Latour: un’eredità per il lavoro teologico

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“Che cosa ci permette di sopravvivere? Quali sono i nostri mezzi di sussistenza? Come sono minacciati tali mezzi di sussistenza? Cosa siamo pronti a fare? Perché? Che cosa stiamo facendo per resistere? Si tratta di domande molto semplici di sensibilizzazione e di orientamento, ma affrontarle collettivamente […] ha effetti veramente terapeutici. Nei nostri atelier avviene la condivisione collettiva delle descrizioni delle nostre condizioni di vita: è il primo passo verso un’articolazione politica, per poter esprimere interessi comuni. Abbiamo organizzato questi atelier in moltissimi contesti: comuni, parrocchie, nelle città, in campagna… All’inizio, i partecipanti affermano di sopravvivere grazie a cose completamente astratte, ma, alla terza o quarta ripetizione, esse diventano cose concrete. Può essere una fattoria la cui acqua è inquinata perché accanto c’è un autolavaggio. O qualcuno che ha una malattia di cui non si conosce la causa […]. Ogni volta constatiamo un effetto terapeutico, un effetto di conversione che permette di fare un passo avanti” (B. Latour)[1].

“Ho semplicemente capito una cosa: la verità ha diverse modalità, che i moderni hanno scoperto, e di cui non sanno cosa fare. La mia scoperta filosofica è di aver esplorato per 50 anni, e in modo sistematico, queste diverse modalità di verità. Abbiamo ammesso, abbiamo imparato, abbiamo compreso lo straor­dinario potere della verità scientifica, la straordinaria necessità della verità politica, il formidabile potere della finzione; e ora, con l’ecologia, la formidabile, essenziale e sostanziale esistenza della riproduzione degli esseri. Ora si apre una possibilità, che in precedenza era chiusa, di sostenere anche la verità religiosa” (B. Latour)[2].

La notizia della morte di Bruno Latour, avvenuta all’inizio di ottobre, ha certamente colpito coloro che nel tempo si sono accostati ai testi e al pensiero di questo intellettuale, considerato tra i più significativi della nostra epoca[3].

O, per meglio dire: Latour è tra gli intellettuali – tra cui, pur in altri ambiti, ricordiamo Ivan Illich e Paolo Prodi[4] – che hanno cercato di cercare un significato all’epoca che stiamo vivendo, diventando un punto di riferimento e di orientamento.

Una figura complessa e interrogante

È notevole come Latour abbia lasciato nell’imbarazzo chiunque volesse riferirsi a lui accostandolo a categorie intellettuali precise: sociologo, antropologo, semiotico, filosofo (bellissimo il suo testo di coming out filosofico[5]), addirittura teologo per alcuni aspetti della sua formazione ed esiti del suo pensiero.

Tale capacità trans-disciplinare è oggi un vero pregio, in un’epoca segnata dalla iper-specializzazione dei settori disciplinari e da singolari miopie umane, politiche e culturali. Per una sua breve descrizione[6] conviene perciò fare riferimento ad alcuni testi da lui scritti nei suoi settantacinque anni di vita, come per rappresentare, in una sequenza temporale, le tappe essenziali della sua proposta[7].

In conclusione ricordiamo una ragione di fondo per cui tale itinerario può essere eloquente – a livello di metodo, contenuti ed interrogativi – per la ricerca teologica (ed ecclesiale)[8].

Un itinerario articolato

Una prima tappa si trova nella sua tesi di dottorato – Exégèse et ontologie: à propos de la resurrection – in cui egli studia l’esegesi di Rudolf Bultmann in merito alla resurrezione di Gesù e si interroga sui modi in cui viene trovata, costruita, tradotta la verità.

Questa impronta esegetica – ossia questo interesse per l’interpretazione dei testi e dei contesti storici, sociali – plasma l’insieme del suo lavoro di ricerca e gli dona una sensibilità unica per i processi di tradizione intesi come reti di mediazioni e traduzioni.

