzionale avrebbe di che compiacersene nel paragone con quel farraginoso collage di prose burocratiche.

La linea integrazionista

Sostieni SettimanaNews.itLa linea integrazionista è stata la più intensamente frequentata. Il favore che ha trovato anche in sinceri fautori dell’Europa si basava sulla convinzione che, operando sulle aree di minore resistenza, cioè lasciando in pace le scelte di maggior peso politico, si sarebbe agevolata la convergenza tra gli stati e creata, per così dire, una consuetudine comune fino a raggiungere un punto di non ritorno.

Questa concezione del processo europeo ha avuto applicazione lungo due direttrici. La prima è stata l’estensione geopolitica dell’Unione, fino a passare dai 6 paesi fondatori ai 28 dell’ultimo censimento, con numerose altre candidature in attesa. L’altra direttrice ha riguardato misure che hanno inciso sul modo di vivere e di relazionarsi dei popoli europei. Si pensi, per fare due esempi, all’abolizione delle frontiere interne e alla libera circolazione, specie per i giovani, e alla moneta unica non solo come agevolazione degli scambi ma anche come incentivo alla percezione comune dei benefici dello stare insieme.

Per tanti aspetti dell’organizzazione sociale l’esistenza di normative comuni ha permesso di apprezzare largamente le ragioni della logica comunitaria. La riprova sta nella considerazione di ciò che sarebbe potuto accadere senza questa Europa pur incompleta e difettosa.

Anche qui solo un esempio. Nella mia libreria ha un posto di riguardo uno speciale volume di storia. Il testo è scritto da un comitato di autori francesi e tedeschi e si prefigge di offrire agli studenti dei due paesi «a ciascuno la visione dell’altro». Una narrazione comune – senza omissioni e addolcimenti – delle vicende di due popoli che si sono affrontati sui campi di battaglia in un secolare irriducibile conflitto. Il titolo è bilingue: “Histoire/geschicte L’Europa e il mondo dopo il 1945”, ma la narrazione è univoca. Quando l’ho avuto tra le mani, questo libro mi è parso più importante di un solenne trattato.

La linea sovranista

La linea sovranista, infine. Non è mai andata in vacanza e ha condizionato lo svolgimento delle procedure gradualiste. Ma soprattutto non è stata mai cancellata dalla scena, perché nessuna delle soluzioni istituzionali adottate in sede europea ha conquistato il carattere della definitività e dell’irreversibilità. L’idea che dall’Europa si possa uscire con la stessa facilità con cui si è entrati è rimasta sempre in campo, anche quando era sopraffatta dai successi e dai vantaggi dell’esperienza comunitaria.

Le difficoltà dell’economia, la pressione delle migrazioni, le paure indotte, le tentazioni di salvarsi da soli, i… cattivi esempi d’oltre Manica e d’oltreoceano: tutto questo ha ridato fiato e consistenza alle spinte nazionalpopuliste che oggi si muovono nel panorama europeo. E si presentano come l’attrazione politica di chi offre come una soluzione semplice – ognuno faccia per sé e fuori gli altri – la riproposizione di antichi problemi che evocano conflitti e tragedie.

Non è dato sapere quale sia la potenzialità di espansione di questo fenomeno che prende d’assalto l’Europa, e per essa le pur fragili realizzazioni del processo unitario, come le cause di tutti i mali del tempo presente e propone di risolverli con un’operazione sostanzialmente restauratrice dei recinti patriottici come luoghi della felicità.

Un debole contrasto

Appare invece evidente che la debolezza delle forze di contrasto consiste proprio nella difficoltà che si incontrano nel rilanciare le ragioni profonde dell’unità come risposta alle pulsioni frazionistiche e autarchiche.

L’iniziativa italiana della scorsa estate di riportare la causa europea al suo momento originario – quello del Manifesto di Ventotene – si è rivelata di corto respiro. E le proposte con cui ci si avvicina all’appuntamento del sessantesimo anniversario recano l’impronta di un ulteriore arretramento.

La suggestione principale che viene dalla Germania – quella di un’Europa a più velocità – è sicuramente dettata da considerazioni realistiche che però non compensano i suoi evidenti limiti.

Si può convenire sull’esigenza di graduare gli impegni di partecipazione unitaria se si chiarisce che c’è un unico itinerario che può essere percorso con velocità diverse ma avendo, per tutti, un traguardo ben definito.

Tutto sarebbe più credibile se, per ipotesi, Germania, Francia, Italia e Spagna diventassero da subito i promotori di una Unione che sia ridotta rispetto alla dimensione continentale ma qualificata già da subito da un governo federale con un ruolo di traino per l’intero convoglio. Si vorrebbe essere smentiti, ma l’impressione che si prova è invece quella essere in presenza di un aggiustamento che possa accontentare tutti. Come dire che la velocità di crociera sarà quella della nave più lenta del convoglio.

Sarebbe bello invece che, allo slogan lanciato da Trump – «prima l’America» –, si rispondesse con un altrettanto nitido «prima l’Europa». Per Europa intendendo qualcosa di meno friabile di quel che in sessant’anni si è riusciti a realizzare.

Dovrebbe essere chiaro che la velleità sovranista si può superare solo dando vita e spessore ad una sovranità (e ad una responsabilità) più larga ma non meno intensa ed efficace.

La stessa provocazione di Trump può fornire una motivazione e una spinta. La data del 25 marzo può essere un’occasione. Se non ci si ferma a commemorare.

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