Una seconda tappa è a Abidjian nella Costa d’Avorio post-coloniale. Lì, osservando il senso di superiorità manifestato dalla minoranza europea francese verso la popolazione locale, Latour non si chiese quali fossero le strutture “pre-moderne” della società ivoriana ma quali meccanismi portassero gli ex-colonizzatori ad auto-comprendersi come portatori di una cultura più avanzata.

L’osservazione preziosa di quegli anni confluisce in un testo scritto con Amina Shabou su Les idéologies de la compétence en milieu industriel à Abidjan (1974). A partire da lì Latour inizia a sviluppare il suo progetto di antropologia dei moderni, di studiare ossia le strutture e gli orizzonti profondi di coloro che si sentivano/sentono osservatori del mondo a partire dalla posizione privilegiata di “moderni”. Si tratta per lui di svolgere un’inversione dello sguardo ed applicare i metodi dell’etnografia, dell’antropologia e della sociologia non a tribù sperdute di una qualche zona sperduta del globo, ma ai moderni occidentali.

Laboratory life con Steven Woolgar (1977), La scienza in azione. Introduzione alla sociologia della scienza (1989). Queste opere pionieristiche mostrano come la ricerca sul significato dell’essere “moderni” prosegue in un laboratorio biomedicale californiano, in cui egli studia l’antropologia di un laboratorio scientifico – posto per così dire sul fronte avanzato della modernizzazione occidentale – e scopre come la scienza è frutto di una infinita serie di mediazioni, traduzioni, costruzioni, influssi, decisioni politiche e umane.

Questo non lo porta a screditare la ricerca scientifica come se fosse solo una costruzione sociale – accusa che spesso gli è stata fatta in quegli anni – ma a rendersi consapevole che la ricerca scientifica è anche ed inevitabilmente costruzione sociale, dentro una trama e frutto di interazioni multiple. In quel contesto egli si accorge che anche il mondo non umano (ad esempio: la natura che reagisce agli esperimenti e gli strumenti necessari per studiarla) ha una parte eloquente e partecipa al processo di costruzione della conoscenza scientifica e di faticosa ricerca del “vero”.

Il suo progetto – di una indagine antropologica della cultura occidentale attuale – continua. In Non siamo mai stati moderni (1991) – con una suggestiva introduzione all’edizione italiana di Giulio Giorello – Latour mostra che la distinzione moderna tra natura e cultura, tra fatti della scienza che studia la natura e quelli della politica che organizza la vita umana è una distinzione molto più porosa di quello che sembra.

Dello stesso anno è anche l’originale – e attuale – I microbi. Trattato scientifico-politico (1991) sul ‘dialogo’ tra il mondo microbico e chi lo studia scientificamente (e vi si rapporta politicamente). In tale quadro matura in maniera piena la riflessione sugli oggetti ibridi che sono un insieme di umano e non umano, un intreccio formidabile di natura e cultura. La relazione tra esseri umani e tecnologia, risulta così densa di interdipendenze e rimandi, al punto da non poter più dire con certezza chi fa fare qualcosa a chi.

Ne Il culto moderno dei fatticci (1996) con una felice invenzione linguistica indica la sovrapposizione tra l’oggettività dei fatti e la soggettività della credenza individuale nei feticci. Ne le Politiche della natura (1999) egli mostra la connessione strette tra i laboratori della scienza e le assemblee legislative, in cui le – molte e diverse – mediazioni sono la via necessaria per produrre una conoscenza che tende all’oggettività. In quegli stessi anni Latour inizia a parlare di un parlamento delle cose: chi, ad esempio, nelle nostre assemblee rappresenta i fiumi, i laghi, i ghiacciai, la biodiversità minacciata, l’aria inquinata…?

In tali studi riemerge potentemente l’atteggiamento esegetico e la consapevolezza dell’intreccio del reale. I laboratori, le assemblee politiche, la vita sociale non solo producono – nel loro sforzo di lettura del reale – testi, ma sono testi essi stessi che richiedono un grande sforzo di interpretazione per conoscere i vari livelli e strati di elaborazione e per comprendere il faticoso cammino della verità.

In questo sforzo di esegesi emerge sempre più chiaramente la natura composita della realtà che è umana e non umana, è naturale e culturale, è fatta di soggetti e oggetti tra loro intrecciati, è colma di attori – o meglio attanti – che si influenzano e si plasmano a vicenda. L’interdipendenza come chiave di lettura del reale è dunque il tema di Riassemblare il sociale Actor-Network Theory (2005, in italiano 2022), dove Latour ha sistematizzato l’intuizione di un’ontologia fondata sulla struttura, appunto, “reticolare” dell’esistente.

Questo significa ripensare alla base l’idea stessa di società dove le realtà umane fanno rete con quelle non umane. In questo sforzo Latour entra in dialogo con autori estremamente interessanti – quali Tim Ingold, Eduardo Viveiros De Castro, Philippe Descola – che, pur in maniera diversa, sostengono l’impossibilità di separare natura e cultura, permettono una ridiscussione dello sguardo from no-where tipico di molte pretese moderne occidentali – e forse anche di non poca teologia – e aiutano ad allargare potentemente le lenti di comprensioni del reale e della storia[9].

Tale progetto diviene poi una modalità di lettura complessiva – An Inquiry Into Modes of Existence (2013) – dei modi di attingere, rappresentare e dire l’esistente. Ricerche che sembrano singolarmente astratte, ma che hanno ricadute precise ed illuminanti in molti ambiti della vita sociale e quotidiana, si pensi, come esempio, al bellissimo testo sull’attaccamento e sul far fare degli attaccamenti umani – Fatture/fratture: dalla nozione di rete a quella di attaccamento – pubblicato nella rivista di etno-psichiatria di Piero Coppo[10].

Tale flusso di maturazioni porta Latour a comprendere in maniera originale la crisi successiva alla caduta del muro di Berlino (1989) e all’attacco alle torri gemelle (2001) come una crisi del modello occidentale di pace – che in definitiva è estremamente bellico[11] – e alla comprensione che un’altra guerra si è aperta: la guerra all’ambiente e al pianeta.

Si tratta dell’impegno degli ultimi serrato vent’anni di Latour. La consapevolezza ecologica – ossia dell’ingresso in un nuovo regime climatico – come segno di un’epoca diviene l’argomento affrontato in molti volumi recenti tra cui la raccolta – che raccomandiamo, a chi non conoscesse l’autore, come prezioso testo di ingresso nella riflessione latouriana – Essere di questa terra. Guerra e pace al tempo dei conflitti ecologici (2019) a cura di Nicola Manghi.

A questo vanno aggiunti La sfida di Gaia. Il nuovo regime climatico (2020) e Dove sono? Lezioni di filosofia per un pianeta che cambia (2022): l’umanità può avere un futuro solo in quanto sarà capace di pensare e assumere la sua interdipendenza con gli altri viventi e con la terra stessa, se sarà in grado di convertirsi da un pensiero che predilige l’idea rispetto alla realtà, e cercherà di uscire dalle astrazioni politiche, economiche, filosofiche per tornare ad atterrare sulla nostra fragile e finita terra.

Questo tipo di riflessioni sono ibride anch’esse: toccano la connessione tra l’umano e il non umano, le prassi e le scelte politiche, le strutture economiche, la pace e la guerra, la vita personale e quella spirituale. Sono i temi di due brevi ma preziosi testi: Tracciare la rotta come orientarsi in politica (2018) – che abbiamo qui presentato[12] – e, con Nikolaj Schultz, Mémo sur la nouvelle classe écologique (2022).

Testi in cui l’invito a schierarsi all’interno di un vero e proprio conflitto – per difendere la possibilità che la terra sia abitabile da tutti, umani e non umani, ora e in futuro – si unisce all’impegno per un lavoro di ri-sensibilizzazione personale e collettiva[13], che tocca l’intimità spirituale e le pratiche politiche[14].

Rileggere Latour: un appello per la teologia

Il percorso di Latour qui solo brevemente e superficialmente accennato è davvero ricco, poliedrico[15] e ricco di suggestioni per la ricerca teologica (e per quella ecclesiale). Il discorso sulla rilevanza di tale autore è già stato avviato[16], qui ci limitiamo a ricordare alcune osservazioni di fondo.

Il card. Martini e poi recentemente Papa Francesco hanno diagnosticato il ritardo secolare, 200 anni, delle categorie culturali utilizzate negli ambienti ecclesiali rispetto all’entità dei problemi attuali. Non si tratta solo della cultura accademica e nemmeno di piccoli aggiustamenti pastorali e comunicativi, ma di linguaggi, modi di sentire, pensare e agire che vanno aggiornati non per rincorrere il proprio tempo, ma per non abbandonarlo.

Questo vale certamente per la Chiesa, ma anche per molti mondi culturali, politici e istituzionali del nostro contesto che si trovano in una crisi simile a quella delle Chiese[17]. Per quanto riguarda la teologia, la non-revisione degli orizzonti di comprensione o il dialogo – fuori tempo – con questioni e domande di ieri rischia di aumentare l’esculturazione del linguaggio cristiano, che viene spesso proposto con parole stanche, con prassi stremate, con idee statiche di “natura” e “cultura”, con visioni rigide ed irrealistiche di soggettività e oggettività, con visioni antropologiche, quadri mentali e istituzionali che suonano irricevibili anche alle persone più sensibili ed in ricerca.

Davvero l’espressione di Latour «le bussole dei moderni hanno smesso di funzionare» pare estremamente precisa nel descrivere il nostro contesto culturale e quello teologico. Sembra di trovarsi nella situazione descritta dall’ebreo tedesco Walter Benjamin in Esperienza e povertà del 1933: poco dopo l’ascesa al potere di Hitler le esperienze precedenti che parevano solidi edifici che tutto spiegavano e garantivano non sembrano più tenere ed è necessario andare verso la necessaria povertà di nuove narrazioni, di «inizialità essenziali perché capaci di serbare il cuore di consegne antiche e la cura per il futuro di altri. In un esodo esigente, dai cammini non scontati» (Ivo Lizzola).

In tale lavorio di ripensamento ci pare sia importante riconoscere che “nuove culture continuano a generarsi in queste enormi geografie umane dove il cristiano non suole più essere promotore o generatore di senso, ma che riceve da esse altri linguaggi, simboli, messaggi e paradigmi che offrono nuovi orientamenti di vita, spesso in contrasto con il Vangelo di Gesù. Una cultura inedita palpita e si progetta nella città. […] Si rende necessaria un’evangelizzazione che illumini i nuovi modi di relazionarsi con Dio, con gli altri e con l’ambiente, e che susciti i valori fondamentali. È necessario arrivare là dove si formano i nuovi racconti e paradigmi, raggiungere con la Parola di Gesù i nuclei più profondi dell’anima delle città[18].

La questione è, così, entrare negli snodi profondi del farsi della realtà umana e sociale, dove si profilano le sfide del presente e del futuro per poter contemplare la ricerca/presenza di Dio[19] e testimoniare la parola evangelica[20]. Ci sembra che la ricerca di Latour – in questo tentativo di trovare le parole e le rappresentazioni più adatte per capire dove ci troviamo e dove possiamo atterrare – possa essere maestra di metodo e contenuti.

Un metodo attento, collettivo, non rigido, con un innato senso non-coloniale, capace di ascolto, di fare spazio e di osservazione precisa. Contenuti molteplici che aiutano a guardare la realtà altrimenti, a mettere in discussioni strutture mentali che sembrano immutabili, a individuare connessioni trasversali tra scienza e politica, tra natura e cultura, a rivelare che davvero “tutto è connesso”, a svelare ingiustizie sociali e ambientali, a cogliere le scelte che ci stanno davanti sulla pace e la guerra, a mostrare la connessione tra grido della terra e grido dei poveri[21], a illuminare la relazione profonda tra lavoro di lotta all’insensibilità personale e la responsabilità politica per la possibilità “di un mondo abitabile per tutti, umani e non umani”.

Una teologia responsabile che desidera orientarsi nei dedali contemporanei e cercare di comprendere e tradurre il vangelo nella nostra matrice umana e culturale[22] sicuramente riceve un appello potente dalla riflessione di Bruno Latour.


[1] https://www.laciviltacattolica.it/articolo/la-terra-grida/

[2] https://www.laciviltacattolica.it/articolo/la-terra-grida/

[3] https://www.theguardian.com/world/2022/oct/09/bruno-latour-french-philosopher-anthropologist-dies e https://www.raiplaysound.it/audio/2022/10/Fahrenheit-del-10102022-c7c49f04-6618-4cd4-bd30-b151440c5943.html

[4] Cf. M. Neri, Paolo Prodi, in M. Perroni – B. Salvarani (edd.), Guardare alla teologia del futuro, Claudiana, 2022, 216-223.

[5] http://www.bruno-latour.fr/sites/default/files/114-UNSELD-SSS-GB.pdf

[6] Cf. http://www.bruno-latour.fr/

[7] Cf. https://www.doppiozero.com/bruno-latour-idee-per-un-pianeta-che-cambia

[8] Su questo si veda http://www.settimananews.it/cultura/bruno-latour-rilettura-teologica/

[9] M.  Bontempi, Dalla temporalità dei moderni alle aspettative di futuro nell’Antropocene.  Un itinerario teorico attraverso Koselleck, Latour e Beckert, in Società Mutamento Politica 10 (2019), 155-164 https://oajournals.fupress.net/index.php/smp/article/view/11053/10900

[10] http://www.bruno-latour.fr/sites/default/files/downloads/76-FAKTURA-IT.pdf

[11] http://www.bruno-latour.fr/sites/default/files/downloads/81-GUERAePACE-IT.pdf

[12] http://www.settimananews.it/societa/apocalisse-di-fuoco-proposte-per-la-politica-e-la-teologia/

[13]Per questo tema si veda – in https://www.collegedesbernardins.fr/intervenants/bruno-latour e https://www.collegedesbernardins.fr/content/une-anthropologie-de-la-nature-face-gaia – la riflessione teologica ed ecologica condotta presso il College de Bernardins di Parigi: Les sources de l’insensibilité écologique: cerner l’origine proprement religieuse de l’insensibilité écologique, tout en l’explorant, dans la voie ouverte par le travail de Bruno Latour.

[14] Cf. B. Latour, «Si tu viens à perdre la Terre, à quoi te sert de sauver ton âme ?», in J.-N. Pérès (dir.), L’avenir de la Terre : un défi pour les églises, DDB, Paris, 2010, 51-72 e B. Latour, «Sur une nette inversion du schème de la fin des temps», in Recherches de science religieuse 107 (2019)4, 601-615.

[15] Cf. N. Manghi, «Intervista a Bruno Latour», Quaderni di Sociologia, (77) 2018, 107-128 https://journals.openedition.org/qds/2075

[16] Cf. il dossier nel numero 50 di gennaio-giugno 2022 della Rivista di Teologia dell’Evangelizzazione.

[17] “Ci si ritrova come i passeggeri di un aereo decollato con destinazione Globale, ai quali il pilota ha annunciato di essere costretto a invertire la rotta perché non è più possibile atterrare in quell’aeroporto, e che terrorizzati si sentono dire – ‘Ladies and gentlemen, this is the captain speaking again’ – che anche la pista di soccorso, il Locale è impraticabile” in B. Latour, Tracciare la rotta, Cortina, Milano 2000, 44.

[18] Papa Francesco, Evangelii gaudium 73-74.

[19] Papa Francesco, Evangelii gaudium 71.

[20] http://www.settimananews.it/societa/guardare-alla-citta-con-gentilezza/

[21] https://www.laciviltacattolica.it/articolo/la-terra-grida/

[22] http://www.settimananews.it/teologia/il-bar-e-la-teologia/

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Un commento

  1. Ferdinando Costa 30 ottobre 2022

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